La biografia di Franca Turra alias Anita tra memoria privata e storia pubblica
Greta Fedele, Sara Troglio, La biografia di Franca Turra alias Anita tra memoria privata e storia pubblica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 8, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10122
La ricostruzione storica di grandi eventi traumatici avvenuti nel recente passato si muove sempre in un delicato equilibrio tra vissuto personale e storia collettiva, tra documenti privati e fonti istituzionali, amministrative, giudiziarie, militari etc. Entrambi gli aspetti concorrono nella definizione della ricostruzione, essendo la traccia dei molti livelli su cui si è giocato lo sviluppo degli eventi. Questo assunto è sicuramente noto a chiunque si sia approcciato allo studio della Resistenza e delle deportazioni, ancor più se la ricerca è portata avanti mediante la raccolta di testimonianze orali e memorie personali: qui gli eventi minuti, minimi, vengono spesso fusi dai e dalle testimoni con le date e i fatti del racconto ufficiale; il racconto pubblico mediato e regolato da fonti intime spesso gelosamente conservate.
In questo scenario la ricostruzione del processo attraverso cui si è costruita la memoria pubblica – e il lavoro storiografico – sul campo nazista di Bolzano e su quanto ruotava dentro e attorno ad esso si arrricchisce di caratteristiche ancor più particolari, legate alla sua geografia di confine, alla sua storia amministrativa e alla composizione della sua popolazione linguisticamente e culturalmente mista. Lo stesso movimento di Resistenza che nacque e si sviluppò in quel territorio ebbe a sua volta caratteri propri come, ad esempio, il fatto di poggiarsi maggiormente su piccoli nuclei dediti all’organizzazione di un sistema assistenziale e informativo clandestino piuttosto che su una presenza di gruppi combattenti.
Partendo da queste considerazioni, si cercherà di delineare il profilo e le azioni della partigiana bolzanina Franca Turra, seguendo le tracce dei documenti da lei prodotti o conservati nel periodo del conflitto1. Quello che interessa in questa sede è riflettere sull’importanza della ricostruzione di questa vicenda di cui ancora manca una sistematizzazione e valorizzazione e, allo stesso tempo, evidenziare come carte e archivi privati possano contribuire in maniera fondamentale alla storia della Resistenza. Certamente si tratta di una storia singolare, nel senso proprio che ha la singolarità di una biografia, ma non si perde mai di vista il movimento collettivo in cui si inserisce. Come cercheremo di mostrare la storia di Franca Turra è una sorta di cartina di tornasole della storia del Trentino Alto-Adige all’interno della guerra civile italiana durante la Seconda guerra mondiale.
1. Tra silenzi, memorie difficili e storiografia tardiva
La situazione del territorio del Trentino-Alto Adige nell’estate del 1945 possiede delle peculiarità rispetto al contesto del resto del Nord Italia. In questo territorio di confine, la divisione interna della popolazione civile si basava su appartenenze etniche e nazionali, che, unitamente alla vicinanza con il confine dell’ormai sconfitto Terzo Reich e ai venti mesi di governo nazista de facto – che inserì le province di Bolzano, Trento e Belluno nella Operationszone Alpenvorland-Zona d’Operazione delle Prealpi2 – lasciarono segni e fratture profonde.
Con la liberazione delle persone prigioniere nel Durchgangslager (campo di transito) di Bolzano, che tra il 29 e il 30 aprile ricevettero un permesso di uscita firmato dal comandante del campo l’Untersturmführer delle SS Karl Friedrich Titho e la progressiva fuga o arresto di tutto il personale nazista implicato nel controllo del territorio, nella città iniziò a calare un progressivo silenzio sulla storia del campo, sugli apparati di repressione che avevano visto la partecipzione di parte della popolazione locale ed anche sulla Resistenza nata dentro e fuori al campo3.
Nell’immediato dopoguerra, le fratture esistenti tra la popolazione bolzanina di lingua e cultura italiana e quella di lingua e cultura tedesca, esacerbate da anni di politiche nazionaliste4 da entrambe le parti, hanno trovato un fragile equilibrio nell’omettere e silenziare dal discorso pubblico i ruoli e le scelte compiute durante gli anni appena trascorsi. La presenza di un campo SS all’interno del perimetro cittadino e la connivenza o tolleranza che molti bolzanini avevano dimostrato nei confronti del luogo di prigionia (avvalendosi anche spesso del lavoro coatto dei reclusi)5, mentre un’altra parte vi si ribellava ed organizzava per sostenere i deportati e le deportate, rendeva ancor più manifesta la frattura6. Per quanto riguarda la memoria del campo si può parlare, infatti, di una rimozione collettiva che ha caratterizzato i decenni successivi alla liberazione.
Le scelte fatte dalle e dai singoli durante gli anni della guerra e dell’occupazione risultarono essere un peso difficile da affrontare nel contesto post bellico: la memoria tese sempre più a chiudersi in un percorso privato, familiare, e i simboli del recente passato vennero utilizzati per nuovi diversi scopi e poco valorizzati. Il campo di Via Resia, nato a inizio 1944 e entrato a pieno regime nel luglio dello stesso anno dopo che il campo emiliano di Fossoli si era trovato ad essere troppo vicino alla linea del fronte, nell’estate del 1945 passò sotto controllo dell’esercito statunitense che lo utilizzò per ospitare prigionieri tedeschi in attesa di riconoscimento e, soprattutto, cittadine del Reich, ausiliarie o impiegate nelle strutture d’occupazione, impossibilitate al rimpatrio o con figli piccoli7. Il primo agosto 1946 la struttura del campo passò alla gestione italiana, diventando il «Campo profughi stranieri di Bolzano-Greis», amministrato dal ministero dell’Assistenza post bellica. Successivamente sarebbe diventato: una colonia estiva per bambine e bambini, un rifugio per senzatetto, fino a essere smantellato completamente all’inizio degli anni Sessanta per lasciar spazio a costruzioni di edilizia popolare, senza alcun segno che ne ricordasse la storia, ad esclusione di una targa collocata nel 1962 all’altezza del numero civico di via Resia 808. Nel 1976, sul numero di gennaio – febbraio di “Triangolo Rosso”, la rivista dell’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned), Ada Buffulini (1912 – 1991) antifascista e coordinatrice della resistenza clandestina nel campo in cui lei stessa era prigioniera, scriveva «a trent’anni dalla guerra del campo di Bolzano non rimane più nulla; al suo posto grandi costruzioni di case popolari. Solo una stele ricorda i 15000 prigionieri passati di là e in gran parte non più ritornati dai lager della Germania»9.
