Testamento spirituale ed eredità letteraria di Francis Jammes
Matteo Veronesi, Testamento spirituale ed eredità letteraria di Francis Jammes, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 48, no. 7, dicembre 2019
In una pagina dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke evoca, ammaliato, la figura ‒ così lontana, peraltro, dal baudelairiano choc, dalle epifanie stranianti o salvifiche, luminose o perturbanti, della vorticosa vita metropolitana ‒ di un poeta che non vive a Parigi, ma «in una casa silenziosa sulle montagne»: un poeta che «risuona come una campana nell’aria pura», che vede «pensosamente riflessa», nelle vetrate della sua libreria, «una cara, solitaria lontananza», ed è capace (come poi Gozzano, anche in questo debitore a Jammes, come tanta poesia italiana, da Pascoli a Govoni a Corazzini) di conoscere ed evocare l’amore di fanciulle morte da un secolo, i cui nomi recano in sé «una minima eco del fato, una minima delusione e morte».
Ebbene, quel poeta è proprio Jammes1. E sarebbe bastata un’attenta lettura di quella pagina, di quell’inserto lirico e insieme critico, all’interno di una narrazione realistica e in pari tempo memoriale ed evocativa, per evitare tanti fraintendimenti, tante letture in parte riduttive, che in Jammes hanno visto solo un cantore rusticale, provinciale, istintivo, avulso dalla sensibilità moderna, accettabile al limite come mera espressione di una cantabilità ingenua, di una sensibilità naturale, spontanea, precritica, o come prosecuzione tardo-ottocentesca della Musa, ora intimistica ora oratoria, animata da una talora cieca e ridondante fede nella Parola («Car le mot, qu’on le sache, est un être vivant»; «Car le mot, c’est le Verbe, et le Verbe, c’est Dieu»), di Victor Hugo.
Le vetrate del salotto ‒ quelle che in Gozzano custodiranno le stampe ingiallite e le fotografie ormai opache ‒ riflettono lontananze indefinite, spazi estesi del tempo, sognanti e pensose solitudini. Il vicino è specchio del lontano; il macrocosmo si riflette nel microcosmo, e viceversa; il piccolo mondo paesano e rusticale di Jammes (poeta, in questo, fedele alle sue amicizie, alle sue influenze e alle sue consonanze simboliste, dal Rodenbach opaco, chiaroscurale e modulato di Le Règne du Silence a Samain autunnale e traslucido al Verlaine penitente, sentimentale ed effuso di Sagesse e della Bonne chanson) è tutto pervaso e tramato di corrispondenze fra le cose e gli stati d’animo, e viceversa, «per via di decifrazioni», come raccomandava Mallarmé (di cui peraltro Jammes non condivideva il dichiarato intellettualismo, l’obscurisme, il rifiuto di un’umanità e una naturalità primarie, dirette, immediate, irriflesse).
Si potrebbe ripetere, per Jammes, ciò che scriveva William Blake in Auguries of innocence: «To see a world in a grain of sand, / And a heaven in a wild flower, / Hold infinity in the palm of your hand, / And eternity in an hour» («Vedere un mondo in un granello di sabbia, / E un paradiso in un fiore selvatico, / Tenere l’infinito ne palmo della tua mano, / E l’eternità in un’ora»).
Nel 1897, in quasi perfetta sintonia ideale e cronologica con il Pascoli del Fanciullino, Jammes pubblica l’ironico manifesto del suo movimento letterario, lo Jammisme2. «La Vérité est la louange de Dieu; nous devons la célébrer dans nos poèmes pour qu’ils soient purs». «Je trouve tout naturel qu’un poète, couché avec une jolie petite femme dure, préfère, dans ce moment, l’existence à la mort; cependant, si un poète qui a tout perdu dans ce monde, qui est atteint d’une cruelle maladie, et qui a la foi, compose des vers sincères où il demande au Créateur de le délivrer bientôt de la vie, je le trouve raisonnable». «Comme tout est vanité, cette parole est encore une vanité, mais il est opportun, en ce siècle, que chaque individu fonde une école littéraire».
Non devono sfuggire le sottigliezze, le ambiguità e le tensioni celate sotto l’apparente scanzonata ingenuità, o la gratuita provocazione, di questo proclama senza pretese. La Verità è lode a Dio, ed è essa a rendere pura la poesia. L’idea della poésie pure, che nell’universo simbolista indicava, in linea generale, una poesia concentrata più sulla musicalità e sul valore evocativo della parola in sé considerata che sugli oggetti da essa designati e descritti, si colora, qui, di una connotazione religiosa e cristiana, legata all’idea di purezza, di schiettezza, di sincerità, di immunità da ogni finzione, sofisticazione, lenocinio.
Il poeta può cantare sia la gioia sensuale (purché non intellettualisticamente complicata, contaminata, mistificata), sia il desiderio di morire; egli può, addirittura, in un’ottica religiosa, implorare Dio di lasciarlo morire. Tutto è vanità, e vana è ogni parola letteraria, e soprattutto ogni parola teorica e programmatica; ancora, un concetto religioso (il motto Vanitas vanitatum et omnia vanitas dell’Ecclesiaste) è applicato alla sfera letteraria, ma, paradossalmente, per relativizzare e dissacrare lo stesso dominio del fare letterario, e per affermare una forma di ironico, antieroico individualismo, che non è quello, coevo, di Nietzsche, di D’Annunzio, di Wilde, ma quello di un poeta, e prima ancora di un uomo, volutamente e dichiaratamente umile, eppure proteso (proprio in virtù di questa umiltà, di questa humilitas, di questa prossimità alla terra) verso un’immedesimazione con la natura profonda ed autentica, un’immersione nel grembo primordiale della materia vivente ben più totale e completa di ogni estasi pànica, di ogni meridiano e dionisiaco entusiasmo.
Nulla di più lontano, parrebbe, da Rilke, la cui poesia è per antonomasia complessa, sfumata, ricca di implicazioni e di complicazioni concettuali e filosofiche; velata, chiaroscurale, volutamente opaca, solcata da sottilissime venature di pensiero e di parola; eppure, si potrebbe dire, semplificando un poco, e rifacendosi alla pagina dei Quaderni prima citata, che Jammes, agli occhi di Rilke, ha raggiunto, o forse posseduto a priori, per la sua stessa intrinseca natura, per il suo nodo di anima e destino, quella naturalezza, quella spontaneità, quella consentaneità, e si vorrebbe dire quell’innata parentela, con il mondo, le cose, il vivente, e con la loro rituale e sacrale nominazione, la loro ri-creazione nella parola e attraverso la parola, a cui Rilke tese sempre, e avvertì sempre di tendere invano.
