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Felicità e giustizia nella Repubblica di Platone: quali sfide per la modernità?
di , numero 55, giugno 2023, Saggi e Studi, DOI

Felicità e giustizia nella <em>Repubblica</em> di Platone: quali sfide per la modernità?
Come citare questo articolo:
Elisa Ravasio, Felicità e giustizia nella Repubblica di Platone: quali sfide per la modernità?, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 3, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10670

1. Introduzione
I guardiani della Repubblica di Platone vengono descritti come individui giusti e felici, che esercitando la propria funzione – governare – nella città e, avendo un’anima ordinata, avranno una buona vita. In alcuni passaggi del dialogo, però, Platone mostra incertezza sulla piena felicità dei governanti, anche se conclude l’intera opera dicendo che la descrizione dei dieci libri riguardava le persone giuste e felici al contempo (Repubblica, 621d)1.
Martha C. Nussbaum, Bernard Williams, Hannah Arendt, solo per citare alcuni dei più importanti filosofi contemporanei che hanno rivalutato il pensiero degli Antichi come modello regolativo per la riflessione sulle questioni moderne, si sono confrontati con il pensiero di Platone, spesso criticandolo, in altri casi valorizzandolo e il presente lavoro si propone di riprendere e approfondire alcune delle riflessioni su Gorgia e Repubblica proposte da Williams2. In particolare, su come sia possibile concepire di armonizzare l’orizzonte eudemonistico con il benessere delle persone che vorrebbero agire per il bene comune3: ciò che si vorrebbe indagare è se le riflessioni di Platone possano essere considerate utili per coloro che mirano ad agire in modo costruttivo con e per gli altri. Inoltre, va sottolineato che la Repubblica può essere considerata come una sfida continua per il tempo moderno proprio perché concepire l’azione giusta in un orizzonte eudemonistico è molto più difficile di quanto possa esserlo in un orizzonte deontologico. Infatti, è molto più complesso armonizzare l’etica individuale con quella collettiva, se lo scopo dell’azione del singolo è garantire la propria felicità e quella delle persone con cui vive.
L’analisi condotta affronterà dapprima alcuni passi della Repubblica di Platone, per poi concentrarsi sulle riflessioni di Williams a proposito di questo dialogo e del Gorgia, per concludersi con una riflessione più generale sul valore della felicità per la pratica della giustizia.

2. L’analogia dell’anima e dello Stato: le tre classi
Le discussioni condotte nella Repubblica fin dal I libro con Trasimaco e, in seguito, con Glaucone e Adimanto sono volte a dimostrare se la giustizia sia un bene in sé, che sia un bene che conduce alla felicità chi la pratica e che sia, quindi, preferibile rispetto all’ingiustizia per i suoi effetti (Repubblica, 366b-367e)4. Per comprendere meglio quanto sta sostenendo, Socrate propone ai suoi interlocutori di analizzare la giustizia nel quadro più ampio dello Stato (367e-373b): dapprima viene descritta una città più semplice – la città dei porci, come la definisce Glaucone e, successivamente, viene descritta la società divisa in tre classi – governanti, guardiani e produttori – su cui si concentrerà l’intera l’analisi dei libri successivi. La Repubblica presenta la famosa analogia dell’anima e dello Stato, perché Socrate spiega che sarà più semplice esaminare la questione della giustizia e del suo valore intrinseco osservando le caratteristiche dell’individuo nella città. Da qui, inizia la descrizione della città giusta e della corrispondenza tra virtù, parti dell’anima e classi sociali: come tre sono le classi, produttori, guardiani e filosofi, così sono le parti dell’anima e le rispettive virtù. La virtù dei filosofi è la sophia, la conoscenza di ciò che è bene e male (428c-429a), quella dei guardiani è il coraggio, la forza d’animo (andreia) e si configura anch’esso come una certa forma di sapere: bisogna conoscere ciò che è da temere rispetto a ciò che va difeso. Infine, abbiamo la sophrosyne che non appartiene a una sola classe, ma in modo vario a tutte: porta ordine nell’ambito dei desideri, subordinando i peggiori ai migliori (432a). La giustizia nella città e nell’anima è quella virtù che permette che venga conservato l’equilibrio nello stato e nei cittadini: essa permette alle altre virtù di nascere e conservarsi (433b)5.
Socrate descrive l’analogia tra anima e città (431d-436a) in modo da mostrare la corrispondenza tra la giustizia del singolo e quella collettiva: questa argomentazione conduce ad affermare, quindi, che l’individuo e la città possano raggiungere l’equilibrio delle parti, in modo che la razionalità nell’uno e la classe dei filosofi nell’altra dirigano le altre due, così da ottenere stabilità e mettere in pratica la vita buona.