Per molti anni memoria pubblica e storiografia hanno seguito un percorso simile di disinteressamento alle vicende del campo e della Resistenza bolzanina. Una svolta significativa si ebbe nel trentennale della liberazione quando nel dicembre del 1975 venne organizzato un convegno promosso da Aned, Anpi e dallo stesso Comune di Bolzano: alcune donne ex deportate e partigiane presero la parola ricostruendo e restituendo materialità a quel luogo ormai non più fisico. Si trattò di un momento importante di attenzione sul campo, sull’organizzazione nazista, sul ruolo che ebbe nel sistema concentrazionario e di smistamento, sulle personalità che fuori e dentro al campo avevano resistito. A emergere è un universo femminile che si racconta pubblicamente: le relazioni di Ada Buffulini – deportata politica dal carcere di San Vittore a Milano a Bolzano, dove rimase rinchiusa per otto mesi, e membro del comitato clandestino del campo – e Franca Turra – membro del Cln bolzanino e per molti mesi coordinatrice dell’assistenza ai e alle detenute – contribuirono a gettare le prime luci sull’argomento10. Due tentativi erano già stati compiuti in questa direzione una decina di anni prima sempre da due deportati nel campo: il fotografo, partigiano e tra i primi animatori del Cln cittadino Enrico Pedrotti e Laura Conti, partigiana, deportata politica e futura deputata in quota comunista. La rivista “Il Cristallo” – rivista del Centro culturale Alto Adige – pubblicò, infatti, le testimonianze del primo sulla detenzione, la vita nel campo e su alcune personalità centrali della resistenza bolzanina come Manlio Longon; e i primi risultati della ricerca sul campo condotta dalla seconda. Laura Conti era riuscita a raccogliere materiale e documenti di diversa natura: testimonianze orali di internati e internate, relazioni redatte da coloro che erano riusciti a evadere, biglietti entrati e usciti clandestinamente dal campo tra i membri del comitato interno e quelli del Cln11. Obiettivo della ricerca era una ricostruzione sistematica sul funzionamento del campo, sui meccanismi di assistenza e sugli organi che si erano creati, sulla composizione della popolazione che vi si trovava internata; purtroppo, la pubblicazione finale non vide mai la luce. Oltre al fondamentale convegno pocanzi citato, il trentesimo anniversario della liberazione aveva anche portato nel 1979 alla pubblicazione del primo tentativo di sistematizzazione sul campo: seppur con alcuni errori quantitativi che i lavori successivi avrebbero evidenziato, Il lager di Bolzano di Luciano Happalacher è stato fondamentale per stilare un primo elenco dei e delle internate e per delineare le strutture organizzative naziste da un lato, e dalla resistenza dall’altro12.
Questo primo slancio di ricostruzione storica ebbe un suo contraltare anche da un punto di vista memoriale13. In occasione del quarantesimo anniversario della Liberazione, infatti, il Comune provvide a spostare la stele commemorativa vicino alla chiesa di San Pio X, in via Bari, adiacente a via Resia. Il luogo venne scelto probabilmente per porsi in continuità con l’edicola votiva in ricordo delle vittime internate, realizzata nel 1955 da don Daniele Longhi, esponente del Cln di Bolzano e lui stesso imprigionato nel campo. Adiacente alla stele venne collocato anche un monumento bronzeo realizzato dallo scultore bolzanino Claudio Trevi.
A cavallo poi tra gli anni Novanta e i primi Duemila le vicende connesse al campo di Bolzano e il suo ruolo all’interno degli ingranaggi della macchina concentrazionaria nazifascista sono tornate ad essere al centro dell’interesse pubblico. In questi anni infatti si tennero i processi ad alcune delle più note SS che operarono nel campo: a partire dai documenti ritrovati nel 1994 nel cosiddetto “Armadio della Vergogna”14, grazie alle testimonianze degli e delle ex-internate del campo di Bolzano, raccolte da Aned, e alle indagini della Procura militare di Verona. Il processo riprese alcuni degli elementi di accusa contro i sorveglianti già emersi nella sentenza pronunciata dalla Sezione Speciale di Corte di Assise di Bolzano, del dicembre 194615: Michael Seifert, caporale SS addetto alla sicurezza del campo, residente in Canada dal 1951 è dal 2008 agli arresti per tortura, sevizie e uccisioni compiute nelle celle del campo16, mentre l’altra SS addetta alla sorveglianza, Otto Sein, risulta tutt’oggi latitante.
La eco mediatica dei processi a livello cittadino ha riacceso l’attenzione su un luogo di cui a inizio 2000 rimane integro solo uno dei muri di cinta. Nel 2005 l’amministrazione comunale ha bandito un concorso per la realizzazione di opere artistiche da collocare nei pressi del perimetro dell’area che ospitò il campo – oggi occupata da palazzine residenziali – a cui vennero fatte seguire, nel 2012, una serie di installazioni esplicative storiche in multilingua su via Resia e nel 2019 una installazione multimediale che rende visibili tutti i nomi noti delle persone internate nel campo17. A queste iniziative si aggiunge la mostra realizzata nel 2007 da Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi sulla Resistenza nel campo: primo vero tentativo di divulgazione su ciò che fu il movimento resistenziale fuori e dentro il campo, è stata inaugurata presso il Teatro Cristallo della città e ancora oggi è gratuitamente fruibile sul sito di Aned18. Su proposta di Anpi e Aned inoltre sono state poste pietre d’inciampo e alcune strade sono state intitolate a personalità centrali della resistenza nel campo come Ada Buffulini19.