Jammes possedeva fin dal principio quella naturalezza da cui Rilke si sentiva distante, e a cui non poteva che alludere, per vie oblique, attraverso il simbolo, lo scorcio, l’allegoria franta ed oscura, l’analogia perturbata, l’eco diffranta, evocando, infine, per farne l’oggetto stesso della sua poesia, quella medesima distanza ‒ quella «cara e solitaria lontananza» del mondo riflesso nelle vetrate.
Jammes non è lontano, in ciò, dalla conoscenza come co-naissance, come sintonia naturale, e insieme come rifacimento del processo della creazione originale attraverso quello della percezione e della rappresentazione del mondo, teorizzata da un altro grande poeta cattolico, Paul Claudel.
Rilke invece evoca, in lontananza, quella realtà con cui Jammes vive, al contrario, in diretta sintonia, immerso in essa come fibra vivente. «Gli angeli appartengono al tremendo». Gli angeli, i candidi messaggeri che in Jammes salutano con un coro radioso la Naissance du poète, il quale è voce dell’universo, eco del Verbo, riverbero della natura naturante, in Rilke solcano invece il deserto della distanza, attraversano la voragine dell’iato conoscitivo, la ferita dolorosa spalancata fra Soggetto ed Oggetto nell’atto stesso della conoscenza.
Proprio per questo, Rilke è più vicino a noi, la sua modernità più prossima alla nostra ‒ ché non di tradizionalismo e modernità, assolutizzando quest’ultima in chiave iconoclastica e insieme canonica, si dovrà parlare, ma piuttosto di due diverse modernità, di due diversi modi (il primo più corposo e diretto, il secondo più delicato e sfumato) di vivere la modernità letteraria.
«La poésie de Jammes, c’est mon enfance retrouvée», scrisse François Mauriac rievocando l’amico sulla Revue de France, nel settembre del 1939. La spontaneità delle sensazioni e delle immagini poteva dare la percezione, o l’illusione, del ritrovamento di una condizione originaria, aurorale, di un’intemporale ed astorica sintonia con i cicli naturali; l’impressione di essere regrediti al vert paradis des amours enfantines cantato da Baudelaire.
Ma, come si è accennato, quest’idea, di sapore per noi pascoliano, di una natura, e una naturalezza, ritrovate al di là di ogni artificio, passa nondimeno attraverso un filtro stilistico che non ignora le analogie, le sinestesie, e talora le bizzarrie o i preziosismi, dell’immaginario e dell’armamentario stilistico propri del simbolismo.
Un lettore della sensibilità e della finezza di Remy de Gourmont, in Le Livre des Masques, parlò, con espressioni che fanno quasi presagire certe analoghe osservazioni del Serra lettore di Pascoli, di «une phrase qui semble celle d’une causerie distraite et qui pourtant, comme par hasard, forme des vers charmants, purs et définitifs»; e di «images très simples, et même, si l’on veut, naïves, mais d’une naïveté qui se connaît et qui connaît sa beauté»; colse, insomma, l’essenza di una poesia apparentemente, e perlopiù, semplice, piana, conversevole, quasi casuale, ma punteggiata, a tratti, di versi lapidari, scolpiti, di un’evocatività simbolista e una cesellatura parnassiana (non per nulla, tra i fautori di Jammes vi fu François Coppée), e contrassegnata da un’ingenuità consapevole di se stessa, della propria bellezza naturale, nuda, disarmata, eppure non artefatta e non leziosa.
Nella poesia di Jammes, per non dare che qualche esempio, il bue «s’achemine vers l’horizon d’un bleu d’argent»; «Je pense à ton amour qui veille sur mon âme / comme un souffle de pauvre à quelque pauvre flamme»; «O pâle route, o sainte table du travail / où tombe tout le bleu du céleste vitrail!». Anche la rappresentazione del mondo animale nei suoi aspetti più concreti e più umili è accompagnata da sfumature ricercate (l’azzurro del cielo striato dall’argento delle nubi); i sentimenti più semplici ed elementari sono associati ad un analogismo che li smaterializza, senza renderli astratti o cerebrali (l’amore paragonato al soffio che sfiora la fiamma e le braci di un umile focolare); il lavoro umano è illuminato, e quasi trasfigurato, da effetti luministici di una preziosità quasi mallarmeana (la luce blu della vetrata che avvolge gli oggetti, non nominati ma evocati, del lavoro quotidiano, il cerchio umile e solenne delle opere e dei giorni).
Questi, mi pare, i tratti essenziali del percorso poetico ‒ coerente con se stesso, con i propri presupposti, se non addirittura un poco monotono ‒ di Jammes, da De l’Angélus de l’aube à l’Angelus du soir, del 1898, alle Géorgiques chrétiennes, del 1914 (non per indicare due estremi, ma solo due tappe emblematiche, dall’esordio alla piena maturità, dalle suggestioni e fascinazioni liriche ad una visione che fonde le suggestioni naturalistiche, idilliche, classicheggianti e, ancora, simboliste, con una visione cristiana che vede nella natura e nel travaglio dell’uomo un riflesso dell’ordine divino).
La sua poesia «si giustifica e trova un senso, una progressiva autocoscienza, una peculiare modulazione proprio in quanto assume le negazioni mallarmeane e simbolistiche come presupposto per negarle a sua volta (da posizioni conservatrici), in quanto scopre le proprie somiglianze con i prodotti dei tentativi di riconversione poetica che alcuni simbolisti stanno compiendo»3.
Jammes ‒ che era stato generosamente elogiato da Mallarmé, e accolto nella cerchia, dagli orientamenti marcatamente simbolisti, del Mercure de France ‒ prende le mosse proprio dal Vide, dall’Abyme che Mallarmé aveva scavato nella parola poetica francese, dall’ossessione della pagina bianca a cui la Musa di Mallarmé era approdata nel suo rifiuto della retorica, della ridondanza, dell’oratoria. E il dire ricostruito, ricostituito, risorto (la Musa di Jammes è appunto quella di una Parola morta e risorta, smarrita e ritrovata, dissolta e ricomposta dalle sue ceneri), rifiutando da un lato la retorica, dall’altro l’intellettualismo, da un lato la fanfara roboante del sentimentalismo o della propaganda, dall’altro il silenzio raggelato di un’autocoscienza imprigionata, irretita e paralizzata dai suoi stessi simulacri, dai suoi stessi riflessi, dalle sue stesse riverberate proiezioni, non poteva che sfociare in un dire dimesso, sommesso, in un cantare simile alla conversazione o al racconto a mezza voce (si pensi ai pascoliani versi «che cantano forte e non fanno / rumore», su cui si soffermerà Serra, o al montaliano «rombo silenzioso»), avulsi tanto dall’afasia, dal pensiero raccolto su se stesso fino a divenire dialogo-monologo occulto e silente, quanto dalla parola falsa e strumentale.
