Bibliomanie

Cozze amare. Napoli e i giorni del colera
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Cozze amare. Napoli e i giorni del colera
Come citare questo articolo:
Federica Gatti, Cozze amare. Napoli e i giorni del colera, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 7, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9881

Dall’alba dei tempi, e ancora oggi, le epidemie sono parte integrante delle vicende umane, ne segnano irrimediabilmente il corso, portando cambiamenti radicali e talvolta imprevedibili. Tra esse il colera, nei suoi circa 200 sierotipi1 di vibrione, è stata fin dall’antichità forse tra le più devastanti, in particolare per la città di Napoli. Anche per questo, l’infezione è stata oggetto di studio approfondito da prospettive assai disparate, non solo dal punto di vista medico-scientifico, ma anche per le conseguenze economiche, demografiche, sociali, religiose e culturali che ha generato nella città partenopea.2
Il colera è una malattia del tratto intestinale, caratterizzata dalla presenza di diarrea profusa, spesso complicata con acidosi, ipokaliemia3 e vomito che può essere trasmessa ad altri individui. È causata da un batterio a forma di virgola, il Vibrio cholerae, identificato per la prima volta nel 1854 dall’anatomista italiano Filippo Pacini4 e studiato dettagliatamente nel 1884 dal medico tedesco Robert Koch5.

1 Un disastro antropico
Nel 1973, il presidente della Repubblica era Giovanni Leone, alla Camera c’era Sandro Pertini, Aldo Moro era ministro degli Esteri, alla Sanità c’era Luigi Gui e si stava preparando la buia stagione del terrorismo.
Il colera che nell’estate di quell’anno colpì Napoli non fu una catastrofe naturale bensì un disastro antropico: la malattia portò a galla con violenza un insieme di elementi nascosti ma caratterizzanti della condizione economica, sociale e igienico-sanitaria del capoluogo partenopeo.
Dall’epidemia del 1884 all’Esposizione nazionale di igiene del 1900, la città campana ha subito significative trasformazioni: da «sirena dal volto irresistibilmente incantevole, ma dal corpo idropico ed anemico insieme, chiazzato di pustole e di piaghe ulcerose» è diventata «città da studiarsi anche in ciò che concerne l’igiene.6»
La Napoli degli anni Settanta è la città dal tasso di mortalità infantile più alto d’Europa, caratterizzata dalla presenza endemica di malattie gastrointestinali come il tifo e l’epatite virale. Lo spazio urbano è tra i più sovraffollati del mondo7 e secondo il settimanale di informazione pubblicato negli Stati Uniti d’America “Time” il più sporco del continente; qui fenomeni come il lavoro nero, minorile, irregolare e sommerso sono considerati la normalità.8 Una metropoli in cui vivono strati sociali eterogenei, segnati da profonde disuguaglianze. A un ceto medio costituito in larga parte da impiegati e una classe operaia ufficiale, che lavora nei moderni poli di sviluppo industriali della siderurgia come l’Italsider, la fabbrica dell’acciaio nell’area Ovest di Napoli, e della metalmeccanica si contrappone un proletariato marginale e precario occupato nei settori più disparati.9
Come mostrano le immagini e i negativi ospitati all’archivio fotografico Carbone10 gli strati più poveri della società cittadina sono protagonisti di una cultura tutta partenopea che, nonostante la disperazione e l’estrema povertà, riesce a sopravvivere con piccoli espedienti; in un’abitazione di pochi metri quadri composta di una o due stanzette fatiscenti al pian terreno, ricavata da muffi locali destinati a depositi che si aprono uno dopo l’altro nei numerosi vicoli del centro storico, vivono anche intere famiglie. L’ambiente degradato serve essenzialmente da dormitorio, dato che di giorno la vita si sviluppa nei vicoli.
Mentre i governi di molte città si trasformano adattandosi ai tempi, il capoluogo campano combatte lo sviluppo restando intrappolato in antichi retaggi. Piccoli artigiani e trafficanti di diversa natura, non trovando alloggi – ci sono gli imprenditori e i funzionari nei grandi palazzi signorili – finiscono per adattarsi proprio in quei depositi.
Abitati da personaggi come quelli delle grandi canzoni della tradizione: lo scarparo, l’impagliaseggia, ‘a lavandara ma anche da persone legate alla malavita, che hanno potuto coltivare indisturbate i loro illeciti; e poi emarginati o disoccupati, infine extracomunitari. I cosiddetti bassi si moltiplicano a vista d’occhio, così come la popolazione, e si deve attendere una nuova epidemia di colera per riconoscere che queste abitazioni malsane e fatiscenti costituiscono un terreno fertile per le malattie, prima ci si limitava ad elevare un paravento11 davanti alla Napoli dei vicoli, ma la promiscuità, un sistema fognario vecchio di secoli inadeguato alle esigenze imposte da una crescita urbanistica vertiginosa e il mancato rispetto delle più elementari regole dell’igiene restano.
