Nota su Enrico Capodaglio, Dante creaturale, Associazione culturale “La Luna”, Casette d’Ete (Fermo) 2022, a cura di Eugenio De Signoribus, con illustrazioni di Laura Martellini e Agostino Cartuccia
Claudio Tugnoli, Nota su Enrico Capodaglio, Dante creaturale, Associazione culturale “La Luna”, Casette d’Ete (Fermo) 2022, a cura di Eugenio De Signoribus, con illustrazioni di Laura Martellini e Agostino Cartuccia, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 27, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9925
Enrico Capodaglio ha esordito giovanissimo nel 1983 con un saggio su Nietzsche e la fenomenologia dell’interminabile (con prefazione di Barnaba Maj), pubblicato presso Corbo editore dove l’esercizio sistematico dell’interminabile critica e autocritica nell’itinerario filosofico di Nietzsche rappresentava l’intuizione originale che fungeva da filo conduttore di quel saggio. Docente di lettere, filosofia e storia nella scuola superiore, Capodaglio ha pubblicato racconti (Diciannove novelle sulla bellezza, Transeuropa 1998), il romanzo Galleria del vento (Istmi 2001), saggi di critica letteraria (Il volto chiaro. Storie critiche del ‘900 italiano, Marsilio 2004; Paolo Volponi romanziere. Il fascino della società, Associazione culturale “La Luna” 2020). Nei saggi che ha pubblicato su Platone, Leopardi, Melville, T. Mann, T. Bernhard, V. Jankélévitch, Y. Bonnefoy, S. Weil ha dedicato particolare attenzione ai rapporti tra letteratura e filosofia. E nella stessa ottica ha svolto indagini critiche dell’opera di poeti del Novecento quali Caproni, Luzi, Pasolini, Sciascia, Volponi. Per vent’anni ha collaborato con “Strumenti critici” ed è stato redattore di “Istmi. Tracce di vita letteraria” con E. De Signoribus e F. Paoli. Dal 2008 scrive uno zibaldone, pubblicato online nel 2013 in un blog dal titolo Palinsesto dei pensieri che contiene attualmente 4556 pagine, con riflessioni che rivelano la fecondità e l’originalità del suo approccio critico.
Il saggio Dante Creaturale nasce da una serie di riflessioni sulla Commedia svolte dall’autore con la competenza che permette di non affidarsi a giudizi e valutazioni già noti, ed esige di guardare direttamente all’intera opera di Dante e non solo. Ne risulta un percorso stimolante, che suscita lo stupore di ascoltare una voce genuina, la quale non parla per sentito dire, ma evocando tutto ciò che ha visto direttamente e anche inferito dalle connessioni interne alla Commedia e dai rimandi alle rimanenti opere di Dante, oltre che agli autori ben noti al poeta fiorentino come Virgilio, Lucano, Ovidio. In questa breve nota potrò dare solo qualche cenno del saggio di Capodaglio, limitandomi ad alcuni temi che dimostrano la modernità dell’opera dantesca, specchio passivo del suo tempo (nessun autore è esente da questo stigma dell’epoca alla quale appartiene e Capodaglio non lo nasconde) solo per aspetti secondari che non contraddicono la trama della sua ricerca poetica. Ad esempio il tema degli animali: l’autore avverte che per Dante gli animali non sono macchine, come sarebbero “diventati” agli occhi di Cartesio, ma sono creature di origine divina. E le similitudini con gli animali nell’inferno «fanno respirare, ridanno la gioia della vera vita naturale nel mondo artificiale e sotterraneo. Il male infatti è l’artificiale, la bruttezza che guasta la natura francescanamente divina» (p. 14). Va da sé che gli animali allegorici (la lonza, il leone, la lupa) sono altra cosa rispetto agli animali che intervengono nelle similitudini dantesche: gli animali creaturali, cioè creature divine, come le gru del secondo cerchio infernale, trascinate dalla bufera in un volo senza una meta o le gru del purgatorio che migrano in penitenza attraverso il fuoco e infine le gru del paradiso giunte finalmente alla meta. Ma quale differenza corre tra l’allegoria e la similitudine? «Le allegorie», spiega Capodaglio, «sono verticali, nel senso che il soggetto rappresenta qualcosa di più alto, quando invece le similitudini in genere sono corrispondenze orizzontali, nelle quali infatti le creature animali, e vegetali, acquistano una loro indipendente dignità, mentre conferiscono nitore e naturalezza alle persone con le quali vengono comparate» (p. 106).