La poesia italiana, confrontatasi con Jammes, prenderà altre vie: con Gozzano, quella di un realismo e di una poesia delle cose intrisi però di preziosismo parnassiano, non senza, malgrado l’opposto intento, venture dannunziane; con Montale, quella di un oggettività metafisica, di un paesaggio simbolico, esistenziale, dolorosamente dilavato e scarnito; con Ungaretti e gli ermetici, quella di una ritrovata parola pura ed assoluta, ridivenuta specchio, mondo e tutto a se stessa e per se stessa, suono assoluto ed incomparabile della temporalità e dell’eterno. Ma Jammes sembra, in ogni caso, pur in apparenza così lontano, con il suo voluto ed esibito provincialismo rusticale, dalla nostra sensibilità e dal nostro gusto, costituire un anello e un passaggio significativi, se non ineludibili, nel divenire della modernità letteraria.
Tempo sacro, consacrato dall’eterno, «tempo della chiesa», quello di Jammes, scandito dai lavori dei campi, dall’avvicendarsi delle stagioni, da ciclo di morte e nascita proprio della seminagione e della raccolta; e Logos spermatikòs, «seme del Verbo», parola effusa, diffusa, dispersa per essere poi raccolta, e raccogliersi, nel frutto della risonanza e della lettura, pare la parola stessa del poeta; eppure, anche nel momento della sua manifestata, epifanica sacralità, della sua scansione necessitata, riconoscibile, rassicurante, finanche “conservatrice” e “retriva” e “premoderna” in termini ideologici, il tempo di Jammes conserva qualcosa di un’indetermintezza e di una soggettività tutte moderne, simboliste, bergsoniane quasi:
Mon âme grave se prosterna sur la grand-route.
Une espèce de chose religieuse et douce
nageait dans l’azur pur où peinaient les bœufs roux…
C’était comme un chant que l’on n’entend pas,
comme un mendiant d’hiver qui traîne ses pas
vers la paille d’auberge où la nuit l’endormira.
Sul paesaggio segnato dalla sofferenza, dalla pena, dal lavoro, dal giogo della materia, si staglia un’azzurra indeterminatezza, «una cosa religiosa e dolce», un senso, si potrebbe dire, ancora fluttuante e proteiforme del numinosum; una sensazione simile ad «un canto che non si comprende», o che forse non si percepisce neppure, manifestazione-nascondimento, dunque, sensibile-insensibile, dell’ignoto; e, poi, lo stridio penoso ed affaticato del mendicante sula neve e sul ghiaccio, emblema di un tempo esclusivamente umano, orfano ed impoverito.
L’eau reflète, comme en un sommeil, l’azur
pur qui se pose à la pointe dorée des mousses.
Je me suis assis au pied d’un chêne noir
et j’ai laissé tomber ma pensée. Une grive
se posait haut. C’était tout. Et la vie,
dans ce silence, était magnifique, tendre et grave.
Mentre l’acqua rispecchia l’azzurro puro del cielo, come nel sonno, basta il volo di un tordo che si posa sui rami di una quercia a sospendere, nel silenzio, il tempo. La percezione del tempo si fonde con quella dello spazio, nell’immobilità dell’istante; e quello stesso nodo unisce e congiunge la terra e il cielo. Azur pur, emblema mallarmeano (come poi pascoliano) sembra essere un sintagma particolarmente connotato, una spia di senso, una sorta di assoluto poetico, in cui l’affinità fonica, il gioco d’eco, la coesione sonora, si fondono alla suggestione cromatica: una sorta di assoluto poetico cristallizzato in parola-immagine, o di preziosa pierrerie incrostata ed incistata nel fluire, apparentemente discontinuo e trascurato, del discorso provinciale. Ancora Rilke: «Getta dalle braccia il vuoto / oltre gli spazi, che noi respiriamo; / forse gli uccelli sentono l’aria espansa con volo profondo».
E, forse, anche le oscillazioni, le anomalie, le alterazioni, le libertà, se non le vere e proprie «scorrettezze» metriche, tante volte rilevate, che Jammes si concede nel trattamento dell’alessandrino, specie per quanto riguarda le cesure e le vocali mute, corrispondono a questa peculiare percezione del tempo, insieme assoluto e soggettivo, interiore e trascendente ‒ anzi forse, precisamente, l’una cosa perché l’altra, e viceversa. Jammes, pur avulso dal modernismo più agguerrito e programmatico, da ogni più ostinata ricerca del nuovo, non fu insensibile al clima bergsoniano (pervaso dal libero fluire della coscienza interiore e del tempo vissuto) in cui maturò il verslibrisme.
Un fondo simbolista si trova, senza eccessive forzature, anche in un testo (Le crucifix du poète, pubblicato nel 19354) che, pur non essendo l’ultima opera data alle stampe da Jammes, e pur essendo, sul piano tematico, già prefigurato da La Divine douleur, del 1928, sembra rappresentare, a soli tre anni dalla morte, una sorta di testamento spirituale del vecchio poeta ormai solo, povero, malato, ormai sostanzialmente emarginato dal mondo delle lettere, che con le avanguardie storiche e la grande stagione del Surrealismo francese aveva oramai preso strade ben diverse dalla naturalezza e dalla voluta genuinità dello jammisme, e aveva, semmai, ripreso ed esasperato, del simbolismo, il surnaturalisme baudelairiano, e fatto propria la littérature de la cruauté di Sade e di Lautréamont, avviandosi dunque verso l’esatto contrario della natura e della naturalezza, verso tutto ciò che era o appariva distorto, anomalo, malato, irregolare.