Interessante è il confronto con altri edifici e luoghi cittadini significativamente legati al periodo del Regime e del conflitto come per esempio il Monumento alla Vittoria inaugurato nel 1928 e il monumentale bassorilievo ritraente Mussolini a cavallo posto sulla facciata della casa del fascio costruita tra il 1939 e il 1942. Entrambi questi simboli del passato fascista sono rimasti al loro posto nell’Italia repubblicana, vi è completa traccia della loro esistenza – a differenza di quanto avvenuto per il campo. Entrambi portano con sé gravi problemi di divisione e lacerazione e a partire dagli anni Duemila sono stati oggetto di interessanti sperimentazioni di ricontestualizzazione20. Il monumento-museo BZ 18–45 è un percorso espositivo sulla storia di «un monumento (il Monumento alla Vittoria), una città (Bolzano), due dittature (quella fascista e quella nazista)»: come si legge nel progetto scientifico del percorso espositivo, l’obiettivo è «risolvere finalmente, in uno spirito europeo, un problema capace periodicamente di suscitare tensioni e divisioni all’interno del tessuto sociale e politico della città e della provincia di Bolzano, vale a dire la presenza nel cuore del capoluogo di un monumento di forte impatto retorico caratterizzato in primo luogo da elementi simbolici costituenti espressione della cultura e dell’ideologia fascista»21.
Parallelamente a questa esposizione pubblica si sono portate avanti nuove ricerche e nuovi studi, i più significativi dei quali non sono nati in ambito accademico ma bensì da autori e autrici legati al tema da una appartenenza territoriale o dall’essere figli di persone internate nel campo o attive nel Cln bolzanino.
Due i poli principali: il primo sorto attorno all’Archivio storico della città di Bolzano e a Carlo Giacomozzi ha raccolto oltre duecento videointerviste a internati e internate22, il secondo, invece, è stato portato avanti dal Laboratorio di storia di Rovereto coordinato da Giovanni Tomazzoni – nipote di Franca Turra – e ha condotto alla pubblicazione di due volumi Almeno i nomi e Il popolo numerato che per la prima volta ricostruiscono in modo scientifico partenze, arrivi, organizzazione del campo, nomi e numeri di matricola dei prigionieri trentini23.
É su questa linea di ricerca che si colloca il monumentale lavoro di ricostruzione di Dario Venegoni che grazie a un’indagine incrociata su una pluralità di fonti e testimonianze ha stilato i profili di quasi ottomila internati e internate24. Presidente di Aned e figlio di Ada Buffulini e Carlo Venegoni, entrambi deportati politici nel campo di Bolzano, Venegoni ha anche raccolto gli scritti clandestini della madre sia da San Vittore che da Bolzano dove coordinava il comitato clandestino e la resistenza interna. Allo stesso modo Leonardo Visco Gilardi ha ricostruito la biografia del padre Ferdinando, uno dei primi animatori insieme a Manlio Longon del Cln bolzanino. Entrambi questi testi si sono rivelati essenziali per la raccolta di fonti preziosissime per la ricostruzione della storia del campo e dell’organizzazione di resistenza.
Infine sono da ricordare i lavori dello storico Costantino di Sante sul campo e, soprattutto, l’attenzione portata a un aspetto fino a quel momento rimasto ai margini, ovvero gli aguzzini, le persone che permisero l’effettivo funzionamento del campo facendo emergere l’importanza di guardare anche ai perpetratori25. Alla luce di quanto detto finora emerge tutt’oggi la mancanza di una sintesi tra tutti gli aspetti sopra indicati e che guardi in maniera complessiva e complessa alle varie sfaccettature26.
2. Cenni per una biografia di Anita
A conferma di quanto descritto si colloca la ricostruzione dell’impegno militante e politico di Francesca Sosi (conosciuta come Franca Turra27, nome che assunse dopo il matrimonio e che lei stessa utilizzò per il resto della vita 1918-2003) nel periodo della Resistenza a Bolzano, vicenda che ad oggi non è ancora stata ricostruita all’interno di uno studio specifico e di una monografia a lei dedicata che ne sappia ricostruire non solo l’operato all’interno del Cln di Bolzano, ma anche la particolare condizione in cui Franca Turra si unì alla Resistenza del 1943. Una particolare condizione che fa coincidere la vita di Franca con quella del suo territorio, scisso e diviso tra appartenenze, scelte politiche e impegni etici, così come scissa è la vita della Turra durante quel periodo, che la porterà a ricoprire ruoli e identità molto differenti tra loro.
È Francesca, nata nell’anno della fine della prima guerra mondiale. Italiana in una terra contesa e lacerata, in equilibrio su un confine continuamente in movimento.
È Franca Sosi, assunta nel 1937 come impiegata dell’Ufficio del lavoro di Bolzano, che in bicicletta si muove tra i diversi comuni e insediamenti della provincia.
È la Franchina, insospettabile giovane moglie del soldato, convintamente fascista, Vittore Turra, laureato in Legge e impiegato alla Camera di commercio, sposato nel 1938. Dopo aver partecipato come volontario delle Camicie nere nella Guerra civile spagnola e nella campagna di aggressione all’Etiopia, partirà nuovamente per il fronte africano nel maggio del 1940 – quando Franca lo saluterà pochi giorni dopo la nascita della loro figlia Gabriella, avvenuta il 25 aprile, per rivederlo solo nel novembre del 1946, quando Vittore rientrerà dalla sua prigionia nel campo di Yol, in India.
È la Signora Turra per tutte quelle famiglie angosciate che nella metà di settembre 1943 iniziano a ricevere da lei delle lettere in cui comunica la sorte dei propri figli, mariti e fratelli passati dalla stazione di Bolzano e diretti verso i campi del Reich.