Nelle due similitudini dantesche dei fiori che sono come gli uomini e degli uomini che sono come i fiori abbiamo un esempio di antropomorfismo nella prima e di cosmomorfismo nella seconda. Lo stesso Dante, che nel Purgatorio si proclama simile ai colombi o a un bue aggiogato, ci fornisce esempi di una visione cosmomorfica, complementare a quella antropomorfica: per sentirmi un colombo devo immaginare che il colombo possa avere la mia stessa sensibilità e il mio stesso modo di rapportarmi al mondo. L’uomo, trasformato dal mondo, lo trasforma a sua volta umanizzandolo: afferma se stesso appropriandosi del mondo materiale e dei viventi e diventando al contempo padrone di se stesso. Il cosmomorfismo del primitivo o del bambino è un sentirsi analogo al mondo con cui si interagisce; l’antropomorfismo è invece percepire il mondo come animato da passioni, desideri e sentimenti propri dell’uomo. La sintesi dei due movimenti, antropocosmomorfismo, è il risultato della unificazione/armonizzazione dei viventi. Le parole denominano e distinguono oggetti come se fossero degli utensili e insieme consentono di esprimere stati soggettivi, interiori e affettivi. Le parole e le frasi veicolano gli scambi tra uomo e mondo sia oggettivi che soggettivi. Con i simboli l’uomo umanizza la natura. La parola è insieme oggettiva e soggettiva, tecnica e magia, utensile e poesia; tale dualità si ritrova nella frase. Edgar Morin nella sua intramontabile opera pionieristica, L’homme et la mort (1950) cita i proverbi come esempi di cosmomorfismo (Can che abbaia…), mentre le metafore antropomorfiche designano le cose naturali (Il sole ride…). Emerge la poesia come linguaggio incaricato di esprimere gli scambi psicoaffettivi. Il linguaggio è creativo, parlare è creare. Il poeta eredita il potere e il sentimento sciamanici.
La sensibilità e l’intelligenza degli animali sono riconducibili al fatto che sono creature di Dio. Francesco, come racconta Bonaventura nella Legenda maior, parlava agli animali come se fossero dotati di ragione. Non solo gli antichi, come Stratone di Lampsaco, Plutarco e Porfirio, ricordati da Capodaglio, ma anche Dante riconosce la dignità degli animali e di tutti i viventi. Oggi sappiamo che anche le piante hanno una sensibilità e una vita interiore come ci spiega Stefano Mancuso, direttore del laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale. Neuroscienziati come Giorgio Vallortigara e Antonio Damasio, rispondendo al quesito su coscienza, intelligenza e mente avvertono che mente e intelligenza non sono la stessa cosa. L’intelligenza esplicita presuppone una mente, ma non l’intelligenza implicita. Gli organismi più diffusi sulla terra sono unicellulari, come i batteri, che Damasio considera notevolmente intelligenti, pur essendo privi di mente e coscienza. I batteri hanno una cognizione dell’ambiente in cui si trovano e si muovono guidati da competenze non esplicite. Gli esseri umani hanno una mente con cui elaborano rappresentazioni sensoriali, immagini; oltre alle competenze esplicite gli esseri umani possiedono anche competenze implicite. Osservando il comportamento di organismi elementari, Damasio vede che essi si comportano in modo intelligente, pur senza avere un modello, uno schema, un’immagine mentale. Tali organismi sentono tuttavia i loro simili e l’ambiente: rilevano una presenza e, se ciò che rilevano pone un problema, essi reagiscono in modo intelligente nel senso che risolvono il problema. Si tratta di un’intelligenza non esplicita, cui compete di gestire l’esistenza dell’organismo secondo le regole dell’omeostasi, un insieme di prescrizioni che garantiscono la stabilità dei parametri che governano la vita stessa, come le sostanze nutrienti o la temperatura. Infatti lo scopo della vita è di mantenere se stessa; essa lo fa seguendo i precetti dell’omeostasi, che sono un insieme di processi di controllo che hanno reso possibile l’emergere della vita nei primi organismi unicellulari. In seguito negli organismi pluricellulari e multisistemici l’omeostasi fu sorretta da nuovi dispositivi: i sistemi nervosi. Nel giro di qualche centinaio di milioni di anni l’omeostasi cominciò a essere governata dalle menti; a quel punto la vita poteva essere gestita ancora meglio mediante il ragionamento fondato sulle conoscenze archiviate nella memoria. La sensibilità o rilevamento è presente in tutte le forme viventi; poi la mente presuppone la formazione di un sistema nervoso con la produzione di rappresentazioni e immagini, che sono i contenuti fondamentali della mente.