Un testo, il Crucifix, difficilmente classificabile, al crocevia tra prosa poetica, oratoria religiosa, diario intimo, prosímetron (la prosa mistica, intimistica, palpitante, fervente, del discorso sacro è inframmezzata, senza soluzione di continuità, da sequenze poetiche, in cui Jammes utilizza disinvoltamente il verso libero, memore, forse, non tanto delle sperimentazioni primonovecentesche del post-simbolismo, quanto, piuttosto, dell’andamento e della cadenza liturgiche, rituali ed oranti delle litanie, delle giaculatorie, delle sequentiae, dei salmi ‒ insomma di quella infima latinitas, di quella latinità ormai lessicalmente e prosodicamente tarda, declinante, contaminata, che aveva del resto affascinato, invero per ragioni più estetiche che spirituali, molti letterati decadenti e simbolisti, da Huysmans al Mallarmé della Prose pour Des Esseintes al Gourmont di Le Latin Mystique).
Del resto, non andrà dimenticata l’idée catholique da cui partivano, per ammissione dello stesso Baudelaire, Les Fleurs du Mal, tutte pervase dal contrasto di Bene e Male, dalla dicotomia, e dall’interconnessione, di Enfer e Ciel, e soprattutto dal logorio atroce, intellettuale ed etico insieme, della «Conscience dans le Mal».
Ma, più in generale (ed è, questo, un punto complesso, che qui si può solo sfiorare), come suggeriva il Maritain di Art et Scolastique, la stessa concezione delle analogie, delle corrispondenze, delle sintestestie, non sarebbe concepibile al di fuori di un’ontologia che è quella sottesa alla metafisica, alla teologia e alla mistica cattoliche: al di fuori, cioè, di un ens analogum univocum, di un comune fondo di Essere, predicabile del Creatore come della Creatura, che unisce, come per i diversi gradi di una scala, o lungo gli anelli di un’aurea catena, immanenza e trascendenza, realtà della natura e assoluto metafisico, temporalità ed eterno.
Su questo fondo analogico si fondavano tanto i «concetti predicabili», duttili, mobili, proteiformi, ingegnosi, dell’oratoria sacra, quanto le sottigliezze, le arguzie, le agudezas della retorica, che nel Seicento della Controriforma divennero, nei casi migliori (basti pensare ai foschi meandri di Góngora, o al barocco moderato ed illimpidito di Bossuet), strumenti non solo di maraviglia, esibizione, stupefazione, ma anche di conoscenza, di meditazione, di scandaglio e di arricchimento interiori.
E proprio Bossuet, nelle pagine sulla Dernière semaine du Sauveur, nelle Méditations sur l’Évangile, può essere citato per introdurre il nucleo fondamentale, il centro generatore delle idee e delle immagini che innervano il discorso di Jammes. «L’action du crucifiement semble avoir élevé Jésus pour être l’objet de tout le monde; il est en butte à toute contradiction d’un côté; et de l’autre il est l’objet de l’espérance du monde». Proprio nel momento della sua umiliazione e del suo martirio, nell’ora predestinata in cui viene messa più dolorosamente a nudo la sua disarmata umanità, Cristo diviene centro dell’universo, asse del cosmo, ricettacolo di ogni speranza di redenzione e di salvezza.
La croce, nelle pagine di Jammes, è identificata con l’axis mundi, con l’Albero Cosmico (presente nelle civiltà e nelle religioni più diverse) che affonda le radici nel grembo della terra e tocca le altezze celesti con la sua chioma.
Si avverte, in questa visione, l’eco, consapevole o meno, di un testo del cristianesimo delle origini, l’omelia In Sanctum Pascha, di autore incerto, in cui il legno della croce di Cristo si contrappone a quello dell’albero del peccato originale; «ha mostrato veracemente in se stesso la vita sospesa», incerta, prostrata, fluttuante, di cui parla il Deuteronomio; è déndron ouranómekes, «albero che colma il cosmo», come la croce celeste del Timeo di Platone; ed è sýmplegma kosmikón, «vincolo cosmico che tiene unita l’essenza umana e quella difforme».
Ma a questa simbologia paleocristiana si sovrappongono richiami medievali e barocchi; alla squisita, delicata e dolente sensibilità del monachesimo femminile (Gertrude di Hefta, Mechtilde von Magdenburg), afflitta in modo atroce e insieme dolcissimo dalla sete che l’Anima ha di Dio, e che Dio stesso ha (come in Meister Eckhart e in Jacob Böhme) dell’Anima, si affianca il Trattato del Divino Amore di San Francesco di Sales, in cui è celebrata la «cima suprema dell’anima» (simboleggiata dal vertice della croce) da cui sgorgano le sue facoltà come ruscelli molteplici da una fonte d’acqua viva, e l’«amante sacro» è paragonato alla cicala, «perché tutte le facoltà della sua anima sono altrettante canne ch’egli ha nel petto per far risuonare cantici e lodi dell’amato».
Proprio la canna, il roseau, offre a Jammes uno degli àmbiti metaforici più suggestivi del suo discorso. La canna, metafora e simbolo dell’asse verticale della croce, è anche il roseau pensant, la «canna pensante» (fragile, fragilissima, ma consapevole della sua condizione, e conscia dell’abisso che può schiacciarla, e che invece non ha, di sé, coscienza alcuna) che è, per Pascal, l’uomo; ma la canna è anche il flauto silvestre, la tenuis avena, il calamus agrestis della poesia bucolica, da Jammes rivisitata in chiave simbolista e insieme cristiana, e il veicolo e il tramite del «souffle artficiel / De l’inspiration, qui regagne le ciel», non religioso in senso stretto, ma ugualmente spirituale e sublimante, dell’Après-midi d’un Faune, la Églogue di Mallarmé.
E il finale, certo un poco retorico, moralistico, paternalistico, muta però efficacemente la visione apocalittica, tristemente profetica, di un mondo minacciato dall’odio, dalle armi, da una tecnologia aberrante e deviata, nel tripudio cristiano, e insieme dionisiaco, di una natura feconda e festante, come se l’ecclesiologia si conciliasse con l’ebbrezza pànica, il quasi disperato attaccamento alla vita con la devota elevazione, la celebrazione della terra con quella del cielo.
Questa visione vasta, potente, un poco enfatica certo, è per noi, oggi, inequivocabilmente, e certo un po’ tristemente, lontana e perduta. Proprio per questo, un testo come Le crucifix du poète può rivestire ai nostri occhi un certo interesse, almeno storico-culturale.