Nel cuore del centro storico decine di case sono in realtà micro officine di una fabbrica diffusa in cui si lavora senza alcuna garanzia e nessun controllo.
Il settore calzaturiero e della produzione di guanti rappresenta una realtà lavorativa estremamente articolata e basata su un forte decentramento e sulla capillare diffusione del lavoro domiciliare: le madri di famiglia cuciono scarpe per le grandi aziende mentre i mariti escono di casa per rimediare dei lavoretti di fortuna che si risolvono in qualche piccola riparazione pagata a favori.
Nelle zone urbane la nocività dell’ambiente si mescola alla tossicità dell’attività produttiva. Seminterrati, cantine e depositi sono i reparti di una fabbrica nascosta agli occhi di tutti, secondo l’adagio che se si vuole nascondere qualcosa basta metterlo bene in mostra.
I grandi Comuni non hanno mai rappresentato punti di forza per la Democrazia Cristiana (Dc) che nei primi anni Settanta governava la città. A Napoli e in quasi tutti i maggiori centri campani questo partito ha presentato solitamente valori inferiori al suo dato nazionale. Nel Capoluogo partenopeo la Dc tra il 1970 ed il 1973 ha stabilizzato il suo livello di consensi, la sua forza elettorale ha oscillato intorno al 30% raccogliendo il maggior numero di voti nelle zone con tradizioni agricole dei quartieri nord occidentali della metropoli.12
Nel susseguirsi dei mandati c’è stata una sempre maggiore uniformità del voto democristiano tra le diverse aree della città, eppure, nonostante il livello di consensi che lo porta ad essere il primo partito in diversi quartieri, non si occuperà mai approfonditamente dei problemi economici e sociali delle classi inferiori.
Il più grande segreto è che non ci sono segreti: così come il cielo si mostra agli occhi di tutti, ma per vederlo è necessario alzare lo sguardo; il lavoro nero è invisibile anche agli occhi del Partito comunista italiano (Pci) e delle organizzazioni sindacali che contano il proprio bacino elettorale, soprattutto, nella classe operaia regolare, abbandonando i lavoratori marginali ad una rappresentazione di plebe e sottoproletariato.13
Qualche anno prima dello scoppio dell’epidemia colerica, la candidata alla camera per il Pci Maria Antonietta Macciocchi nel suo Lettere dall’interno del Pci a Louis Althusser14 aveva aspramente criticato l’isolamento e il disinteresse degli apparati di partito riguardo alla difficilissima realtà sociale vissuta dagli abitanti dell’Area metropolitana del napoletano, sottolineando la forte distanza tra la politica e una componente sociale di dimensioni considerevoli e per niente parassitaria ma, al contrario, protagonista di un’attività economica e produttiva di vitale importanza per il territorio.
La classe politica napoletana, fino alla scoperta dell’infezione, considera il proletariato marginale e le minoranze come una componente del sottosviluppo del Meridione, addebitando la complessità della condizione sociale a una società fortemente radicata nelle tradizioni e ancora ben lontana dalla modernizzazione.
Il bassissimo tasso di occupazione, il precariato tipico del settore edile, il lavoro nero e minorile sono la normalità di un ingente numero di persone appartenenti a generazioni diverse, così come l’alto tasso di disoccupazione favorisce la ripresa di un forte fenomeno migratorio che ha come principale meta il Nord Italia.
La condizione in cui versano questi lavoratori dimenticati è appurabile, più che nell’operato del principale partito comunista dell’Europa occidentale, nelle iniziative del Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), nelle pratiche de “Il Manifesto” nonché di gruppi della sinistra rivoluzionaria e dei cattolici del dissenso. Lotta continua, una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana, successivamente ai fatti di Reggio Calabria15 del 1970, provò a radicarsi ulteriormente a Napoli individuando nel proletariato marginale e nelle classi più disagiate il soggetto di riferimento per la sua militanza politica.

2 Il colera
Il 28 agosto del 1973, all’ospedale Maresca di Torre del Greco la morte di due donne certifica il primo focolaio colerico. Il giorno seguente “L’Unità”, principale quotidiano di Napoli, annuncia ufficialmente nell’edizione nazionale che il contagio ha già provocato la morte di cinque persone e il ricovero in ospedale di cinquanta pazienti.16
La notizia si diffonde in tutta la città creando un clima di panico; del resto non è andato del tutto perduto il ricordo delle precedenti epidemie di colera che hanno colpito Napoli nel 1837, nel 1884 e nel 1910.
