The Brooklyn Follies ovvero la ricerca della felicità
Giulia Coppi, The Brooklyn Follies ovvero la ricerca della felicità, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 26, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10429
«I was looking for a quiet place to die. Someone recommended Brooklyn, and so the next morning I traveled down there from Westchester to scope out the terrain.»1
Ammettiamolo, non sembra esattamente l’incipit di un romanzo sulla felicità, o sulla ricerca della felicità. Eppure è proprio questo il tema che si snoda sotterraneo sotto gli eventi dell’intera vicenda e che si fa palese, citato esplicitamente, proprio nell’ultima frase di The Brooklyn Follies.
Il narratore di questa storia, che pur essendo de facto protagonista della vicenda afferma di non esserne l’eroe – è un ruolo, questo, che lascia al nipote – è Nathan, un uomo americano che decide di trasferirsi in uno dei luoghi simbolo degli Stati Uniti del ventunesimo secolo per attuare il proprio personale anti-sogno americano: non realizzarsi, non far valere il proprio inalienabile diritto alla ricerca della felicità, ma morire in pace.
Nathan però non ha ancora sessant’anni, il suo cancro è in remissione e non sa quanto gli rimanga ancora da vivere: capisce presto che ha bisogno di qualcosa – un’idea, un proposito da realizzare, qualsiasi cosa – che lo aiuti a riempire le ore delle sue lunghe giornate. È così che nasce un progetto che nelle premesse è tutt’altro che ambizioso, ma a cui egli dà un nome altisonante: The Book of Human Folly. Non è un vero e proprio libro, in realtà, o non ne ha la forma: inizia come una raccolta di aneddoti – accaduti a lui o ad altri, vissuti in prima persona o raccontati da fonti affidabili – sulla follia umana, in tutte le sue molteplici e assurde declinazioni. Il tono dovrà essere leggero, divertente, canzonatorio.
Chi conosce Paul Auster sa che i protagonisti dei suoi romanzi hanno sempre in qualche modo a che fare con la scrittura: che siano professori universitari, giornalisti in pensione, aspiranti romanzieri alle prime armi o esperti di cinema, tutti sono interessati ai molteplici e sfaccettati meccanismi della narrazione. E Auster stesso è approdato alla forma romanzo, per cui è soprattutto conosciuto dal grande pubblico, dopo anni di tentativi più o meno riusciti in direzioni anche molto diverse tra loro: ha scritto pièce teatrali, poesie, è stato ghostwriter e traduttore. Solo con The New York Trilogy (1987) ha davvero sfondato negli Stati Uniti e sulla scena internazionale, ma nonostante il romanzo sia diventato la sua forma prediletta – non servono dichiarazioni esplicite, la sua vastissima produzione parla da sé – egli ha continuato a tradurre, a dirigere film e a curare sceneggiature, a scrivere saggi – l’ultimo, Burning Boy: The Life and Work of Stephen Crane, è una biografia dell’autore americano Stephen Crane uscita nel 2021.
In The Brooklyn Follies, dunque, come in diversi altri romanzi di Auster – l’esempio più calzante e ricco di variazioni è probabilmente quello dei tentativi di Ferguson in 4321 – il protagonista scrive e, anche se non ci è dato leggere stralci del suo libro, di fatto sono le sue parole e il suo punto di vista a guidarci lungo la narrazione, che è interamente in prima persona.
La prosa di Auster è fluida, talmente calibrata da creare l’illusione di essere semplice; non dobbiamo farci ingannare, però: i brillanti e veloci dialoghi, le storielle divertenti sulla follia umana, le descrizioni di Brooklyn, le conversazioni sulla letteratura, tutto è cesellato per essere piacevole, per suonare alla perfezione, come una sinfonia di parole. Ma non è semplice. Auster parla per immagini, anche e soprattutto quando non descrive un paesaggio, ma una sensazione, o una giornata così come sopravvive nei nostri ricordi. Perché quando ripensiamo ad un evento passato, non facciamo altro che rivederne frammenti di immagini:
«If I remember that day at all, it’s only as an unassembled jigsaw puzzle, a mass of isolated impressions. A patch of blue sky here; a silver birch there, reflecting the light of the sun off its bark. Clouds that look like human faces, like the maps of countries, like ten-legged dream animals. The sudden glimpse of a garter snake wending its way through the grass. The four-note lament of an unseen mockingbird. The thousand leaves of an aspen tree fluttering like wounded moths as the wind slides through the branches.»2
A prescindere da ciò che ci sta raccontando – che sia una detective story, un romanzo post-apocalittico o il resoconto autobiografico di un uomo che si è trasferito a Brooklyn per attendere la morte – Auster sa scrivere rendendo i suoi pensieri visibili, raffigurandoli con pennellate vivide, ma non espressionistiche, – vive, naturalistiche, quasi familiari – trasferendoli nella nostra mente come solo i grandi narratori sanno fare. The Brooklyn Follies non fa eccezione.
Dopo un primo capitolo in cui Nathan presenta sé stesso, viene introdotto il nipote, Tom, in cui si imbatte inaspettatamente dopo sette anni dal loro ultimo incontro. Tom, che nei ricordi dello zio è un ragazzo brillante, appena laureato con il massimo dei voti e pronto ad iniziare un dottorato in letteratura americana, è ora una persona completamente diversa. Non ha perso il proprio acume, quello è immutato, ma si è lasciato alle spalle qualsiasi ambizione, qualsiasi sogno professionale e persino qualsiasi speranza relazionale. Questo incontro inatteso tra due uomini stanchi è solo il primo di una serie di coincidenze ed eventi fortuiti in cui il caso, come spesso in Auster, gioca un ruolo fondamentale.