D’altro canto, Jammes era inattuale anche ai suoi tempi, che furono prima quelli utilitaristici e materialistici del positivismo e della seconda rivoluzione industriale, poi quelli ‒ antitetici ‒ del cosiddetto, e per certi aspetti nefasto, irrazionalismo primonovecentesco, in cui il vitalismo si fondeva curiosamente con il mito avanguardistico della velocità e della macchina. L’attualità di Jammes risiede, paradossalmente, nella sua perenne inattualità.
Ora, non è mia intenzione, né mi sarebbe possibile, esaurire tutti gli echi e tutte le risonanze ‒ dirette o indirette, accertabili o solo possibili ‒ dell’opera di Jammes nella poesia europea. Esistono già, del resto, autorevoli studi al riguardo5(attenti, però, più a questioni specifiche che ad uno sguardo d’insieme, e rivolti forse più alla lettera che allo spirito, più all’esattezza filologica dei riscontri che alle consonanze spirituali che amano spesso nascondersi nel profondo, e che sono tanto più illuminanti quanto meno oggettivamente verificabili).
Desidero, più che altro, mettere in luce ‒ in un’ottica inevitabilmente per molti aspetti soggettiva ‒ alcuni riverberi, alcune irradiazioni, alcuni aloni e risonanze, che l’essenza della figura e dell’eredità di Jammes ‒ di quel poeta, scriveva Rémy de Gourmont nel secondo Livre des Masques, capace di dipingere figurazioni verbali «chiare» e «vere» con versi che, pur lessicalmente semplici, riuscivano «charmants, purs et définitifs», pervasi da una «musique tiède et lasse», quali sarebbero potuti sgorgare dalla penna finissima di un parnassiano o da quella ardita ed evocatrice di un simbolista ‒ poté imprimere, in senso lato, sulla sfera poetica del contemporaneo; o, se si vuole, rievocare, ripercorrere, forse anche vanamente inseguire ‒ per citare il Proust di Contre Sainte-Beuve ‒ quelle «heures vagabondes et innocentes» che Jammes incarnerebbe in una universale storia, o meglio metastoria, della poesia universale, tale da trascendere le singole individualità creatrici.
E, proprio alla luce di questa coscienza critica, di questo spessore culturale, di questa vastità e fecondità di latenti risonanze, sarà bene superare lo stereotipo (per lungo tempo proiettato su quel Pascoli a lui così affine) di un Jammes poeta candido, inconsapevole, quasi infantile, insomma «poeta ingenuo» (a meno che non lo si intenda in senso schilleriano, come poeta, cioè, che «cerca la natura» dopo che la razionalità dello spirito moderno lo ha per sempre allontanato da quell’originaria armonia, con una frattura di cui egli è del tutto conscio).
Vi è in lui, semmai (come notava per primo ancora Gourmont, inaugurando un motivo che sarebbe poi stato ripreso da Gide e, in chiave riduttiva, da Carlo Bo6), una sorta di «orgoglio della semplicità», di «orgoglio dell’umiltà» (quasi la francescana «perfecta letizia» dei Fioretti, che scaturisce proprio dalla mortificazione, dalla riduzione ad una nudità quintessenziale e purissima, liberata da ogni esteriorità, da ogni scoria e sofisma), accompagnato, dice Gide, da una «pleine conscience de son importance».
E proprio questo mio approccio fondato sulla sostanza del messaggio poetico al di là della corrispondenze letterali significative o casuali, delle vere o presunte «fonti», potrà forse evitare alcuni richiami e alcuni paralleli piuttosto esteriori, ancorati alla lettera più che allo spirito, alla scorza più che all’anima ‒ basti pensare, qui, all’accostamento, ricorrente nei commenti, tra l’«odore d’ombra» della Signorina Felicita di Gozzano e l’«odeur d’ombre» (in tutt’altro contesto, più sensoriale che simbolico) di Existences di Jammes, nel Triomphe de la Vie («Temperature torride! Odeur d’ombre!»).
Più volte si è fatto il nome di Jammes a proposito dei Crepuscolari. E, in effetti, l’«odore del passato» della Signorina Felicita, certe rievocazioni, fra sentimentali ed ironiche (come nel Jammes di Clara d’Ellébeuse), di un mondo ottocentesco e romantico, rinviano decisamente a Jammes (basti qui citare Le vieux village: «Et je sentis une odeur du passé, / dans les grands arbres et dans les roses blanches», dove la metafora densamente evocatrice, calata nel divenire del tempo, si associa, spazialmente, alla vastità degli alberi, in cui, nello splendido incipit dell’Assenza, sfuma il senso del distacco, della mancanza, del vuoto: «Un bacio. Ed è lungi. Dispare / giù in fondo, là dove si perde / la strada boschiva che pare / un gran corridoio del verde»).
Ecco, proprio questa fusione di tempi e luoghi, questo delicato sfumare e svanire degli uni negli altri, accomuna Crepuscolarismo e Jammismo, al di là della stessa materialità testuale, che sembra essa stessa assottigliarsi in un alone di lontananza e d’assenza.
Le «cose», «povere» e «buone», di Gozzano e Corazzini hanno alle spalle le «choses de l’ancien temps où j’allais», come si legge nella piccola raccolta d’esordio, Vers, del 1894 ‒ e, pascolianamente, «les morts aimés dont je suis né».
«Dans le parc séculaire / c’est le deuil de mon coeur, et je suis mort de vivre», si legge nella Élégie seixième del Deuil des primevères. L’antico parco ormai desolato, non popolato che da memorie di fantasmi, luogo emblematico di Gozzano e prima ancora del D’Annunzio del Poema paradisiaco, si associa all’idea, pascoliana e poi montaliana e luziana, della «morte che vive», del «perpetuo vivere nei morti», della presenza e della persistenza ossessive e perturbanti degli estinti.
Ma, sebbene nulla, forse, sia più della poesia di Jammes lontano da ogni forma di ermetismo e di simbolismo intellettualistico e astratto, vi è, nei suoi versi, anche una sorta di diffusa e pura musicalità, in cui le parole paiono perdere il loro senso primario, e vibrare di armonici celati e lontani.
Ancora in Vers:
Neige endolorissante et morne, tu déroules
Ta nappe liliale au toit cher que je sais,
Neige endolorissante, ȏ neige qui t’accroules!