Viene organizzata in gran fretta una disinfezione straordinaria della metropoli partenopea effettuata in parte da camionette dell’esercito italiano attrezzate per l’occasione e in parte affidata alla ditta specializzata Zucchet di Roma. Le strade sono spruzzate e sterilizzate da 1.500 tonnellate di disinfettante.17
Sono ispezionati e sottoposti a igienizzazione tutti i luoghi di aggregazione, vengono interdette le spiagge, iperclorinato l’acquedotto municipale e vietata la vendita di molluschi, pesci e fichi. I limoni, che pare possano contrastare gli effetti del morbo, raggiungono prezzi esorbitanti.
Il 29 agosto è una giornata campale per l’ospedale Cotugno, è qui che i malati e i sospetti tali vengono trasportati fin dai primi momenti dell’emergenza; al nosocomio arrivano almeno cinquanta pazienti. I medici non sanno dove sistemarli, inoltre nessuno ha mai avuto a che fare se non sui libri con un caso conclamato di infezione colerica, le persone affidate alle cure del personale sanitario perdono liquidi a profusione, alcuni sono già in blocco renale.18
Il responso dall’Istituto nazionale della sanità è telegrafico: Vibrio cholerae di tipo 1 El Tor. Un team di esperti è in viaggio per raggiungere Napoli e nel pomeriggio arrivano i “letti colera” spuntati non si sa bene da dove.19 Sono claustrali brandine di tela con un foro al centro e un secchio sotto e per medici e infermieri è faticosissimo assistere i malati stando piegati tutto il giorno su queste brande alte appena trenta centimetri. I giorni passano e aumentano i ricoveri, ogni caso di diarrea grave è trasferito al Cotugno.
I ricercatori dell’Istituto superiore di sanità portano terreni di cultura e sieri: il laboratorio dell’ospedale, guidato da Giulio Tarro, inizia a fare diagnosi microbiologica.
Il Cotugno di Napoli è un grande ospedale per le malattie infettive e virali in particolare, qui il professor Giulio Tarro, classe 1938, laureato all’Università Federico II con il massimo dei voti, allievo di Sabin il virologo cui si deve il vaccino contro la poliomielite, e il professor Mario Soscia, vice direttore sanitario del Cotugno, isolano il vibrione.
L’affollamento delle corsie è invivibile: ai primi di settembre in un ospedale completamente chiuso, oggi diremmo in lockdown, con una disponibilità massima di quattrocento posti letto sono ricoverate cinquecento persone e ci sono quasi quattrocento operatori sanitari.20 E gli ingressi continuano: qualunque diarrea viene mandata al Cotugno. L’ospedale non dispone di triage: arrivano le ambulanze, scaricano i pazienti, vengono disinfettate in modo parziale e ripartono. I malati si ammassano negli ambulatori in attesa dell’esame delle feci, ma, anche quando il paziente sta bene e il primo test è negativo, è costretto comunque a rimanere al nosocomio fino al risultato negativo di due ulteriori verifiche a distanza di una settimana.
Il protocollo di identificazione del vibrione del colera su terreno di coltura richiede almeno tre giorni perchè non esiste ancora la tecnologia Pcr che avrebbe sensibilmente modificato i test di laboratorio consentendo in pochi minuti di avere grandi quantità di materiale genetico con cui accertare gli agenti patogeni: in pochi giorni arrivano quasi mille persone, la metà delle quali gironzola infastidita nei corridoi dei reparti chiedendo di essere dimessa e intralciando il lavoro del personale.

3 La città infetta
Il solo nome del morbo scatena una grande paura e soprattutto una grande sorpresa in tutta Napoli, perché si credeva fosse un lontano ricordo, una malattia propria dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, privi di un moderno sistema igienico sanitario e non della città dell’Esposizione nazionale di igiene del Novecento. Invece, come traspare dalle numerose inchieste statali e giornalistiche successive, le condizioni del capoluogo campano sono da questo punto di vista, soprattutto nella zona dei bassi, indicibili e precarie.21
Il colera, sostengono i report dell’ Istituto superiore della sanità (Iss), si sviluppa principalmente nei Paesi non sufficientemente dotati di servizi sanitari e nei quali il livello di cura ambientale e di bonifica è scarso. L’infezione, così come le altre malattie derivanti dall’incuria e dalla sporcizia, non può essere eliminata senza la messa in opera di servizi sanitari capaci di preservare il complesso delle norme relative alla pulizia e in assenza di un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione.22
L’epidemia non colpisce solo Napoli ma si allarga a Caserta, Bari, Foggia, Taranto, Cagliari. I primi morti scatenano il panico generale nel Mezzogiorno.