Molte sono state le critiche alla perfetta corrispondenza tra anima e la città6, ma per la presente trattazione, si sottolinea che tale analogia viene considerata per riflettere sulla connessione che Platone vede tra città e individuo, e sul tentativo di armonizzare il bene per l’una con quello dell’altro: il fatto di cercare cosa siano giustizia e felicità nello Stato invita a riflettere anche sul tipo di persona che agisce all’interno di un contesto collettivo7. Se è vero che non esiste perfetta corrispondenza tra i due, è però possibile concentrarsi sul suggerimento che Platone sembra fornire al lettore: un soddisfacimento e un equilibrio complessivi saranno possibili se non si esclude nessun elemento né dalla città né dall’anima. Nella Repubblica, c’è chi si occupa dell’aspetto economico, chi difende i confini e chi governa: tutte queste classi esercitano la loro specifica funzione rendendo ordinato lo Stato. Allo stesso modo, un individuo non potrebbe vivere senza desideri così come non potrebbe vivere in balìa di essi, perché, nel primo caso, la sua vita sarebbe quella delle pietre (Gorgia, 485d; Fedro, 291d) nel secondo, quella del tiranno descritto da Callicle nel Gorgia (471a, 483d). Nella Repubblica, città e individuo sono ordinati, sono giusti e felici. Per contrasto, il regime democratico è identificato da un disordine dell’anima che rende la persona soggetta ai propri appetiti, senza controllo alcuno da parte dell’elemento razionale quindi incapace di essere corretta nei confronti di se stessa e degli altri: quest’anima si trasformerà poi in quella tirannica (Repubblica, 558c-562a, 579e, 580e-581a).
L’interesse di Platone a mostrare il successo dei filosofi come governanti è volto a giustificare complessivamente la felicità del giusto, inteso come quella persona che non si esilia dalla comunità, ma che agisce attivamente in essa. L’uomo corretto descritto nel dialogo ha anche un’anima giusta e riesce ad agire efficacemente in una città in cui si rispecchia: la consonanza tra etica individuale e politica che Platone richiama continuamente, pur non senza alcune ambiguità, vuole sottolineare che senza una partecipazione attiva alla vita pubblica del singolo che adotta valori corretti, sarà più difficile avere una città giusta e retta da principi giusti8.

3. La felicità dei guardiani?
Entro l’orizzonte eudemonistico di Platone, la concezione di una vita giusta comporta anche l’ottenimento di una vita buona. Inoltre, la Repubblica mostra il coinvolgimento dell’etica orientata alla giustizia per l’ottenimento di un bene che sia anche di tipo politico. A questo scopo Platone costruisce un percorso educativo complesso e impegnativo che permette ad alcuni cittadini di vedere il legame che esiste tra la pratica della virtù della giustizia a livello individuale e collettivo, da un lato, e l’ottenimento della felicità personale e pubblica, dall’altro.
Per quanto riguarda l’educazione della classe dei governanti e dei guardiani descritta nel II e il III libro, l’obiettivo sembra quello di trovare un equilibrio tra corpo e anima, tra le diverse parti dell’anima stessa e di descrivere in che modo i filosofi raggiungano quella capacità di astrazione che permetta loro di cogliere le idee tramite il metodo dialettico9. Questo lungo percorso prevede di coltivare l’armonia psicofisica tramite la musica e la ginnastica, per poi passare alla geometria, all’astronomia e, infine, alla dialettica: queste scienze devono possedere il carattere dell’astrattezza e non essere vincolate alle cose sensibili perché l’anima del filosofo dovrà essere in grado di ricercare il bello e il bene in generale (521c-530c).
La predisposizione naturale e l’educazione impartita non sono le uniche componenti che rendono i governanti i più adatti a questa mansione10: Socrate parla anche della comunanza di donne e beni. Perché si possa avere un sistema il più possibile meritocratico, perché a governare siano le persone più giuste, la classe che dirige lo Stato non potrà possedere beni di alcun tipo, così come non sarà possibile conoscere i propri figli. In questo modo, sarà raggiunta una maggiore imparzialità di giudizio nella scelta dei migliori e si preserverà questo gruppo dalla corruzione11.