È Anita, responsabile del coordinamento logistico e tramite tra l’organizzazione clandestina interna al campo di Bolzano, il Comitato di liberazione nazionale (Cln) di Bolzano, e il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (ClnAI) di Milano. Centrale nel ruolo di ricostruzione dell’organizzazione di resistenza dopo le retate che portarono alla prigionia e alla morte il primo nucleo nell’inverno del 1944.
Infine, per chi è detenuto nel campo di via Resia, in attesa di conoscere il proprio destino, lei è solo una firma falsa su un pacco di aiuti, misterioso quanto tangibile segno dell’esistenza di una speranza oltre le mura del campo.
Dalle carte di quegli anni emergono via via i volti delle molteplici donne che Franca ha dovuto e voluto essere, quando venticinquenne assunse su di sé il peso della scelta etica e politica di partecipare alla lotta antinazista e antifascista per poi ritirarsi a vita privata, una volta vinta la sua battaglia28.
Francesca Sosi nasce l’11 giugno 1918 ad Avio, in provincia di Trento, dove la famiglia si era trasferita da Rovereto dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. Dopo la fine della guerra Franca si sposta tra Chivasso dove frequenta le scuole professionali, poi Torino e dal 1936 a Bolzano, dove la famiglia si sposta per seguire gli impegni lavorativi del padre, falegname e poi operaio specializzato della Lancia. I genitori di Franca sono entrambi socialisti e il padre rifiuta di prendere la tessera del Partito nazionale fascista.
Successivamente gli eventi della Seconda guerra mondiale irrompono a Bolzano dove Franca lavora come impiegata presso l’Ufficio del lavoro e cresce da sola la piccola Gabriella. L’8 settembre 1943 e l’occupazione tedesca segnano un vero e proprio spartiacque nella vita della città e della giovane Franca la quale, come tante persone bolzanine, assiste al transito dei treni carichi di soldati italiani catturati dai tedeschi e diretti in Germania. Nei mesi successivi camion e treni passano sempre più frequenti da Bolzano carichi anche di civili destinati alla deportazione.
Quelle scene spingono Franca a cercare un modo per aiutare e prestare soccorso ai militari prigionieri: in un primo tempo, raccoglie i bigliettini lanciati dai soldati dai vagoni cercando di contattare le famiglie per dare loro notizie.
Tra le carte di Franca sono molte le lettere in risposta delle famiglie, come quella del 28 settembre 1943:
«S. Gentilissima Franca.
Oggi con piacere abbiamo ricevuto notizie di mio figlio e ne ringraziamo con cuore che è stata molto gentile a darmi notizie. Se non vi disturbo avrei piacere sapere se son fermi a Bolzano se posso appena vengo a trovarlo mi date qualche risposta se potete, sono per ringraziarvi e mandarvi i più cordiali saluti.
Finardi Valentina»29
e quella data 10 novembre 1943 e inviata dalla famiglia genovese Alessi:
«Senta Signora Franca già che lei è così gentile che si interessa di mio figlio, se avesse fame gli compri quel che ha bisogno, poi mi scrive che cosa spende che io le spedisco subito i soldi. Oppure se lei non potesse comprarli, allora sia così buona di dirmi cosa le devo mandare che io glieli spedisco subito. Siamo operai ma per la nostra creatura si fa qualsiasi sacrificio, basta che stia bene.»30
Alcune lettere includono i nominativi di altri soldati, dei quali non si ha notizia. Sono lettere di famiglie che portano negli indirizzi le più diverse località della penisola, ognuna con un registro linguistico differente, ma tutte unite nel ringraziarla e nel chiederle di continuare a mandare notizie e di non abbandonare i prigionieri. Ma con il passare dei giorni il suo coinvolgimento è sempre più complesso da mantenere senza far parte di un’organizzazione più ampia e strutturata.
Di tutto il travaglio interiore vissuto nei mesi del passaggio alla lotta clandestina, farà riferimento laconicamente in una lettera al marito dell’ottobre 1943: «Non ho molto da dirti, cioè avrei moto [sic! molto] ma non posso scrivere e tu lo comprendi, caro. Ricorda solo e sempre che ti attendo con tutto il vivo e grande amore dei nostri giorni più felici.»31
Tramite la conoscenza di Manlio Longon che insieme a Ferdinando Visco Gilardi, Enrico Pedrotti e altri avevano costituito il Cln di Bolzano in stretto contatto con la direzione nazionale e in particolare con Lelio Basso a Milano, Franca entra a pieno titolo nel movimento di resistenza bolzanino con il nome di battaglia di Anita; nei mesi successivi Anita diventa il perno fondamentale del comitato clandestino di assistenza ai detenuti di cui Franca sarebbe diventata perno fondamentale. Infatti, nel dicembre del 1944 un’ondata di arresti – che investe gli stessi Longon e Gilardi – rischia di metter fine alla vita del comitato, ma Franca si incarica del coordinamento e insieme alla moglie di Gilardi, Maria, e ad altre donne assicura l’assistenza ai e alle detenute fino alla Liberazione. Franca tiene i contatti tra la resistenza interna del campo, il Cln di Bolzano e il Clnai di Milano; organizza la raccolta di materiale e denaro per la spedizione dei pacchi ai e alle prigioniere; gestisce e smista la corrispondenza; organizza piani di evasione; tiene dei registri in cui annota – molto pericolosamente data l’illegalità delle azioni condotte in territori in guerra e occupati dai nazisti – queste attività.
Questi documenti hanno costituito e costituiscono una mole documentaria preziosissima per la storia delle deportazioni e della resistenza del campo di via Resia e testimoniano la meticolosa cura con cui il Cln organizzò il servizio di raccolta, invio e distribuzione dei beni alle persone arrestate e in attesa di deportazione nonché l’importanza dei rapporti con i vertici milanesi e nazionali.