Manifestazioni di piazza, immondizia bruciata per strada, richieste di aiuto al governo. Ad aumentare paura e angoscia contribuiscono le notizie incontrollate dei media nazionali che parlano di migliaia di morti e il Comune di Napoli, nella persona dell’assessore ai cimiteri Paolo Cirino Pomicino, è persino accusato di occultare i cadaveri delle vittime.23
Fin dai primi momenti in cui è stato scoperto il contagio, si pensa che l’infezione sia causata dal consumo di molluschi, in particolare cozze, che vengono consumate anche crude, nonostante il livello elevato dell’inquinamento marittimo. Sono quindi sequestrati i mitili, distrutti gli allevamenti e proibito il consumo di pesce, fichi e di altri alimenti considerati a rischio; in alcuni casi le forze dell’ordine devono disperdere i cittadini che protestano per la carenza di cure e medicine adeguate e incolpano l’amministrazione di aver favorito il propagarsi della malattia con anni di incuria e una sommaria valutazione dei rischi.24
Con buona pace dei pescatori, le cozze consumate crude sono il principale imputato al processo incriminante: sono una delle cause scatenanti del focolaio napoletano. Come in tutte le epidemie anche in quella del 1973 fa capolino tra le più disparate teorie quella del complotto: nemici commerciali hanno infettato le cozze con il vibrione, si dice. In effetti molti dei positivi al batterio hanno dichiarato ai medici di aver mangiato molluschi nelle due settimane precedenti il ricovero, cioè intorno a ferragosto, quando consumare cozze crude a Napoli e provincia è tradizione secolare.25
Nel periodo del colera i mitili sono così sostituiti nella dieta dei napoletani dai petali di garofano indorati e fritti ma si diffondono anche numerose pratiche scaramantiche e oppositive rispetto alle restrizioni emanate dal sindaco, ad esempio, i cittadini di Santa Lucia e del Pallonetto, che fino ad allora avevano basato il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie sulla mitilicoltura, si reinventano nel mondo del contrabbando, dando inizio alla cosiddetta “guerra delle cozze” tra gli abitanti dei quartieri portuali e le Forze dell’ordine: carabinieri, polizia, esercito si imbarcano all’assalto dei numerosissimi allevamenti, molti dei quali abusivi, che costeggiano il golfo da Pompei a Cuma.26
Il morale dei napoletani sta colando a picco: vedere i militari tagliare i pesi che sostengono le corde dove crescono le cozze del golfo è un durissimo colpo al cuore pulsante della città. D’altra parte il fatto che in quello specchio d’acqua tutt’altro che cristallino sbocchi la cloaca massima di epoca romana è risaputo, così come è risaputo il fatto che le cozze crescono meglio in abbondanza di materiali biologici.27
Il mercato del pesce subisce un crollo senza precedenti e i pescatori vanno in rivolta dal prefetto; il governo concede un sussidio di centomila lire ai piscicoltori al fine di sedare le proteste.
Per l’ospedale Cotugno c’è un vantaggio: gli abitanti dei quartieri portuali fanno arrivare ricche cassette di pesce fresco ai medici e, mentre nelle infermerie dei reparti si preparano fritti e sughetti sopraffini, i pescatori vanno ospiti in televisione a dichiarare che se i medici mangiano il loro pesce, il mercato può riaprire perchè il prodotto è sicuro.28
I media sono scatenati e vengono pubblicati centinaia di articoli di cronaca, emergono esperti di colera da ogni dove, ognuno con la propria opinione o la propria terapia, si teme il revival dell’infezione del 1884 con circa settemila morti nella sola città e quasi ottomila nella provincia.29
Viene rivelato ai giornalisti che il vibrione è stato rinvenuto nelle vittime dell’epidemia e non nelle cozze e nei molluschi come si crede inizialmente. Alfonso Zarone, perito del Tribunale di Napoli, dichiara a una rete locale che i mitili hanno un tale concentrato di colibatteri, a causa dell’inquinamento del mare, da impedire al batterio di sopravvivere e così vengono ricercati, in una sorta di manzoniana caccia all’untore, tre marittimi, uno dei quali sospettato di avere portato il contagio in città.
Si decide per ordine dell’amministrazione, inoltre, di interrare la famosa Fonte del Chiatamone30, la cui acqua sulfurea, raccolta in apposite anfore di argilla chiamate mummarelle, veniva venduta dagli acquafrescai nei numerosi chioschi che offrivano limonata sul lungomare; questa acqua zurfegna si pensava avesse proprietà curative, effetti benefici e taumaturgici, tra i quali la guarigione dai dolori e da tutti i mali.
Le autorità sanitarie nutrono grandi perplessità sulla tenuta igienica delle mummarelle e vietano così il commercio delle acque medicamentose le quali, a causa della loro composizione, non possono essere imbottigliate e quindi sicure.