Questi argomenti non sono affrontati facilmente, perché, in apertura del IV libro (419a), Adimanto era intervenuto con un’obiezione riguardante la felicità dei filosofi e portando all’attenzione un aspetto decisivo per lo svolgimento del dialogo che era, appunto, partito da una discussione riguardante i benefici della virtù della giustizia proprio per la persona corretta, per chi la pratica. Adimanto crede che la felicità risieda nel possesso di beni e potere, crede che sia a questo a cui le persone al governo aspirino. Socrate, però, risponde che la buona vita a cui aspirano i guardiani non riguarda beni materiali o acquisizioni territoriali o, ancora, l’acquisizione smisurata di potere (Repubblica, 465b-c): i guardiani saranno i più felici perché avranno una vita moderata e stabile, se saranno appunto guardiani (446b); se svolgeranno, quindi, la funzione per cui sono stati educati e per cui hanno disposizione naturale. Pur paragonando la loro vita a quella dei vincitori di Olimpia, ricca di onori e di riconoscimenti, tuttavia viene ribadito che gli ausiliari non cercheranno mai di ottenere ricchezze e potere: la città sarà felice se loro ottempereranno ai loro compiti (466a). Nonostante Socrate definisca i guardiani la classe più felice, non riesce a spiegare perché i guardiani lo siano davvero, dato che devono rinunciare a quei beni che i più considerano utili all’ottenimento della vita buona, non riesce a confutare pienamente la posizione di Adimanto12. In alcuni passaggi, i guardiani vengono sì descritti felici, persino ‘i più felici’, tuttavia Platone lascia sempre spazio per far emergere alcuni dubbi a questo proposito. Analogamente discute in modo critico di alcune questioni relative alla vita buona della città stessa, quasi volesse sottolineare la tensione sempre presente tra felicità delle parti e del tutto.
Platone non si sbilancia espressamente nel definire la felicità della città come l’unico scopo a cui l’esercizio delle funzioni assegnate alle diverse classi, in particolare ai guardiani, mirerebbe. Inoltre, queste riflessioni non valgono solamente per la classe dei guardiani. Si pensi anche alla classe dei produttori, per cui è previsto il possesso di beni, essi non devono essere posseduti in eccesso e neppure essere insufficienti altrimenti non sarà possibile nemmeno per questa classe esercitare la propria funzione con successo ed efficacia (Repubblica 421c-422a), non contribuendo, quindi, alla messa in pratica della vita buona per loro stessi e per la città. Da queste considerazioni emerge quindi una tensione tra due poli: da un lato la felicità della città sembra dipendere da quella delle sue singole classi sociali, in particolare quella dei guardiani, quando esse svolgano in modo corretto le proprie mansioni; dall’altro, tuttavia, Platone sembra esortarle ad essere felici non pienamente, ma con moderazione ed equilibrio. La smisuratezza e il desiderio smodato di acquisizione di beni non sono criteri plausibili per definire la vera vita buona. Ancora una volta, Platone fa emergere la complessità relativa alla felicità del giusto e del rapporto di questa felicità della parte (le classi) con quella del tutto (lo Stato).

4. Il ritorno alla caverna
A proposito della felicità dei guardiani è interessante considerare anche il mito della caverna: nel VII libro viene presentato questo mito e la scelta di ‘tornare nell’antro’ rispetto al condurre una vita che prevederebbe il pieno esercizio della razionalità. Considerata la relazione tra esercizio della specifica virtù e parte dell’anima corrispondente, tornare nella caverna impedirebbe al filosofo di ottenere la vera vita buona a vantaggio della felicità dell’intera comunità.
Il mito descrive un prigioniero capace di liberarsi e fuggire al di fuori dell’antro dove gli altri continuano ad ammirare le immagini proiettate davanti a loro: i passaggi che affronterà lo porteranno a vedere l’idea del bene, culmine del suo percorso educativo. A questo punto, però, non resterà a contemplare questa idea, ma tornerà dai compagni, pur nella consapevolezza che, all’interno della caverna, c’è solo chi ha visto l’apparenza della giustizia. Dovrà discuterne e difendersi perché considerato ridicolo, perché gi altri rideranno di ciò che ha visto e conosce ora, ma deciderà comunque di rientrarvi (517a-518e).
Inoltre, è interessante il passaggio in cui Platone descrive il rientro nella caverna dopo che il filosofo ha imparato – a fatica – a vedere ciò che sta fuori dall’antro. Questo passo sembra suggerire un certo interesse a non abbandonare le persone legate: «E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva là, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe compassione per loro?» (Repubblica, 516c-d). Considerando il doppio significato di ‘avere compassione’ sia nella lingua greca sia in quella italiana si potrebbe dire che il filosofo potrebbe provare compassione nel senso di ‘avere pietà’ per queste persone che non comprendono quale sia la verità, sia nel senso di ‘essere indulgente’ nei loro confronti e, quindi, che voglia ritornare perché sa di poter contribuire al miglioramento della qualità della vita etico-politica. Pur consapevole della differenza tra la vera luce e gli oggetti che venivano osservati dai suoi compagni nella caverna, il filosofo fa ritorno nell’antro – non senza difficoltà di riadattamento (517a) – e cerca di spiegare quanto appreso, nel tentativo di far comprendere che gli onori, i premi e gli elogi tributati al più bravo a riconoscere gli oggetti che venivano proiettati sul muro antistante loro, non sono ciò che rende veramente felici; non sono i veri valori etico-politici da praticare13. A questo punto, chi è incatenato riderebbe di quanto gli viene detto e cercherebbe di uccidere chi tenta di liberarli. Così descritta, la condizione del filosofo non sembra ottimale perché diventa oggetto di scherno da parte di tutti e rischia di essere ucciso: stupisce quindi ancora di più la sua scelta di ritornare per cercare di mostrare agli altri il valore di ciò che ha appreso (518d-e).