Come quando bussa alla porta Lucy, la ragazzina di nove anni e mezzo figlia dell’altra nipote di Nathan – la sorella di Tom di cui i due non hanno notizie da anni. Irrompe nella vita di zio e nipote senza una parola, letteralmente: sta bene, sorride, annuisce e fa segno di no con la testa, ma si rifiuta di parlare. Ecco il quadro che ci troviamo di fronte all’inizio di questa avventura, la cui componente più importante, a dispetto dell’anomalo trio appena descritto, è la credibilità. Auster ci regala personaggi vivissimi, veri nei piccoli meccanismi banali del quotidiano, così come nelle storie rocambolesche che raccontano: «What a motley bunch of messed-up, floundering souls. What stunning examples of human imperfection.»3
Il potere del caso, il potere delle storie. Questi i due elementi che non solo concorrono alla buona riuscita del romanzo, ma che insieme ne veicolano il messaggio fondamentale: il caso – il trovarsi nel posto giusto al momento giusto, un pugno chiuso che bussa ad una porta – e le storie possono curare – anche se solo momentaneamente – dall’infelicità. Di quali storie parlo? Di tutte. C’è, per esempio, quella della bambola di Kafka, che Tom racconta allo zio durante un viaggio in auto per provargli che l’autore è stato non solo un grande romanziere, ma anche un grande uomo. Kafka, che negli ultimi mesi della sua vita vive a Berlino, un giorno si imbatte in una bambina che piange disperata perché ha perso la sua bambola. Subito, per consolarla, le racconta che la bambola sta bene: gli ha infatti scritto una lettera che si è scordato a casa, ma che porterà alla bambina il giorno seguente. Così Kafka torna a casa e scrive una lettera in cui la bambola spiega il perché si è allontanata da casa: a questa ne seguono altre, una al giorno per tre settimane, con la crescita, le avventure, la vita del giocattolo perduto. Kafka si inventa una storia per quella bambina sconosciuta, crea una narrazione lettera dopo lettera:
«by the time those three weeks are up, the letters have cured her of her unhappiness. She has the story, and when a person is lucky enough to live inside a story, to live inside an imaginary world, the pains of this world disappear. For as long as the story goes on, reality no longer exists.»4
Ci sono storie che raccontano la realtà e storie, come questa della bambola di Kafka, che servono a silenziarla. Ed entrambe hanno un potere immenso. Ma a tempo. Un tempo breve, un tempo cui la realtà priva di storytelling, la realtà cruda e non mediata dalle parole, pone scadenze brusche e non prorogabili. Anche Nathan lo sa, quando scrive dei giorni felici trascorsi all’Hotel Existence:
«I want to talk about happiness and well being, about those rare, unexpected moments when the voice in our head goes silent and you feel at one with the world. […] I want to remember it all. If all is too much to ask, then some of it. No, more than some of it. Almost all. Almost all, with blanks reserved for the missing parts.»5
Sullo stesso potere, quello della narrazione, si fonda anche il secondo progetto ideato da Nathan nel romanzo: dopo quello delineato nelle prime pagine, del Book of Human Folly, decide di raccogliere, alla fine del romanzo, un’altra serie di stories and facts. L’oggetto di questo libro infinito, o di questa potenzialmente infinita serie di libri, non sarà più la follia, ma le vite dei dimenticati, perché «who bothers to publish biographies of the ordinary, the unsung, the workaday people we pass on the street and barely take the trouble to notice?»6. Un progetto folle, pensa Nathan, forse più del precedente che della follia portava il nome, ma in fondo, riflette, non così tanto: per quante e quanto diverse possano essere le motivazioni che portano a scrivere e pubblicare le vite di tanti ordinari nessuno, in fondo tutte si riducono ad una sola: «in every case, it would have been a question of love.»7
È questo che fa Auster in The Brooklyn Follies: racconta una storia tutto sommato normale, con personaggi ordinari, inserendovi quelle pennellate di folle casualità che egli ritiene ingredienti della vita quotidiana di ognuno di noi. E proprio mentre ci racconta del nuovo equilibrio che si è stabilito nelle vite di Nathan e Tom, mentre ci regala quello che ha tutta l’aria di essere un atteso e verosimile lieto fine, proprio in quel momento ci ricorda che la felicità è momentanea. Che è momentanea e circoscritta, che la si può ritrovare, se vogliamo, in un breve attimo della piccola vita dei nostri piccoli eroi.
Nell’ultima pagina del romanzo Nathan viene dimesso dall’ospedale ed esce nella frizzante aria del mattino sentendosi «so glad to be alive»8 da aver voglia di urlare. Sono le otto in punto, le otto dell’11 Settembre 2001. E lui, nel suo piccolo mondo, sta vivendo un attimo di pura felicità. Ma solo due ore dopo la realtà, una realtà di proporzioni globali, vi porrà una scioccante fine.
«Just two hours after that, the smoke of three thousand incinerated bodies would drift over toward Brooklyn and come pouring down on us in a white cloud of ashes and death.
But for now it was still eight o’clock, and as I walked along the avenue under that brilliant blue sky, I was happy, my friends, as happy as any man who had ever lived.»9
Note
- Paul Auster, The Brooklyn Follies, London, Faber and Faber, 2005, p.1.
- Ivi, p.194.
- Ivi, p.174.
- Ivi, p.155.
- Ivi, p.166.
- Ivi, pp. 300-301.
- Ivi, p. 302.
- Ivi, p. 303.
- Ivi, p. 304.
tag: caso, felicità, Paul Auster, The Brooklyn Follies
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2023 Giulia Coppi