Questa secolare e fruttuosa attività commerciale si estingue in pochi giorni, così come la mitilicoltura dopo l’intervento dei trecento militari inviati dal comune.
L’eco suscitata dalla pressante narrazione dei mezzi di comunicazione trasforma l’emergenza locale in un caso nazionale raccontando di una città sporca, lasciata all’abbandono e non meritevole di compassione, descrivendo la confusione, l’improvvisazione e l’approssimazione che ne caratterizzarono l’attività durante l’emergenza sanitaria.
Gli operatori televisivi, che pare stiano rischiando la propria vita per il bene del Paese e dell’informazione, sono spesso bardati e avvolte con fasce e garze sono anche le pesanti macchine da presa; nessuno spiega però ai telespettatori che il colera non si trasmette da persona a persona bensì che ci si ammala solo ingerendo acqua o cibo colonizzati dal batterio, e a condizione che il vibrione si sia moltiplicato fino a raggiungere una dose infettante capace di passare le naturali barriere dell’organismo.31
La grande risonanza della notizia fa in modo che il presidente della Repubblica Giovanni Leone, anche lui vestito di tutto punto con camice, calzari, guanti, mascherina e cappello chirurgico, faccia visita ai malati del nosocomio partenopeo ma un fotografo riesce a scattare la foto che rimarrà agli onori delle cronache: entrando nel reparto del Cotugno, Leone fa il gesto scaramantico delle corna con la mano destra dietro la schiena, come i personaggi pirandelliani al passaggio del sospetto iettatore Rosario Chiarchiaro.

4 Il vaccino
Poco a nord di Napoli, nella località di Pozzuoli, c’era la più grande base navale Nato del Mediterraneo, una specie di città nella città; qui era ospitata anche una Naval Medical Research Unit, l’unità di ricerca medica della Marina militare statunitense, membra del sistema internazionale dei Centers for Disease Control di Atlanta, a sua volta un’agenzia della marina americana. Alcuni locali forniti di apposite installazioni e apparecchi per studi, ricerche ed esperimenti di questo apparato sono ancora oggi sparsi in punti strategici del planisfero e forniscono un servizio di intelligence scientifica sia alle forze straniere sul territorio sia a quelle del Paese ospitante. Nelle basi in cui sono istituiti questo tipo di centri vivono con le proprie famiglie i migliori ricercatori militari e civili che vengono chiamati a lavorare a cicli periodici nelle diverse unità sparse per il mondo.
A differenza del personale sanitario del Cotugno questi scienziati hanno avuto a che fare a più riprese con il colera dato che alcuni dei loro laboratori sono stanziati in Bangladesh e India dove la malattia è endemica.
I primi giorni di settembre del 1973 a Pozzuoli la base Nato comincia in tutta fretta le operazioni di vaccinazione del personale mentre a Napoli parte la corsa al siero e in pochi giorni arrivano in città un milione di dosi che, si saprà solo dopo, hanno efficacia minima.32 Il primo centro di somministrazione è istituito presso la Casa del popolo di Ponticelli, in un’iniziativa promossa da alcuni militanti del Pci che ottiene però il sostegno attivo di tanti cittadini di differente estrazione sociale e diverso orientamento politico.33
Centri vaccinali sono inaugurati nei luoghi più disparati, dal palazzetto dello sport alle sedi di partiti politici, dove lunghe file di cittadini e cittadine attendono ordinatamente il proprio turno per l’inoculazione; nei quartieri più poveri però sono numerosi gli episodi di rivolte e incidenti motivati in gran parte dalla lentezza delle operazioni e dalla sensazione che nei rioni popolari si riceva un trattamento difforme rispetto ad altre zone della città.34
La campagna di somministrazione dell’antidoto anticolerico è il risultato della vastissima sensibilizzazione sul tema attuata dai mezzi di comunicazione di massa: i napoletani chiedono a gran voce interventi dalle prime pagine dei giornali, sono numerose le interviste televisive agli abitanti dei bassi e le inchieste giornalistiche di quotidiani e magazine nazionali e internazionali.
I media documentano con precisione il susseguirsi di tentativi di assalto ai poli di somministrazione, come quello di Piazza Municipio, in prossimità della sede del Comune di Napoli, dove la folla protesta e assalta i furgoni che trasportano il siero destinato ai 17 Hub istituiti in città.35
Le autorità, anche per quietare gli animi più accesi, accolgono volentieri la generosa offerta di aiuti del governo americano nonostante la parziale copertura del vaccino che questi si offre di iniettare alla popolazione; ogni antidoto che produce una qualche risposta immunitaria è considerato buono, ancor più durante un’epidemia che crea così tanti problemi di ordine pubblico.
Anche grazie alla collaborazione dei militari statunitensi che forniscono il proprio supporto ai medici e infermieri italiani, è messa in atto una straordinaria campagna di somministrazione, che raggiunge una parte considerevole della popolazione, contribuendo all’arresto del contagio.