Vi è, qui, la stessa musica candida, morbida e sommessa del Sonetto della neve di Corazzini: «Nulla più tetro di quel cielo morto / che disfaceva per il nudo orto / l’anima sua bianchissima e leggera / (…) l’orto sopito di melanconia / nella tetra dolcezza della neve» (dove, con un fonosimbolismo che trascende le differenze linguistiche, sono le t, le r, le o, con il loro sommesso, lamentoso mormorio, a trasmettere la sensazione della «tetra dolcezza», di una morbidezza lacrimosa e di una dolente quiete).
E lo stesso potrebbe valere, sùbito dopo, per questa terzina dalla musicalità inafferrabile, intraducibile, che ha qualcosa di aspro, rude, arcaico, e insieme di soave e d’intimo: «Des contes jacassés, ai soir, par la fileuse, / En la cuisine antique où le pot noir chantait / Au rauque dévidoir sa chanson douce et creuse»; dove appare, fra l’altro, la figura della Tessitrice, sorta di enigmatica Parca insieme tenera ed inquietante, fra Leopardi («Sonavan le quiete / Stanze, e le vie d’intorno, / Al tuo perpetuo canto») e Pascoli («Con un sospiro quindi la cassa / tira del muto pettine a sé. / Muta la spola passa e ripassa»).
Ma sono anche altri i passi in cui le parole sembrano fluttuare su di un impalpabile spessore di musica, su di un sostrato armonico, fra suono e significato, che quasi le trasfigura fino a renderle diafane. «Et la décrepitude / de la maison était pleine d’un grand silence, / et je croyais entendre que les morts dans le ciel / se taisaient dans la maison triste où je venais»; «l’eau claire à l’ombre … / au soleil, si loin, l’eau, dans cette obscurité / qu’elle a au soleil» (due passaggi dove, nel primo, le sibilanti evocano il silenzio così come, nel secondo, le liquide e le rotanti suggeriscono la fluidità e lo scintillio).
Le parole arrivano poi, con il maturare dell’autocoscienza letteraria, ad esplicitare e stilizzare la propria stessa desemantizzazione. «Nous prendrons de vieilles poésies, / des choses entendues qui se sont confondues, / des mots qui ne sont plus qu’une musique obscure» (Élégie seconde, nel Deuil des primevères). Qui Jammes, pur alieno da ogni orfismo e da ogni obscurisme, sembra addirittura avvicinarsi, almeno concettualmente se non stilisticamente, alla poésie pure, alla musique du silence di Mallarmé.
Che questo sfumare, questa evanescenza non derivino da nuda ingenuità o disarmato candore, è dimostrato dalla complessa, per quanto soggettivamente vissuta, stratificazione di letture, incontri, influenze, attestata da un libro forse non abbastanza studiato, le Leçons poétiques, edite dal Mercure de France nel 1930. Dove lo stile di Mallarmé è caratterizzato come una sorta di «sogno fatto in presenza della ragione», per riprendere l’espressione di Tommaso Ceva cara anche a Montale7, discorso di un poeta che «chante en dormant», e nei cui versi l’esattezza, la paradossale «clarté» delle linee e dei particolari, si sposa alla loro dissoluzione in una sorta di «incognito indistinto», in cui «on ne distingue rien à première vue, et la masse à nouveau se perd dans le détail».
E l’autocoscienza letteraria si sposa con la mistica ‒ tutti i poeti, ispirati da una stessa Anima universale, cercano di far collimare la propria parola con una «super-langue universelle qui, par un silence infus, se rapproche du parler des anges»8.
Lo stesso in Elegia di Corazzini (dove, stilisticamente, questo quasi-svanire delle parole quasi inghiottite da se stesse, questo dissolversi del senso nel suono ‒ fino al quasi-nulla, al quasi-silenzio, appena ad un soffio dal bianco e dal vuoto, di Jankélévitch9‒ si traducono nell’impiego insistito di cesure singhiozzanti, iterazioni, enjambement): «Sarà come se tu cantassi una / preghiera incomprensibile, per lungo / volger di tempo, in fin che in una sera, / forse più dolce e triste, all’improvviso / t’avvenisse, così, senza sapere, / di comprenderla intera. / (…) Lungo i chiari fiumi / canteremo le più vecchie canzoni / e sarà dolce non seguirne il senso» (forse Montale se ne ricorderà in Tentava la vostra mano la tastiera: «Nessuna cosa prossima trovava la sua parola, / ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza»).
Del resto, in generale, questo «parlare e lacrimare» ad un tempo, questo risolversi ‒ lungo il fluire della musica e delle immagini e del loro ritmo ‒ della semanticità verbale in quella preverbale, inarticolata, primordiale, istintuale, quasi infantile, del pianto e del lamento, sembrano essere tipici del registro elegiaco, dai latini (ad esempio Tibullo: «Vel miser absenti maestas quam saepe querelas / Conicit, et lacrimis omnia plena madent»; «nunc me flevisse loquentem, / nunc pudet»; dove, come nei nostri poeti, le parole si sposano al lamento, e tutto, anche le cose inanimate, sembra grondare di pianto) a Petrarca («Quel rosignuol che sì soave piagne / (…) di dolcezza empie il cielo e le campagne» ‒ dove già si profila quello che sarà il nodo, in Jammes come nel D’Annunzio del Poema paradisiaco e nei Crepuscolari, di dolcezza e tristezza).
Altro poeta italiano influenzato da Jammes fu Arturo Onofri. Come è stato notato10, i Canti delle oasi, del 1909, sono modellati, fin dalla stessa struttura, segnata da una sequenza di Preghiere, sul Deuil des primevères.
Ma, in generale, ad apparentare Onofri a Jammes è, in senso lato, ciò che li unisce entrambi (direttamente il primo, indirettamente, per affinità spirituale più che per documentabili contatti, il secondo) a Pascoli: ossia la ricerca di un ritorno alle origini, di un’orfica immedesimazione con la Natura originaria per via di analogie recondite e consonanze imperscrutabili. «Le poète est ce pélerin que Dieu envoie sur la terre pour qu’il y découvre des vestiges du Paradis perdu et du Ciel retrouvé», si legge in Le Poète et l’inspiration, del 1922. Natura ritrovata; originaria armonia ricomposta.
Un testo straordinario, in tal senso, è La Naissance du poète, in De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir. «La Terre, l’Univers et Ce qui les dépasse / chantent jusqu’à ce que le poète en soit plein, / et la mort c’est la vie, le père l’orphelin, / l’orphelin c’est le père, et la prison l’espace». «C’est ce qu’on ne sait pas qui est vraiment la tombe. / C’est l’ombre qu’on ne sait qui est la lumière». Unità degli opposti (luce-tenebre, terra-cielo, vita-morte), come nei Mistici ‒ ma in un registro più dimesso, terrestre, in un sermo humilis in cui la sommessa tenuità ha la stessa forza dell’entusiasmo, la stessa intensità dell’esaltazione.