Da una lettera datata 17 aprile (senza anno, ma probabilmente 1944), indirizzata ad Anita da Virginia Scalarini (1909 – 1989, partigiana, responsabile delle comunicazioni tra il Cln e il movimento di assistenza per i deportati di Bolzano, figlia del celebre disegnatore satirico Giuseppe Scalarini) vi si legge infatti:
«[…] Dovresti tenere un bilancino mensile così fatto: avute tante – spese tante – ed una specifica sommaria dei pacchi inviati e delle famiglie assistite. Questo in linea generale perché domani, per eventuali controlli, si possa far vedere quel che si è fatto. Immagina quali e quante proteste avremo dai malcontenti. È consigliabile far questo a scanso di grane.
Promettono botte a destra e a sinistra e non è detto che alla fine finiscano per prendere anche noi!!
Viviamo in una atmosfera satura di elettricità, speranza, disperazione, e poi ancora speranza. Ma talvolta ci si sente schiantare. La macchina arrugginisce e siamo noi che ci sentiamo vecchi e ci sentiamo per questo così stanchi?
Basta! Coraggio e avanti ancora.
Ma ti lascio perché ho fatto tardi. Ti abbraccio affettuosamente assieme alle care amiche nostre. Un bacio specialissimo a te e alla tua bella bimba.»32
Durante gli ultimi drammatici giorni di guerra, il ruolo fondamentale di Franca è ribadito ancora una volta all’interno del movimento resistenziale, tanto che nel marzo 1945 Virginia Scalarini, in una delle lettere clandestine in cui le comunicava gli invii da effettuare aggiunse «Tutto quello che fai tu è ben fatto, ci rimettiamo completamente in mano tua»33. E ancora, Armando Sacchetta il 9 aprile 1945 le scrisse: «Cara Anita, siamo convinti, arciconvinti che più di quanto facciate non si può fare. Non vi si potrà mai ringraziare abbastanza, e, dopo che tutto sia finito, un monumento equestre non ve lo toglie nessuno.»34
3. Gli archivi e la memoria di Anita
I pochi cenni sopra esposti permettono di intravedere l’importanza dell’esperienza di Franca per la ricostruzione della storia collettiva del movimento di resistenza bolzanino e in particolare dell’assistenza ai e alle detenute del campo. Allo stesso tempo, celano la difficoltà di rintracciare i documenti su cui si basa la ricerca. Non esiste, infatti, un unico fondo in cui trovare tutta la meticolosa documentazione raccolta da Franca durante gli anni del conflitto e dell’attività clandestina. Anzi, la situazione che si presenta davanti agli occhi del e della ricercatrice è frammentata, complessa, disordinata. Come per molti altri archivi legati al periodo della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una divisione delle carte tra mani private, archivi di fondazioni e istituti, ma anche alcune perdite. Cercare di ricostruire gli itinerari che questa documentazione ha seguito nel corso del tempo, rintracciare le persone che ne hanno curato la conservazione, capirne le scelte, evidenziare limiti e possibilità non è solamente un mero esercizio scientifico, bensì si rivela carico di significazioni e di elementi interessanti che cercheremo di evidenziare nelle righe che seguono.
I documenti di Anita si trovano oggi divisi tra l’archivio di Aned nazionale a Milano, l’archivio della Fondazione memoria della deportazione, l’archivio privato della famiglia Turra conservato e gestito dalla figlia Gabriella, a cui vanno aggiunti rinvenimenti di documenti prodotti da Anita all’interno di un altro archivio privato – quello della famiglia Visco Gilardi – e nell’archivio di importanti personalità come Lelio Basso conservato presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma.
Innanzitutto, queste carte molto ci dicono sull’importanza rivestita dagli archivi privati che rimangono nelle mani dei familiari di chi le ha prodotte e conservate. Franca durante tutta la sua attività conserva, assumendosi anche molti rischi nel caso fosse stata scoperta dai nazisti, biglietti e lettere clandestine provenienti dal campo, corrispondenza con esponenti del Cln cittadino e di Milano, una contabilità minuziosa su denaro, aiuti materiali, organizzazione di evasioni, condizioni di internati e internate. Senza queste carte molti dei lavori indicati precedentemente non avrebbero visto la luce o, quantomeno, non nella forma e nei dettagli che conosciamo. A emergere è, infatti, un ritratto a più livelli non solo di Franca, ma, grazie al ruolo centrale da lei ricoperto, anche dello stesso Cln di Bolzano e della società altoatesina.
Le vicende conosciute dai documenti sembrano in generale seguire un doppio binario che li ha condotti su due strade diverse: se, da una parte, le carte relative al campo, quelle più ufficiali riguardanti la resistenza, l’assistenza e il funzionamento del comitato clandestino nonché le informazioni sui e sulle deportate sono in parte state cedute dal privato ad istituzioni pubbliche e sono rintracciabili e consultabili – seppur con sfumature e gradi diversi come vedremo – dai e dalle ricercatrici; dall’altra, gli epistolari più intimi e i documenti personali che gettano luce sul ruolo delle donne – e nello specifico delle giovani madri sole – durante la guerra, sul vivere una vita parallela e clandestina, sulla guerra civile esperita all’interno dello stesso matrimonio rimangono in casa della figlia Gabriella Turra che nel corso degli anni li ha conservati. In questo secondo caso vi è anche un’ulteriore questione: come trattare una memoria che è intrinsecamente familiare, che è stata conservata e si è tramandata in un ambito ristretto e protetto e che oggi è conservata da una persona che è stata lei stessa testimone, anche se bambina. Inoltre, Franca una volta finita la guerra e dopo il ritorno del marito Vittore a Bolzano decise di ritirarsi a vita privata. La testimonianza al convegno del 1975 fu un evento isolato, Franca parlò molto poco di Anita e del ruolo che svolse. Benché si sia trattato di una memoria molto forte, come testimonia la figlia Gabriella, questa è rimasta all’interno delle mura domestiche non entrando nella sfera e nel discorso pubblico35. Sicuramente ciò ha inciso sulla conservazione dei suoi documenti, inscrivendoli in una cornice familiare che solo dopo la scomparsa dei genitori Gabriella ha iniziato ad allargare.