I cittadini e le cittadine affollano i centri vaccinali, in alcuni di questi Hub intervengono medici militari americani con le vaccine gun, pistole iniettive utilizzate anche nella guerra del Vietnam, una vera meraviglia della tecnologia impensabile nell’Italia degli anni Settanta.
A metà settembre già oltre mezzo milione di napoletani è vaccinato e l’epidemia è superata rapidamente nel giro di poche settimane. L’ultimo caso viene diagnosticato il 19 settembre, in singolare coincidenza con la festa di San Gennaro, protettore della città; quell’anno non si verifica il miracolo della liquefazione del sangue e il 12 ottobre l’emergenza può dirsi conclusa e superata.36
Bisogna ricordare però, oltre all’aiuto degli Stati Uniti e all’impegno dell’amministrazione cittadina, anche la forte risposta della società partenopea in termini di solidarietà ed efficienza che fu importante nella risoluzione dell’emergenza; ad esempio la mensa dei bambini proletari a Montesanto durante tutto il periodo dell’infezione fornì ai bambini più poveri e ai figli dei malati pasti caldi, laboratori pedagogici e, con l’inizio della campagna di somministrazione, diventò anche un centro vaccinale.37

5 Dopo l’epidemia
Nel periodo del contagio vengono registrati 277 casi e 24 morti in tutta Italia, con una percentuale di incidenza nazionale dell’8,7%.38
Le statistiche non sono però del tutto attendibili; è diffusa la convinzione che alcuni malati non furono intercettati e anche il numero delle vittime potrebbe essere più alto.
La portata del fenomeno è stata per diffusione meno rilevante rispetto al Covid-19, anche se gli indici di mortalità sono stati in quell’occasione più elevati.
L’esperienza dell’epidemia del 1973 lascia in eredità la consapevolezza di come sia difficile durante le emergenze stabilire l’effettiva natura dei fenomeni; ancora oggi il ruolo del consumo di cozze nello sviluppo del contagio non è completamente accertato nonostante le numerosissime inchieste giornalistiche che sono state svolte sull’argomento.
Inoltre, colpisce il modo in cui, a distanza di anni, la vicenda sia utilizzata in alcune subculture per denigrare la città e come i termini “colera” e “Napoli”, da quel lontano 1973, hanno rappresentato e rappresentano un binomio quasi inscindibile per tutte le forme di discriminazione degli abitanti delle zone colpite dal morbo.
Però si possono trarre anche due indicazioni positive; i focolai sono stati anche l’occasione per operare un deciso miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e sociali del territorio, eliminando alcuni fattori di rischio, fondando centri e comitati per il lavoro precario e la condizione femminile che, anche se non avevano giocato un ruolo di primaria importanza nell’innesto dell’epidemia e sul propagarsi dell’infezione, rappresentavano una minaccia per la comunità e la salute pubblica. Inoltre, la straordinaria mobilitazione per l’ottenimento del vaccino, con il contributo attivo della popolazione, dimostra che le difficoltà, anche se risvegliano paure ed egoismi sopiti, riescono anche a far emergere risorse di partecipazione e solidarietà che si nascondono nelle piccole incombenze di ogni giorno.39
L’emergenza sanitaria legata all’esplosione dell’epidemia di colera ha visto l’organizzazione di un numero impensabile di iniziative nel campo del sociale che spaziano dall’organizzazione delle attività dei centri vaccinali così come delle attività sanitarie di base che negli anni successivi, proprio a partire da questa esperienza, hanno portato alla formazione della struttura dei centri sanitari popolari e dei consultori familiari in tutta l’Area metropolitana della città. Questi centri offrono ancora oggi un servizio di supporto alle famiglie e ai cittadini ed hanno come scopi principali quelli di fornire assistenza sociale, sostegno ai nuclei familiari, servizi di tutela della salute e prevenzione dei fenomeni di maltrattamento e abuso; oltre a questo si occupano di individuare i bisogni sanitari e sociosanitari specifici del territorio per realizzare i quali collaborano con enti pubblici, organizzazioni private e associazioni di volontariato.40
L’ospedale Cotugno è tornato alla sua attività ordinaria, sono ricomparsi i casi endemici di tifo, di epatite e gastroenterite, il lockdown è terminato e i sovraffollati reparti si sono svuotati ma il colera ha lasciato importanti lezioni: è stato attrezzato un laboratorio di epidemiologia di buon livello, è stata aperta la virologia e il personale ha imparato che cosa vuol dire quarantena: solo pochi medici anziani ne avevano avuto precedente esperienza.41
Dall’attività politica, analitica e militante è stata evidenziata una configurazione sociale complessa e articolata che definisce finalmente la classe operaia marginale, precaria, sottopagata e priva di garanzie impiegata nella fabbrica diffusa nascosta tra i vicoli della città antica e i nuovi agglomerati periferici. A questo nascosto mondo parallelo, inoltre, l’epidemia di colera ha affiancato le centinaia di lavoratori del settore del commercio informale, della rivendita ambulante, impiegati nella ristorazione, nel settore del turismo nonché del comparto ittico e della mitilicoltura che videro scomparire, in poco più di quattro settimane di focolai, ogni fonte di reddito. Uno schieramento di nuovi inoccupati che finì in parte ad alimentare il florido contrabbando di tabacchi lavorati ma che, parallelamente, iniziò a dar vita ai comitati di disoccupati organizzati.