Ecco, proprio questa «terrestrità del sole», questa fusione fra cielo e terra (quest’armonia fra microcosmo e macrocosmo, fra Uomo e Universo, secondo la lezione dell’antroposofia di Rudolf Steiner) pervadono la poesia di Onofri. «Dagli amori terrestri, ora il soave / sopore ti solleva a un infinito / amore, che su te piove dall’alto / con l’ombre armoniose della notte» (Simili a melodie rapprese in mondo).
«Sarà schiusa per noi una porta di luce nel cielo. / Allora, concerto sublime, la zolla è davvero sposata al divino, / fino al suo ultimo sciogliersi in luce». «O sorgente ascosa delle musiche che, anche tacendo, m’incantano nel loro silenzio ricolmo dei miei sospiri». Questo si legge nei preziosi inediti raccolti da Magda Vigilante11.
Ma sono forse versi come questi, da Aprirsi fiore, a far trasparire la sintonia di Onofri con Jammes, per quel riflettersi del cielo nella terra ‒ fin nelle sue minime fibre, nelle sue più minute manifestazioni ‒, del cosmo nell’uomo, dell’ineffabile immensità nel suono e nel respiro della parola: «Dagli spazi lucenti, sulla soglia / della notte, al fiorir delle tue stelle, / trasaliscono i monti, in un respiro / che rassomiglia al mio, nel dolce suono / del tempo di quaggiù, chi d’uomo ha il canto / e di terra la forma e la speranza».
Pare sorprendente che un poeta a prima vista tradizionale, quasi provinciale ed ingenuo, come Jammes abbia incontrato l’interesse e il favore di Marinetti, teorico del Futurismo, che ospitò suoi versi sulla rivista Poesia12. Alla rivista collaborò, del resto, anche Pascoli.
E proprio Pascoli, come Jammes (Pascoli a lui vicino anche per la poetica delle cose, del nido, dell’aurorale naturalezza), modificò profondamente, dall’interno, senza snaturarne ed infrangerne drasticamente le strutture, ma piuttosto attraverso sottili alterazioni, la versificazione tradizionale.
La risposta di Jammes all’Enquête internationale sur le vers libre, apparentemente ingenua (i poeti cantano per natura, come gli uccelli), rinvia in realtà ad un’antica tradizione, la quale va da Alcmane, che in un frammento afferma di avere imparato, per via quasi sciamanica, a poetare «imitando il canto delle pernici», fino a D’Annunzio, che omaggiando Pascoli, nel Commiato di Alcyone, lo esalta come «quei che intende il linguaggio degli alati».
Nella voce del poeta risuona, purificata e ricondotta all’origine, quella della Natura. Ed Henri Ghéon, nella stessa Enquête, citava «la technique flottante du délicieux Jammes» come esempio di fluttuazione ritmica, di alterazione, dall’interno, delle simmetrie e degli automatismi dell’alessandrino ‒ come tappa intermedia del processo che aveva condotto all’idea della «strophe analytique», scandita non tanto dalle strutture metriche quanto dalla connessione e dalla coesione dei nuclei concettuali13.
E quel nesso quasi mistico di vita e morte, scomparsa e rievocazione, caducità ed eterno, veicola anche l’influsso (già brevemente richiamato) che Jammes esercitò su Rilke e su Proust. Il primo, che nei Quaderni di Malte Laurids Brigge vede in Jammes il tipo ideale del poeta solitario, remoto, un poco avulso dalla socialità, immerso nel grembo anonimo e astorico, nel melodioso silenzio, della Natura, nella prima delle Elegie Duinesi ascolta «ciò che spira come un soffio, l’incessante messaggio che nasce dal silenzio»; inoltrandosi, poi, fino al Luogo-non-luogo dell’origine, al «puro spazio» («den rainen Raum») in cui la Natura prende forma prima ancora di manifestarsi ‒ fino al «puro indicibile» («lauter Unsägliches») che precede ogni possibile parola: fino, forse, a quell’originaria incorrotta sorgente a cui Jammes tese con tutto il suo apparente candore ‒ fino all’«infinito fondamento» («unendlichen Grund») del tredicesimo dei Sonetti a Orfeo, a quel «morire in Euridice», a quella coscienza del non-essere, del «Nicht-Sein», a quella mistica nullificazione, a quell’oblio di sé e quel morire al mondo, che preludono ad ogni fioritura.
Lo stesso approdo, forse, ma certo con maggiore spessore speculativo, del proustiano Tempo ritrovato: la stessa malinconia «dolce e triste», dolente e sfumata (binomio caro a Jammes come ai Crepuscolari) in cui cose luoghi volti sentimenti ormai svaniti possono riaffiorare, nella multivoca fluidità del tempo, proprio perché hanno perso i loro contorni precisi, regredendo ad una sorta di magma originario e indistinto; la «douceur quasi physique» che connota coloro «que la mort a déjà fait entrer dans son ombre» 14(l’«odore d’ombra», l’«odore di passato» degli interni gozzaniani).
Paradossalmente, è proprio questa ricerca di essenziale candore, di quasi disincarnata purezza, ad apparentare segretamente Jammes ad una delle vie maestre ‒ quella dell’essenzialità, della concisione, del sottinteso, del termine medio sottaciuto ‒ del Novecento poetico.
«Ce n’est que lorsque, par un travail inconscient, le lecteur a dévêtu la Poésie qu’il lit, qu’il peut apercevoir la vérité belle et nue»15. L’atto della lettura ‒ anche di fronte alle più complesse elaborazioni retoriche della modernità ‒ va al di là della superficie del testo, al di là dell’evidenza fenomenica per toccare la luce del noumeno, che si mostra, disvelandosi e insieme velandosi, con l’assoluta spontaneità della Natura, con il bagliore limpidissimo dell’Origine.
Ed è proprio questa patria perduta, questa eclissata origine, questo «vert paradis des amours enfantins» che molta poesia del Novecento ‒ nelle sue voci più disparate e anche antitetiche ‒ è andata ricercando ‒ la «verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato», oltre la scorza delle «trite parole», in Saba; il «nulla d’inesauribile segreto» che riaffiora dalla discesa nel profondo, in Ungaretti; il «punto morto del mondo che finalmente ci metta nel mezzo di una verità», infrangendo la plumbea catena del determinismo, in Montale.