Un altro passaggio interessante a questo proposito è quello in cui Socrate sostiene che le nature migliori dovranno essere costrette dai fondatori a tornare e a subire «le fatiche e gli onori del mondo» e Glaucone gli risponde esterrefatto, sostenendo che, in questo modo, si farà ingiustizia a nature di questo tipo, perché dovranno rinunciare a «vivere meglio» per vivere peggio. Socrate, però, sottolinea ancora una volta che la legge non sia interessata che una sola classe dello Stato si trovi in una condizione particolarmente favorevole, ma cerca di persuadere e costringere i cittadini a contribuire al benessere collettivo (519d-e). In modo particolare, nel caso dei filosofi, Socrate sottolinea che essi saranno educati dalla città per poter governare, quindi, che la politica sarà una delle loro occupazioni, a differenza dei filosofi di altre città che non vengono educati seguendo un certo percorso proposto dallo Stato e che, quindi, non si sentono necessariamente coinvolti nelle questioni pubbliche. I guardiani della Repubblica, invece, pur conoscendo il vero bene, giusto e bello, pur essendo attratti da queste idee, parteciperanno alla vita politica e ne saranno i leader. Sanno distinguere l’ombra della giustizia rispetto alla vera giustizia e sapranno metterla in pratica (520c-521a, 540a-b): questo sarà possibile perché i filosofi sanno qual è la vita più felice, cioè quella buona e fondata sull’intelligenza (zōēs agathēs te kai emphronos) e cercheranno di metterla in pratica anche nella città che governano14.

5. Platone e Williams
Come mostrato, in alcuni passaggi della Repubblica, la felicità dei guardiani viene messa in discussione pur sottolineando sempre il ruolo fondamentale di questa classe per il bene dell’intera comunità. Al contempo, anche le altre due componenti devono svolgere correttamente le proprie funzioni perché la virtù della giustizia sia praticata nella città. Platone sembra, quindi, non rinunciare all’idea di una collaborazione tra le classi, pur concentrandosi sulla classe dei guardiani, come se volesse sottolineare che proprio per questi sia previsto il più complesso degli oneri: riuscire a equilibrare il proprio bene con quello pubblico. Sottolineare questa difficoltà probabilmente significa mostrare il percorso a cui dovrebbe andare incontro una persona che decide di prendere attivamente parte alla vita civica: gli esempi di etica che Platone critica a questo proposito sono diversi, ma anche il suo modello mostra delle ambiguità. Infatti, il filosofo-re sembra essere sì in armonia con la città che governa, ma, al contempo, mostra una serie di difficoltà che dovrebbero indurre il lettore a riflettere approfonditamente su questa figura15. Probabilmente, ciò che Platone suggerisce è che chi prende parte alla vita politica e vuole farlo in modo giusto e rispettoso delle leggi non deve dimenticare che ci potrebbe sempre essere una tensione tra la messa in pratica del proprio bene e quello pubblico; che questo compito è difficile e che non tutti possono essere all’altezza di questa scelta. La sua riflessione sottolinea, però, un altro aspetto interessante: che questa partecipazione attiva prevede una certa soddisfazione personale e che, quindi, non deve solamente essere imposta come un dovere. Al lettore spetta di valutare tutti gli elementi che Platone suggerisce e che entrano a far parte di questo delicato equilibrio.
A questo proposito, Bernard Williams propone alcune importanti riflessioni su Gorgia e Repubblica tramite cui mostra che Platone è il filosofo che è riuscito a illustrare per quale motivo una vita corretta, condotta secondo valori etici, sia degna di essere perseguita prioritariamente da chi vuole essere morale16. Ciò su cui Williams pone l’accento sarà la consapevolezza del filosofo: nella sua riflessione, questa figura è capace di vedere con chiarezza che le dimensioni della giustizia (ideale, etica e politica) sono strettamente interconnesse e riesce a mettere in pratica questa virtù a livello comunitario.