A partire dall’esperienza del contagio vengono messe in campo iniziative per limitare il ricorso massiccio al lavoro domiciliare e al lavoro nero; la voglia di migliorare la propria condizione sociale nel giro di pochi mesi si insinua nel sottoproletariato napoletano, nei quartieri più poveri e degradati, dando vita a forme organizzate di protesta con cortei e manifestazioni che bloccano le arterie cittadine, stilando liste di persone in cerca di lavoro, raggiungendo un numero tale di aderenti da dover essere considerati una controparte nelle discussioni istituzionali sul mercato del lavoro della regione Campania.
Questo clima di vivacità e forte unione che attraversa tutta la comunità partenopea degli anni Settanta, il grande impegno civico e politico per la dignità di Napoli e dei suoi cittadini e l’importanza assunta dall’adesione a quelle forme di partecipazione sociale riconducibili al vasto mondo delle associazioni di volontariato, durerà per tutti gli anni successivi e arriverà al suo culmine con la gratitudine di chi fu soccorso e lo slancio solidale di chi soccorse le vittime del terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980.

Bibliografia e sitografia
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Le micidiali cozze di Santa Lucia nasconderebbero loschi traffici & Le infezioni provocate dalle coltivazioni di mitili, “Il Mattino”, edizione nazionale, 4 settembre 1973
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Gennaro Sangiuliano, Napoli 1973, i giorni del colera, Speciale Tg1 del 25 agosto 2013, Rai1
Wladimir Tchertkoff, Napoli dopo il colera, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, 1974

Note

  1. Il sierotipo è, in microbiologia e virologia, un livello di classificazione di batteri e virus inferiore a quello di specie, l’equivalente di una sottospecie; è possibile distinguere diversi sierotipi di una specie batterica o virale quando il materiale infetto reagisce positivamente solo con un determinato siero, contenente un anticorpo in grado di legarsi ad uno specifico antigene microbico.
  2. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo. Trieste, Scienza express, 2021, p.7.
  3. L’ipokaliemia, anche detta ipopotassiemia, è la riduzione della concentrazione di potassio nel sangue.
  4. Formatosi presso la Scuola medico-chirurgica di Pistoia, nel 1835, ancora studente presentò alla Società Medico-Fisica Fiorentina una relazione in cui veniva sintetizzata la scoperta dei corpuscoli dei nervi digitali che oggi portano il suo nome; svolse diversi studi istologici e ricerche sul colera vedendo e disegnando per primo il vibrione che nel 1884 fu descritto da Koch come l’agente patogeno della malattia. A partire dal 1847 fu professore di anatomia e istologia all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Gli scritti autografi di Pacini si trovano alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
  5. Medico tedesco che scoprì i bacilli del carbonchio (1872), della tubercolosi (1882), per cui ricevette il Premio Nobel nel 1905 e del colera (1884). Viene considerato uno dei fondatori della batteriologia di cui fissò nel 1881 i principi basilari della metodologia, ancora oggi validi: uno specifico bacillo deve essere presente in ogni malattia infettiva, deve poter essere isolato in un terreno di coltura, deve produrre la malattia se inoculato nell’animale da esperimento, deve poter essere recuperato dall’animale.
  6. Emilio Zabban, Napoli e l’Esposizione d’igiene, in “Nuova Antologia”, IV, 1900, vol.LXXXVIII, p.78.
  7. Giuliana D’Ambrosio, Il ventre di Napoli. Aspetti e vicende della città popolare nel XIX secolo. Roma, Newton & Compton, 1996.
  8. O.Rangone, Quando sbarcò ‘o vibrione, “La Repubblica”, 24 ottobre 1994.
  9. Roberto Parisi, Verso una città salubre. Lo spazio produttivo a Napoli tra storia e progetto, in “Meridiana”, n 42, 2001, pp.53-74.