Il fondo conservato presso Aned nazionale in Casa della memoria a Milano ancora non è sistematizzato, catalogato e inventariato secondo gli standard richiesti dalla dottrina archivistica. Si tratta di alcune carte prodotte durante la guerra, come la falsa carta d’identità di Anita o alcune lettere con il marito o con esponenti della resistenza, sia nei giorni della liberazione come il volantino che insieme ad Ada Buffulini stilano quando quest’ultima esce dal campo e per la prima volta incontra Anita personalmente, sia in periodo successivo come il dattiloscritto del suo intervento per il convegno del 1975 o la relazione sull’attività di Manlio Longon. L’importanza di questa documentazione è evidente di per sé, manca, invece, una giusta catalogazione che ne permetta l’accessibilità da una parte e la salvaguardia e tutela dall’altra.
I documenti in possesso della famiglia sono inoltre di difficile quantificazione in quanto, seppur trattati negli anni con attenzione e cura da parte della figlia Gabriella, sono divisi tra diverse abitazioni della famiglia, aumentando quindi il rischio di dispersione. Quelli visionati al momento contano diverse centinaia di documenti privati di identità – anche falsi -, lasciapassare prodotti clandestinamente, documenti relativi alle richieste di riconoscimento dell’attività svolta dopo la guerra, fogli sparsi di corrispondenza – spesso anonima – con personalità più o meno vicine al Cln e al movimento di assistenza per gli e le internate. A queste si sommano molte fotografie della Bolzano in guerra, realizzate dal partigiano Pedrotti o da altri componenti della famiglia di Franca. Inoltre, sono presenti migliaia di pagine di fogli manoscritti di corrispondenza privata tra Franca e il marito tra il 1938 e il 1946: alcuni di essi sono su carta non intestata, altri in buste e fogli delle Camicie nere, della Croce rossa internazionale, telegrammi precompilati della British army. Durante tutta la guerra non si interrompe mai la corrispondenza con il marito Vittore, rimasto fedele al Regime anche dopo il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. Le lettere che i due si scambiano sono centinaia e molto intense, gravate evidentemente anche dal peso della censura e dal segreto sulla propria attività antifascista che Franca avrebbe celato fino alla Liberazione: «Spero ardentemente che stia per finire il lungo periodo di sofferenze e che non sia lontano il giorno che ti rivedrò. Ormai l’incubo della dominazione tedesca è cessato e si sente veramente di respirare aria di libertà ma quanti sacrifici e quanti martiri ci è costata»36.
Unitamente alla vicenda di Anita e di rimando del Cln di Bolzano, dal fondo in possesso della famiglia emerge quindi anche un’altra storia: quella di Vittore Turra, della sua famiglia e della loro adesione al Regime, passata dalle esperienza all’interno delle organizzazioni fasciste locali e la loro partecipazione alle guerre del Regime e al conflitto mondiale. Questa altra voce emerge dalle lettere e dalle fotografie raccolte negli anni dal marito e i cognati di Franca: dai combattimenti in Spagna contro le Brigate internazionali descritti nelle lettere alle fotografie in posa davanti ai tucul etiopi, passando per la corrispondenza dal fronte ai fogli dattiloscritti sulla proprie esperienze nei campi per prigionieri militari in Africa prima e in India poi redatti nell’immediato dopoguerra. Tutta questa mole di documenti, apparentemente laterali alla vicenda di Anita, sono portatori di informazioni importantissime su molti aspetti: sul contesto familiare e quindi emotivo in cui Franca compì la sua scelta di resistenza attiva; sulla presa del Regime nel territorio di Bolzano tra la popolazione di lingua e cultura italiana; sulla compartecipazione che parte della popolazione ebbe con il fascismo e le sue politiche. Ciò rivela nuovamente quanto sia impellente una raccolta sistematica dei documenti presenti nelle case delle famiglie italiane, soprattutto nell’approssimarsi di un cambio generazionale, con la progressiva scomparsa non solo dei diretti testimoni ma dei loro figli, nati tra gli anni Trenta e Quaranta e il progressivo disinteresse o non conoscenza di queste carte da parte delle generazioni più giovani.
Accanto a ciò, il fondo conservato in Fondazione memoria della deportazione consta in tre rubriche alfabetiche37 nelle quali sono riportati i dati relativi ai e alle prigioniere del campo, raccolti da Franca nel corso delle sua attività. Sono riportati il nominativo; numero di matricola; luogo di detenzione nel campo (“blocco” o “celle”) di oltre trecento persone: a questi dati si aggiungono quelli relativi alle attività svolte, come le razioni di viveri, vestiario e prodotti assegnati e consegnati, note specifiche sulla condizione di prigionia. Per alcuni nominativi sono inoltre inseriti commenti e note, come nel caso della scritta autografa «Partita vinta!» posta a lato del nome di «Bianchi Antonietta. matricola 4046», pseudonimo per Rina Chiarini evasa dal campo grazie all’aiuto del Cln Bolzano. Sono presenti, inoltre, i documenti correlati a questa attività di sostegno ai e alle prigioniere come l’elenco con la registrazione delle somme amministrate per lo svolgimento dell’attività di assistenza e le ricevute attestanti la consegna di pacchi o di somme di denaro. Luciano Happacher nel suo volume del 1979 parla di un «elenco N» circa le persone assistite dal comitato clandestino: quell’elenco proviene proprio dalla rubrica tenuta da Anita. Nel fondo è presente una piccola parte della corrispondenza, intrattenuta o recapitata, a Franca durante le attività resistenziali.