Le metamorfosi di esseri umani in piante di cui Dante traeva esempi da Ovidio non postulano forse una parentela profonda tra animali e piante, la base per una traducibilità da una sponda all’altra che altrimenti sarebbe inconcepibile? Nella selva dei suicidi l’anima muta il corpo animale in corpo vegetale. E tuttavia le metamorfosi sia in Ovidio che in Dante suscitano angoscia, nonostante la potenza evocativa dei versi che le descrivono con dettagli che ne suggeriscono la sinistra verosimiglianza. Capodaglio con Leo Spitzer osserva che per Dante l’ibridismo ha in sé qualcosa di rivoltante e contronatura. «La creazione divina infatti ha disposto tutto e tutti in un ordine gerarchico meraviglioso, sicché ogni trasmigrazione magica dall’uno all’altro ordine non può essere che angosciante e malvagia. E infatti le metamorfosi sono tutte infernali: per i suicidi e per i ladri, quando Dante azzarda una metamorfosi incrociata con l’intento espresso di battere nell’agone lo stesso Ovidio per una volta nel suo stesso campo» (p. 119).
Un tema ulteriore sul quale Capodaglio intrattiene proficuamente il lettore riguarda la corrispondenza tra le dichiarazioni dei personaggi, non solo in Dante, e il pensiero dell’autore o la sua concezione etica. Laddove Dante a proposito di Cacciaguida esalta lo spirito guerriero delle crociate, Capodaglio confessa di provare imbarazzo per la stonatura, come se quella celebrazione della smania di affrontare e uccidere i nemici della fede non possa conciliarsi con l’immagine di un Dante credente evangelicamente refrattario a qualsiasi giustificazione della violenza. Quanto alla giusta avvertenza storicista di tener conto dei tempi di Dante, Capodaglio ribatte di essere giustificato nel suo imbarazzo, visto che in molti casi l’autore della Commedia non rimane prigioniero della mentalità dei suoi tempi e va ben oltre. Capodaglio pone la questione se sia «legittimo attribuire all’autore ogni pensiero che egli mette in bocca ai personaggi, almeno quelli che tratta con maggiore riguardo e rispetto». Il lettore è forse autorizzato a decidere, tra le tante voci di un poema o di un romanzo, quale sia quella che corrisponde al pensiero dell’autore? «Un poeta», risponde Capodaglio, «orchestra le parti dei personaggi, stando attento che i suoi discorsi corrispondano alla loro mentalità, come egli la immagina e la dipinge, ma non vorrebbe mai che venisse tutta accreditata o addebitata a lui, altrimenti addio letteratura» (p. 47).
Dante non riprende mai luoghi comuni ed esamina ciascun soggetto dedicandogli un’attenzione scevra di pregiudizi. L’autore della Commedia non manifesta alcuna simpatia per la condanna a priori della donna come malvagia e peccatrice ab origine. Deplora e mette alla gogna il caso individuale in base a comprovate circostanze, ma non accusa né maledice l’intero genere femminile, come invece vediamo in Iacopone da Todi, che stupisce per la sua sessuofobia esacerbata ̶ la sua visione della donna come minaccia permanente e mostro irredimibile di depravazione – in netto contrasto con la sua arte «tanto meravigliosa, straricca, incisoria, possente, agile, magniloquente, versatile lessicalmente (benché monocorde moralmente)» (p. 49). La morale autentica rifugge dalle generalizzazioni preconcette e presta prudente attenzione alle fonti di qualsiasi provenienza prima di pronunciare giudizi che, se formulati sulla base di impressioni o di un sentito dire, potrebbero poi rivelarsi infondati e denigratori. Lo stesso vale per l’esegesi e l’ermeneutica dei testi sui quali si esercita la riflessione di un critico di sicura esperienza e dai vasti orizzonti come Enrico Capodaglio.
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