  10. L’Archivio fotografico Riccardo Carbone è composto da circa 500.000 negativi, oltre ad alcune migliaia di stampe e lastre di vetro, scattati a Napoli tra gli anni Venti e gli anni Settanta del secolo scorso. Riccardo Carbone, primo fotoreporter a Napoli, ha raccontato per oltre cinquant’anni la sua città: le ricchezze artistiche e i grandi mutamenti urbanistici, la vita quotidiana, lo sport, la canzone napoletana, il mondo dei pescatori ed i personaggi illustri. Un’ intera città racchiusa in tante piccole scatole di cartone, ordinatamente numerate ed allineate sugli scaffali, contenenti lastre fotografiche, rullini e una miriade di buste porta-pellicola, ciascuna contrassegnata con il titolo del servizio fotografico scritto a mano.
  11. Matilde Serao, Il ventre di Napoli, a cura di Patricia Bianchi, Roma, Avagliano, 2002.
  12. Archivio storico statistico delle elezioni a Napoli dal 1946 ad oggi.
  13. Isotta Cortesi, La salute di Napoli. In P. Miano & A. Bernieri (Eds.), #CURACITTÀ NAPOLI: Salubrità e natura nella città collinare. Macerata, Quodlibet, 2020, pp. 59-71.
  14. Maria Antonietta Macciocchi, & Louis Althusser, Lettere dall’interno del PCI a Louis Althusser. Milano, Feltrinelli, 1969.
  15. Protesta popolare avvenuta a Reggio Calabria dal luglio del 1970 al febbraio del 1971, in seguito alla decisione di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro nel quadro dell’istituzione degli enti regionali. Per approfondire: Felice Borsato, Guerriglia in Calabria, luglio 1970-febbraio 1971. Roma, Settimo sigillo, 2001.
  16. N. Puntillo, Alcuni casi di infezione colerica nel Napoletano, “L’Unità” 29 agosto 1973.
  17. “Il Mattino”, edizione nazionale, 29 agosto 1973, p.1.
  18. O. Ragone,Quando sbarcò ‘o vibrione, “La Repubblica”, 24 ottobre 1994.
  19. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.13.
  20. Ibidem, pp.14-15.
  21. Antonio Cederna, Tragedia moderna, “Corriere della Sera”, 4 settembre 1973, p. 2.
  22. Istituto Superiore di Sanità, Colera – EpiCentro.
  23. Aldo Zappalà, La storia siamo noi: 1973-1976. Napoli al tempo del colera, Village doc&films, RAI Educational, 2006.
  24. Smantellati i “campi” di mitili per difendere Napoli dal Colera, “Il Mattino”, 7 settembre 1973, p.1.
  25. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.16.
  26. Le micidiali cozze di Santa Lucia nasconderebbero loschi traffici & Le infezioni provocate dalle coltivazioni di mitili, “Il Mattino”, edizione nazionale, 4 settembre 1973, p.1.
  27. “Il Mattino”, edizione nazionale, 6 settembre 1973, p.1.
  28. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.16.
  29. Renato Fucini, Napoli a occhio nudo, introduzione di Antonio Ghirelli, Torino, Einaudi, 1977, p. XXXI.
  30. A seguito dell’epidemia colerica del 1973, è vietata alla cittadinanza la vendita dell’acqua per motivi igienici e le sorgenti del Chiatamone sono sigillate. Nel 2000 l’amministrazione cittadina pensò di riaprire le fontane dove sgorgava l’acqua delle mummare, fatta affluire da un pozzo artesiano che si trova sotto i giardini di Palazzo Reale e proveniente dalla sorgente. Però, dopo solo due anni queste sono nuovamente chiuse per una questione di manutenzione; oggi l’acqua è fatta defluire a mare memori di quando sgorgò fino ad allagare i marciapiedi di fronte agli spalti del Maschio Angioino, lungo la discesa che porta al molo Beverello.
  31. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.18
  32. “Il Mattino”, edizione nazionale, 2 settembre 1973, p.1.
  33. Vincenzo Caruso, Territorio e deindustrializzazione. Gli anni settanta e le origini del declino economico di Napoli est, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, 96, 2019.
  34. “Il Mattino”, edizione nazionale, 3 settembre 1973, p.1.
  35. Indro Montanelli, Le origini remote del colera a Napoli, “Corriere della Sera”, 15 settembre 1973, p.2.
  36. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.20.
  37. Aldo Zappalà, La storia siamo noi: 1973-1976. Napoli al tempo del colera, cit.
  38. Stella Cervasio, Il colera 40 anni dopo. I giorni della paura, “La Repubblica”, 25 agosto 2013.
  39. Wladimir Tchertkoff, Napoli dopo il colera, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, 1974.
  40. Aldo Zappalà, La storia siamo noi: 1973-1976. Napoli al tempo del colera, cit.
  41. Donato Greco, Le mie epidemie: Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo, cit., p.20.

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