6. La vita moralmente giusta e le sue critiche
Trattando della Repubblica, Williams sostiene che essa si configuri come la giustificazione della morale per chi agisce secondo principi di giustizia. Questo dialogo rappresenta la risposta alle critiche mosse da figure ostiche, come sono Glaucone e Adimanto nella Repubblica e Callicle nel Gorgia. Il tentativo di costruire una città che sia giusta e al contempo felice, non trascura mai la dimensione individuale, perché, senza considerarla, non si otterrebbe il risultato sperato, la messa in pratica della giustizia che rende possibile la vita del singolo all’interno di quella comunitaria17.
La discussione condotta nella Repubblica, con tutte le riflessioni controverse, problematiche, complesse che hanno portato la critica a commentare nei modi più diversi quest’opera di Platone, porta il lettore a riflettere su un aspetto importante della pratica della giustizia, che Williams sottolinea chiaramente: senza che l’individuo sia convinto di praticare il bene per sé e per gli altri, senza che la persona sia convinta che la pratica della giustizia sia un buon modo di vivere, probabilmente non avremo mai qualcuno che gli si dedicherà in modo da ottenere effetti positivi anche per la collettività.
La riflessione di Platone è rilevante perché mostra il valore della giustizia etica per quella politica, perché vuole dimostrare che in una società in cui ci sono buone pratiche si crea un circolo virtuoso che include il benessere individuale.
L’indagine di Platone vuole dimostrare l’infelicità del tiranno, così come descritto nel IX libro della Repubblica, e quindi l’incapacità della vita ingiusta di essere anche una vita buona (579e): se un individuo avesse sufficiente potenza e intelligenza per aggirare la legge non gli sarebbe utile conformarsi alla giustizia se questa fosse solo un bene strumentale, se questa fosse solo un bene valido per ottenere qualcosa d’altro, per esempio, il potere. Così come sostiene Williams, è per l’individuo giusto che Platone vuole dimostrare il valore intrinseco di questa virtù e l’importanza che possiede per il singolo, oltre che per la polis.
Williams amplia le sue considerazioni riguardanti il ruolo della morale per la vita pubblica esaminando il Gorgia: in modo particolare, si riferisce alla discussione tra il giovane Callicle e Socrate. Analizza lo scambio di battute tra i due e sostiene che, nel dialogo, la base per l’ammirazione riguarda taxis e kosmos – ordine e disciplina, e quando questi valori vengono applicati all’anima, costituiscono la giustizia18. Socrate riesce a ribattere efficacemente alla posizione di Callicle, perché il retore accetta che un comportamento che suscita l’ammirazione pubblica è ciò che garantisce anche la validità del modello proposto, ma la questione si sarebbe fatta davvero problematica per Socrate, se non ci fosse stata la corrispondenza tra etica e politica, tra aspetto individuale e riconoscimento sociale19. Proprio quest’ultima considerazione mette in scacco anche la posizione di Platone: Callicle viene confutato perché il suo tiranno è uno schiavo del desiderio incapace di governare se stesso, ma il modello presentato da Socrate non è meno problematico20. L’uomo perfettamente giusto, il filosofo del Gorgia non è un esempio competitivo per i giovani ateniesi dell’epoca, così come sostiene il retore: la filosofia è qualcosa che va praticata da ragazzi, ma una volta cresciuti bisogna dedicarsi alla politica, e i valori dell’uomo temperante – del filosofo – non sono davvero competitivi in ambito sociale (485d, 486a, 491e)21. Questo dialogo sembra concludersi con la sconfitta di entrambe le posizioni.
Nella Repubblica, invece, Platone spiegherebbe per quale motivo è bene per il singolo coltivare la giustizia e l’analogia Stato-individuo aprirebbe la strada a considerazioni di tipo politico e sociale che completerebbero il quadro della descrizione dell’uomo felice: così come ricorda Williams, «la risposta a questa domanda (“che valore ha la giustizia?”) ha un aspetto etico e uno politico, che, in virtù dell’analogia tra l’individuo e lo stato che tanta parte ha nella Repubblica, sono strettamente interconnessi»22. Nonostante Williams si sia dimostrato critico nei confronti di questa stessa analogia, si rende anche conto del significato che ha nell’economia del dialogo23: Platone mostra che deve esistere una corrispondenza tra i valori messi in pratica dai singoli perché li ritengono un tratto identificativo del loro carattere e quelli della società in cui vivono, per far sì che la sfera della moralità possa fondare in modo efficace quella politica. Descrivendo esseri umani che riconoscono un valore alla vita morale come parte integrante della loro vita sociale e come elemento capace di fondare le pratiche della società in cui vivono, Platone riesce a rispondere all’amoralista senza escludere il valore che la giustizia ha per l’interiorità del singolo.