Questo fondo entra ufficialmente a far parte del patrimonio archivistico della Fondazione nell’estate del 2015 a seguito della donazione di Gabriella Turra e del riconoscimento da parte della soprintendenza dei beni archeologici e archivistici dell’interesse storico di quelle carte. La sua vicenda è però travagliata come ha ricordato Dario Venegoni dieci anni prima, quando in occasione di un convegno pubblico38 quei documenti entrarono – o rientrarono – nella sfera di Aned. Venegoni, infatti, durante le ricerche per il suo libro sul campo riesce a rintracciare i documenti sopra descritti di cui si era a conoscenza dell’esistenza ma di cui non si sapeva più la collazione. Più in generale, era il patrimonio documentario di Aned a essere frammentato e in alcuni casi disperso. Raccolto e messo insieme negli anni da testimoni e familiari, mancava di un lavoro di organizzazione specialistica e della gestione da parte di archivisti professionisti. Nel caso dei documenti di Franca, questi erano confluiti – non si sa secondo quali criteri né quando – nell’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec); nel 2005 vennero quindi consegnati all’ora presidente di Aned Gianfranco Maris dallo storica del centro Liliana Picciotto per andare poi a costituire il fondo Turra così come è stato inventariato nel 2015.
4. Concusione
È risaputo come gli studi sul periodo della guerra civile e della Resistenza in Italia, con il loro interesse rispetto al tema della genesi della scelta etica di campo e della riscoperta del ruolo di singole e singoli comuni, lontano dalle grandi personalità più note, hanno segnato un rinnovato interesse rispetto agli archivi privati, ancora chiusi nelle case delle famiglie. Queste raccolte, composte da una molteplicità di fonti di natura differente, sono conservati dai protagonisti e dai familiari, e ad ogni passaggio generazionale sono sempre più esposti a rischio di dispersione e di frammentazione, in quanto possibile valore scientifico delle informazioni contenute in questo tipo di documenti è subordinato a una stratificazione di memorie e ricordi che travalicano i fatti indagati dalla ricerca, che vengono aumentati o sminuiti in relazione al punto di vista e al portato esperienziale e emotivo del familiare, e che allo stesso tempo vanno sempre considerati.
Da quanto abbiamo tratteggiato, a emergere è il tema delle prese di coscienza e delle scelte di singoli uomini e donne e di come in un momento di pericolo abbiano deciso di mettere tutto a repentaglio pur di seguire quella che per loro era la scelta più naturale ed etica. Nella vicenda di Franca Turra questo emerge con particolare forza quando decide di rinunciare alla relativa sicurezza di cui lei poteva godere rischiando tutto, anche a costo di portare la guerra civile in seno alla sua stessa famiglia, pur di seguire un ideale di giustizia e rispetto della vita umana. La sua ribellione verso il nazifascismo si salda a quella di altri uomini e donne che hanno compiuto un percorso analogo: uno spunto per mostrare come queste scelte collettive e individuali abbiano influenzato il percorso della guerra, sconvolto le vite dei protagonisti e determinato la salvezza per molti.
In quest’ottica, l’attenzione per la memoria di singole soggettività e il recupero dei loro archivi privati non è un mero esercizio di studio, che allarga il campo di indagine fino al micro, bensì un tentativo di riscoprire la dimensione collettiva degli eventi che hanno interessato la società italiana durante la Seconda guerra mondiale e i venti mesi di Resistenza. L’azione di Anita non sarebbe esistita senza l’azione degli e delle altre così come quelle di quest’ultimi non avrebbero trovato esito senza Anita: fanno parte di uno stesso sistema fatto di determinate e specifiche scelte politiche. Attraverso la riscoperta delle azioni singole infatti si può provare a restituire la collettività dell’evento stesso, in cui le singole sfaccettature di posizioni, reazioni e scelte etiche e di campo avvenute durante la guerra civile concorsero a modificare gli eventi generali.
Proprio per questi motivi non vanno sottovalutate le difficoltà e la complessità che risiede dietro la ricostruzione delle tracce di questa memoria. Il caso di Franca ci sembra esemplare da questo punto di vista. Se è indubbio una premura e un’attenzione alla conservazione sia durante l’azione sia a posteriori da parte di Franca e della figlia Gabriella, che ha permesso a questo patrimonio documentale di non andare perso e di esistere nella sua materialità ancora oggi; a mancare, di contro, è una cultura e una consapevolezza della conservazione che richiede il lavoro di professionisti per poter giungere a una sistematizzazione e, soprattutto, alla tutela dei documenti.
Dario Venegoni nel marzo del 2017 in calce all’elenco stilato a mano delle carte di Anita che entravano in quel momento in Aned scriveva «con preghiera di adoperarsi affinché tutta la corrispondenza inviata ad Anita nel periodo 1944-1945 e custodita in altri achivi sia riunita nel fondo Franca Turra Anita presso la Casa della memoria di Milano»39. In chiusura di queste pagine vorremmo riprendere quel auspicio in quanto la storia di Anita è anche quella di uno dei più importanti campi di prigionia gestito dalle SS sul territorio italiano: una storia che non può essere dimenticata né dispersa.
Note
- In questo scritto si utilizzerà l’appellativo di Franca Turra per rivolgersi a Francesca Sosi, in quanto lei stessa utilizzò questo nominativo per indicare sé stessa in lettere private, documenti per la maggior parte della sua vita.
- Carla Giacomozzi (a cura di), L’ombra del Buio. Lager a Bolzano 1944-1995, Comune di Bolzano, Assessorato alla Cultura – Archivio Storico, 1996, p.59.
- Archivio privato famiglia Visco Gilardi.
- Mimmo, Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, Mondadori, 2002, p. 243 “Mischa”.
- Giorgio Mezzalira, Carlo Romeo (a cura di), “Mischa” L’aguzzino del lager Di Bolzano. Dalle carte del processo a Michael Seifert, Assessorato alla cultura del Comune di Bolzano – ANPI, 2002.
- Costantino Di Sante, Criminali del campo di concentramento di Bolzano. Deposizioni, disegni, foto e documenti inediti, Teramo, Edizioni Raetia, 2019.