Basta scorrere, per trovarne riscontro, il Deuxième livre des quatrains di Jammes, del 1923: « … gouffre tour à tour vide et plein d’où sortit / Le hochet de corail de ta lointaine enfance», «quelque chose / Comme un air bleu sur une rose», « … Sur la terre, le Ciel, ainsi que la rosée / S’évapore des lys» ‒ e altre squisite e folgoranti immagini, fra epigramma classico e poésie pure simbolista, si potrebbero citare; versi in cui il lettore italiano non può non avvertire consonanze ‒ ad esempio ‒ con il Montale di Mediterraneo («come tu fai che sbatti sulle sponde / fra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso») o il Saba più rarefatto, essenziale ed illuminante, quello delle «cose leggere e vaganti» e dei cieli crepuscolari in cui «invece di stelle / ogni sera si accendono parole».
Ma c’è, nella possibile eredità di Jammes, un altro sottile filo, che può condurre fino al secondo Novecento, da Diego Valeri (che a Jammes dedicò pagine idealisticamente rapite in Poeti francesi del nostro tempo, del 1921) ad Andrea Zanzotto, che di Valeri fu allievo devoto, e la cui raccolta Fosfeni fu salutata da un altro grande poeta, Ferdinando Bandini, come una sorta di postmoderno corrispettivo delle Géorgiques chrétiennes16.
Nella poesia di Valeri (che, osserva Mengaldo, potrebbe sorprendemente rovesciarsi in quella di Zanzotto, e viceversa, quasi in un rapporto fra recto e verso17) non mancano da un lato consonanze con Jammes, dall’altro punti di contatto con Zanzotto.
«Tutto immoto, dentro un’eguale / dolcezza, pallida e molle. / (…) Tutte le cose ferme ed assorte / nel prodigio di un ricreamento». Così si legge in alcuni versi di Valeri (Sereno).
Ed è anche e proprio oltre questa apparente immobilità, oltre questi quadri e superfici di una natura a prima vista presa in una languida e composta fissità di acquarello, o in una tersa e ridente armonia di vedutismo veneto, e invece segretamente scossa da un fremito di palingenesi, dal mistero in piena luce di una rigenerazione, che Zanzotto, «cingendosi intorno il paesaggio», cercherà l’essenza del reale trovandola infine anch’egli, in fondo, in un’assoluta e intemporale semplicità fenomenica, coincidente però con il Nulla ultimo, con la chiaroscurata radianza del «ricchissimo nihil».
Jammes conferma di incarnare in modo emblematico quel singolare binomio di consapevolezza e spontaneità, immedesimazione e distanza, originarietà ed artificio, che connota il rapporto fra Arte e Natura («dio bifronte», diceva D’Annunzio).
«Madre, donde il mio dirti, / perché mi taci come il verde altissimo / il ricchissimo nihil» (Da un’altezza nuova). Una ricerca di originarietà, di necessità del rapporto fra nome e cosa (e necessitas è, infine, destino e insieme morte, vocazione e dissoluzione) a cui darà risposta, a distanza di decenni, Dirti «natura», in Sovrimpressioni: «Natura che poté aver nome e nomi / che fu folla di nomi in un sol nome / che non era nome»18.
Come a dire che, in fondo, è proprio l’impossibilità di raggiungere, di afferrare e dire, la Natura prima, il fondamento nudo del reale ‒ proprio l’immensa, proibitiva difficoltà di ciò che è, in sé, massimamente semplice, e alla cui semplicità l’arte può avvicinarsi solo compiendo il supremo artificio, quello di celare o dissimulare se stessa ‒ ad alimentare il flusso, molteplice ed inesauribile, del dire poetico.
Note
- Vedi I. CHOPIN, Rainer Maria Rilke und Francis Jammes, Peter Lang, Bern 1996.
- Vedi, anche per il contesto culturale, l’applicazione della poetica, la ricezione e le prime reazioni, F. VIRIAT, Jammisme, http://www.frissonesthetique.com/revue/no/pdf/jammisme.pdf
- G. FASANO, Francis Jammes, in I Contemporanei. Letteratura francese, Lucarini, Roma 1976, p. 47.
- Se ne può vedere l’edizione italiana da me curata, con uno scritto di Giancarlo Pontiggia (Medusa, Milano 2012).
- Si vedano, ad esempio, F. LIVI, Dai simbolisti ai crepuscolari, IPL, Milano 1974; E. SANGUINETI, Guido Gozzano. Indagini e letture, Einaudi, Torino 1975; con uno sguardo più vasto, R. MALLET, Le Jammisme, Mercure de France, Paris 1961; S. W. VINALL, The early reception of Francis Jammes in Italy, «The Modern Language Review», 2009, n. 3, pp. 712-729.
- A. GIDE, Francis Jammes, «Nouvelle Revue Française», 1 dicembre 1938; C. BO, Nota su Jammes, «Letteratura», gennaio 1939.
- Sulla poesia, a cura di G. ZAMPA, Mondadori, Milano 1976, pp. 104 sgg.
- F. JAMMES, Leçons poétiques, Mercure de France, Paris 1930, pp. 14 e 112.
- V. JANKÉLÉVITCH, Le Je-ne-sait-quoi et le Presque-rien, Presses Universitaries de France, Paris 1957.
- In particolare da GILBERTO COLETTO, Francis Jammes: notorietà e risonanze, http://www.literary.it/autori/dati/coletto_gilberto/francis_jammes_notorieta_e.html
- A. ONOFRI, Arioso-Orchestrine, a cura di M. VIGILANTE, con uno scritto di M. ALBERTAZZI, La Finestra, Trento 2002, pp. 77 e 147.
- Cfr. S. VINALE, art. cit.
- Enquête internationale sur le vers libre, Éditions de Poesia, Paris 1909, p. 68.
- Le Temps rétrouvé, Nouvelle Revue Française, Paris 1927, p. 202.
- F. JAMMES, Solitude peuplée, Egloff, Fribourg 1945, p. 16.
- A. ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 2003, p. LXXXIX.
- Diego Valeri e il Novecento, Esedra, Padova 2007, p. 10.
- L. BARILE, Due poesie di Zanzotto, «Per leggere», 2011, n. 20, pp. 53-70.
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