7. Williams: la costruzione della moralità Repubblica
Nella Repubblica, il filosofo è presentato come un modello sociale e politico di interesse, al contrario di come veniva descritto dalle parole del giovane Callicle, e questo ruolo servirebbe a Platone per dimostrare il valore della giustizia in sé e della felicità della persona che la pratica. I guardiani sono giusti e governano in modo corretto lo Stato, ma non solo: considerano la virtù della giustizia come dotata di valore intrinseco, altrimenti non si spiegherebbe perché non esercitino un potere tirannico al di sopra della legge, pur essendo i governanti. L’idea di Williams interprete di Platone è che uno Stato giusto abbia bisogno di uomini giusti e viceversa, che non si possa costruire una società in cui vige la giustizia senza che le persone siano corrette. Sempre nella sua interpretazione, si potrebbe mantenere il valore intrinseco della giustizia solo se venisse praticata all’interno di una città in cui i singoli le riconoscono questo stesso valore24.
Le considerazioni di Williams sono interessanti anche per riflettere intorno al valore, non poco problematico per la modernità, dello sfondo eudemonistico entro cui Platone propone le sue considerazioni sulla scelta della giustizia come bene in sé.
Come già sottolineato in precedenza, il modello del tiranno proposto da Callicle segue i propri istinti, così come quello presentato nel IX libro della Repubblica; cerca di mettere in pratica i propri desideri e, in questo modo, crede di ottenere il completo appagamento, quella che crede essere la vita buona. Gli argomenti che vengono usati nel Gorgia per convincere Callicle del contrario non sembrano risolutivi, proprio perché il raggiungimento della felicità è anche strettamente legato a una dimensione privata, questione che accomuna il punto di vista del giovane retore a quello di un lettore moderno. Come accade, però, a Callicle, che viene confutato perché il suo modello di felicità sembra non essere socialmente accettato, altrettanto si potrebbe dire del filosofo: in quel dialogo il suo stile di vita non ha rilevanza sociale. Nella Repubblica, invece, chi governa è il filosofo e pratica anche una buona vita25. In questo dialogo, la dimensione pubblica e quella privata prevedono la virtù della giustizia e la felicità non ne viene esclusa – pur con alcune cautele26. Senza correttezza, infatti, non si riuscirebbe a costruire una vita comunitaria, e senza la felicità, l’anima equilibrata metterebbe in pratica la giustizia solo per dovere, trasformandola in un bene strumentale utile al governo degli altri.
L’analisi di Williams, quindi, coglie un elemento molto interessante: sottolinea, infatti, il bisogno delle persone di comprendere i motivi per cui un bene abbia un valore intrinseco per loro e per chi condivide il loro stesso spazio comune. Così come emerge dalle sue considerazioni, l’intrinsecità di un valore è determinata dal ruolo che esso svolge all’interno delle pratiche sociali e dal fatto che persone che condividono le stesse pratiche lo riconoscano come intimamente collegato ad altri beni che considerano di valore intrinseco27.
‘Come bisogna vivere?’ è un interrogativo che implica una discussione che interessa sia l’individuo sia la società in cui egli agisce: tutta la Repubblica potrebbe considerarsi un tentativo di risposta alla domanda posta nel II libro riguardo al perseguimento della giustizia per se stessa. Per Williams questa risposta è che si vedrebbero realizzati alcuni o molti dei suoi effetti positivi sia a livello individuale sia sociale.
In aggiunta a queste considerazioni, si può riflettere anche sul rapporto tra vita buona e giustizia in Platone: il filosofo agisce correttamente, comprende che le proprie azioni diventano parte integrante di un sistema virtuoso e che questo contribuisce alla felicità del singolo e al benessere collettivo.