- C. Di Sante, Criminali del campo di concentramento di Bolzano, cit.
- Monumento alla vittoria. visto il 30 ottobre 2022.
- Turra Franca. 1944 settembre 29 -1979 gennaio. Inventario, visto il 30 ottobre 2022.
- Archivio Aned, Fondo Franca Turra.
- Ada Buffulini, Il Lager di Bolzano, storia ed analisi dell’ex campo di Bolzano, in “Triangolo Rosso”, Anno 3, n. 1-2, Gennaio – Febbraio 1976.
- Una via di Bolzano dedicata a Ada Buffulini, in “Triangolo Rosso”, n. 1-2, gennaio-marzo 2008, p. 63. Da notare che manca ancora un riconoscimento di questo tipo per Franca Turra.
- Presentata l’installazione commemorativa dedicata ai deportati nel Lager di via Resia , visto il 30 ottobre 2022.
- In uno dei volumi curati dal Laboratorio di Storia di Rovereto si dice che il campo venne trasformato dopo la liberazione nel “Caso”, un caso di silenzio. Laboratorio di Storia di Rovereto, Il popolo numerato: civili trentini nel Lager di Bolzano 1944-1945, Trento, 2017, p.11.
- Sulla difficile ricostruzione della storia e della memoria del fascismo nella zona si veda Andrea di Michele, La fabbrica dell’identità. Il fascismo e gli italiani dell’Alto Adige tra uso pubblico della storia, memoria e autorappresentazione, in “Geschichte und Region/Storia e regione”, 2004, n. 2, pp. 75-108.
- Dario Venegoni riporta i testi delle relazioni nel libro Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano, Mimesis, Milano 2005, pp. 137 e ssg.
- Archivio Aned, Fondo Franca Turra.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Gabriella Turra, figlia di Franca, riporta come di alcuni di questi documenti prestati dalla madre poi si sia persa traccia e non siano attualmente rintracciabili in nessun archivio.
- Luciano Happalacher, Il lager di Bolzano, Trento, Arti grafiche Saturinia, 1979.
- Andrea Di Michele, Storicizzare i monumenti fascisti. Il caso di Bolzano, in “Geschichte und Region/Storia e regione“, 2020, n. 2, pp. 149-167.
- Lager e Deportazione. La storia, i luoghi, le testimonianze visto il 30 ottobre 2022. Carla Giacomozzi (a cura di), L’ombra del Buio, cit.; Carla Giacomozzi, Giuseppe Paleari (a cura di), Lager a Bolzano : documenti e testimonianze, Bolzano, Archivio storico della città di Bolzano, 1996; Carla Giacomozzi, Nella memoria delle cose. Donazioni di documenti dai Lager all’Archivio della città di Bolzano, Bolzano, Archivio Storico della città di Bolzano, 2009.
- Laboratorio di Storia di Rovereto, Almeno i nomi. Civili trentini deportati nel Terzo Reich 1939-1945, Trento, Edizioni Temi, Trento 2013; Laboratorio di Storia di Rovereto, Il popolo numerato, cit.
- Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano, cit.
- C. Di Sante, Criminali del campo di concentramento di Bolzano, cit.
- Una delle poche esposizioni pubbliche di Franca e Vittore dopo la guerra sarebbe stato l’impegno e la raccolta di documentazione per l’attribuzione della medaglia d’oro al valor militare a Manlio Longon. Manlio Longon, visto il 30 ottobre 2022.
- Il 21 aprile 2005 al convegno organizzato da Aned intervennero Gianfranco Maris, presidente di Aned, Giorgio Sacerdoti, presidente di Fondazione Cdec, Liliana Picciotto, storica del CDEC e Dario Venegoni, visto il 30 ottobre 2022.
- Archivio Aned, Fondo Franca Turra, Lettera di Franca Turra a Vittore Turra, 11 luglio 1945.
- Il presente testo si inserisce in un progetto di ricerca più ampio portato avanti da chi scrive e promosso da Aned sul campo di Bolzano e in particolare sulla figura della partigiana Franca Turra con l’obiettivo di giungere alla pubblicazione della sua biografia nel 2023.
- Andrea di Michele, Rodolfo Taiani (a cura di), La Zona d’operazione delle Prealpi nella secondo guerra mondiale, Trento, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2009.
- Sulle politiche di italianizzazione nel territorio si veda Andrea di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003.
- Tutte le informazioni biografiche sono tratte dai documenti di Franca conservati dalla famiglia e dalle interviste a Gabriella Turra.
- Archivio Aned, Fondo Franca Turra.
- Sul destino del campo nel dopoguerra di elevato interesse sono le interviste raccolte dallo storico Giorgio Delle Donne per il progetto “Archivio Orale”, vd Patrick Urro, Il lager di Bolzano: una memoria scomoda visto il 30 novembre 2022.
- Oltre quel muro – La Resistenza nel campo di Bolzano 1944-45, visto il 30 novembre 2022.
- Da notare il lavoro svolto da una classe del liceo classico Carducci di Bolzano sotto il patrocinio dell’Anpi cittadino che ha condotto interviste a testimoni, internati/e e partigiani/e. Circolo Culturale dell’A.N.P.I. di Bolzano (a cura di), Aspetti e problemi della Resistenza nel Trentino Alto Adige. Il lager di via Resia Bolzano, Bolzano 1983.
- Si segnalano come primo strumento alcune sintesi: Carlo Romeo, Leopold Steurer, Bolzano e Alto Adige, in Enzo Collotti, Renato Sandri, Fedriano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2000, pp. 560-565; Carla Giacomozzi, G.Paleari, Bolzano, in Walter Laqueur, Alberto Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Torino, Einaudi, 2004, pp.96-99; Cinzia Villani, Il Durchgangslager di Bolzano (1944-1945), in Brunello Mantelli, Nicola Tranfaglia (a cura di), Il libro dei deportati. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, vol. II, Milano, Mursia, 2010, pp. 823-853.
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