8. Williams: bellezza e giustizia in Platone
Per comprendere meglio in che modo, secondo Williams, Platone sarebbe riuscito a spiegare la costruzione dei beni intrinseci, è utile estendere la discussione anche a un altro dialogo, il Simposio (210a2, a4, e3; 211b5) e, in particolar modo, al modo in cui Williams considera l’ascesa verso il gradino più alto della scala amoris dell’amante del bello: senza il percorso compiuto per raggiungere l’apice (idea del bello) non si spiegherebbe perché arrivare in alto sia così importante. Diotima descrive la differenza tra chi sa procreare solo secondo il corpo e chi secondo l’anima: tutti cercano l’immortalità, ma c’è chi la ottiene procreando con una donna e chi emana leggi per la buona convivenza civile dialogando con altre anime. Queste persone non provano amore per il bello, ma «per la generazione e per il parto nel bello» (Simposio, 206c), riconoscono, quindi, alla procreazione un valore più alto rispetto a quello attribuito dal senso comune e avranno la capacità di generare «non immagini virtù […] ma la vera virtù» e potranno possedere la felicità per sempre (204b): in altre parole, queste persone comprendono che la bellezza, nel caso del Simposio, così come la giustizia nella Repubblica, rappresentano un bene finale più importante di quelli materiali, perché riescono a cogliere l’importanza dei loro effetti nella vita pratica. La vera virtù permette di essere felici e di produrre effetti positivi a livello civile28. Ogni gradino rappresenta una sorta di spiegazione delle connessioni che sussistono tra i gradi inferiori e quelli superiori, e, così, il filosofo tratta l’idea del bello come un valore intrinseco perché capisce come vengono istituiti i legami tra l’obiettivo finale e ciò che ne ha permesso il suo raggiungimento: il percorso di “innalzamento dell’anima” parte dal basso, dai corpi, poi prosegue con la contemplazione delle anime belle, dell’armonia del cosmo e delle leggi che danno ordine alla città. Al culmine, si trova l’idea del bello ed è solo a questo punto, dopo aver capito che l’idea del bello è ciò che è nascosto negli elementi finiti e che dà loro dignità conoscitiva, che si riesce a comprendere il significato del percorso svolto, perché si vedono le intime connessioni tra questo bene finale e altri beni dello stesso genere29. Secondo la definizione che Williams propone di ‘valore intrinseco’, Platone riesce a spiegare cosa sia la giustizia e riesce a individuare altri valori a cui essa è connessa: nel caso della Repubblica, potrebbero essere l’equilibrio dell’anima, la stabilità dello Stato, la rinuncia all’eccesso di potere e di ricchezze, la vita buona di chi la pratica30.
L’educazione dei guardiani prevede che essi inizino il loro percorso grazie alla ginnastica e alla musica, per poi passare alla matematica e all’astronomia, fino a giungere all’arte dialettica (519e-533c). Lentamente i filosofi capiscono l’importanza che possiede la capacità di astrarre il pensiero dalle cose finite agli elementi più elevati, e questo sarà funzionale alla loro attività di governo: i guardiani capiscono la connessione che esiste tra l’ordine dell’anima e della città, tra i valori praticati dal singolo e quelli praticati in società. Il valore intrinseco della giustizia è compreso sia in un’ottica di tipo individuale – l’ordine dell’anima permette una vita equilibrata – sia sociale, l’ordine della città favorisce il benessere dei cittadini31.

9. Riflessioni conclusive
Il rapporto tra giustizia e felicità descritto nella Repubblica è stato ampiamente discusso dalla critica che ha sottolineato le incongruenze tra felicità individuale dei guardiani e felicità complessiva dello Stato ideale. Come mostrato, altri aspetti problematici di questo dialogo riguardano il rapporto tra la felicità dei guardiani e quella delle altre classi. Il dialogo è, quindi, da sempre sottoposto a continue critiche, analisi, riflessioni che possono essere utili al lettore moderno per comprendere la complessità di un’opera dai temi così attuali come la Repubblica.
Ad esempio, le analisi di Williams permettono di comprendere il valore della morale per la vita pubblica e possono essere spunto di riflessione per chi legge Platone oggi. A suo parere, il filosofo antico cerca di costruire una struttura etico-politica che permetta di considerare la giustizia un bene in sé proprio per evitare che essa venga strumentalizzata per ottenere e poi mantenere il potere.
Dato che lo sfondo morale a cui ci si riferisce trattandosi di Platone è quello eudemonistico, il rischio sarebbe quello di considerare la giustizia solo come uno strumento per mettere in pratica un bene solo del singolo.
Al contrario, la costruzione di una città giusta all’interno della quale possano vivere individui corretti, perseguire giustizia ed equilibrio possono essere considerati alla stessa stregua, senza escludere anche l’aspetto relativo alla felicità personale da quella complessiva: l’obiettivo della Repubblica potrebbe essere considerato quello di proporre un riferimento ideale perché le persone considerino l’agire corretto come parte integrante della propria vita buona. Lo sfondo eudemonistico entro cui Platone propone le sue riflessioni rende più difficoltoso stabilire cosa si possa considerare giusto o ingiusto per la felicità del singolo (si pensi al dialogo con Callicle nel Gorgia), ma è ciò che ci permette di riflettere approfonditamente su quanto propone: ritenere che l’azione giusta che ha effetti positivi sulla collettività sia parte integrante della vita felice, appagata e appagante.
L’aspetto della felicità individuale, se orientato da un principio di giustizia, non dovrebbe essere trascurato, perché potrebbe essere funzionale proprio alla creazione di un circolo virtuoso di azioni etiche che portino risultati positivi a livello comunitario.
Il suggerimento che può essere tratto dalla lettura di Platone è che il corretto orientamento dei desideri potrebbe diventare propulsivo rispetto al principio stesso di giustizia e della sua messa in pratica in un contesto plurale: il filosofo antico non esclude di considerare la persona e il suo benessere nel caso in cui sia coinvolta nell’agire pubblico, come se volesse far intuire il valore e l’efficacia di una vita buona per la costruzione del bene pubblico. Se in un orizzonte deontologico, agire giustamente è subordinato al senso del dovere, in una prospettiva eudemonistica emerge chiaramente la difficoltà di dimostrare che il giusto sia felice, così come risulta dalle molte (e complesse da confutare) obiezioni dei personaggi dei dialoghi. Tuttavia, Platone cerca di dare un suggerimento plausibile che possa essere colto prioritariamente da chi desidera essere corretto e vuole agire in un’ottica di collaborazione con gli altri. Seppur non senza difficoltà, la sua lettura potrebbe suggerire un modo per contemplare un vivere giusto individuale armonizzato con quello collettivo. Ciò che non va sottovalutato è che non è semplice trovare un equilibrio tra il proprio bene e quello pubblico, cosa di cui Platone è consapevole anche quando propone la critica serrata della figura del tiranno32. La tensione sempre costante nella Repubblica tra felicità individuale e pubblica, giustizia morale e politica non mira necessariamente a trovare una perfetta corrispondenza tra anima e città. È una tensione che, si può ipotizzare, rimane insoluta per un motivo. Potrebbe suggerire, infatti, un tentativo esplicativo complesso di come considerare città e anima. In prospettiva platonica, probabilmente un agire individuale che non consideri i suoi effetti sulla società porterebbe a ledere questa stessa società – come accade al tiranno della Repubblica (566e-567c) che agisce considerando lo Stato come una mera estensione del proprio ego. Di contro, non considerare il benessere delle persone che agiscono correttamente potrebbe essere lesivo di quello comunitario. Privilegiare quindi un polo della tensione sull’altro condurrebbe ad uno squilibrio. Platone considera la felicità come parte integrante dell’agire giusto, così come si evidenzia in chiusura del X libro della Repubblica (621c-d), al contempo vuole sottolineare che praticare una vita giusta è una scelta complessa, soprattutto per chi vuole attivamente essere coinvolto nella gestione della cosa pubblica33.
Le valide obiezioni degli interlocutori dei dialoghi sollevano questioni di non semplice soluzione che rappresentano una sfida che il filosofo antico ha provato ad accettare e a cui ha tentato di trovare una risposta articolata e che non semplifica le sue tensioni interne, così come articolato è il rapporto tra bene etico e pubblico. L’opportunità che viene data al lettore della Repubblica è quella di misurare, anche nel presente, il valore e l’efficacia di questo tentativo.

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Note

  1. Platone, Opere complete (con testo greco a fronte), Roma, Newton Compton Editori, 2005.
  2. Per una critica a Platone, si veda Martha C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, il Mulino, 2004 [Cambridge, Cambridge University Press, 1986]: in particolare, i capitoli riguardanti il Protagora e la Repubblica. Bernard Williams, Il senso del passato. Scritti di Storia della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2009 [Cmbridge, Cambridege University Press, 2005], l’analogia dell’anima e dello Stato. Hannah Arendt, Philosophy and Politics, «Social Research», 57 (1990), n. 1, pp. 73-103. Per quanto riguarda le riflessioni che valorizzano Platone, M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., i capitoli riguardanti il discorso di Alcibiade e il Fedro. B. Williams, Il senso del passato, cit., i capitoli riguardanti Platone e l’invenzione della filosofia, la costruzione di beni intrinseci nella Repubblica.
  3. Va sottolineato che, nel presente lavoro, il termine ‘politica’ sarà considerato in senso più ampio: verrà inteso come uno spazio condiviso di interazione tra persone che desiderano collaborare alla costruzione del bene comune.
  4. In Alessandra Fussi, Inconsistencies in Glaucon’s Account of Justice, «Polis», 24 (2007), n.1, pp. 43-69, si sottolinea l’importanza delle riflessioni di Glaucone a proposito della giustizia, proprio perché l’interlocutore di Socrate vorrebbe che si dimostrasse il valore che essa ha in sé.
  5. In Richard D. Perry, The Craft of Rulin in Plato’s Euthydemus and Republic, «Phronesis», 48 (2003), n. 1 pp. 1-28, Perry attribuisce alla sophrosyne la capacità di preservare l’anima dagli eccessi: in questo modo, non si spiegherebbe perché Platone attribuisca un ruolo alla giustizia nell’anima e della città, che è proprio definita come quella virtù capace di conservare l’ordine in entrambe.
  6. A. Fussi, La critica di Williams alla Repubblica di Platone, «Méthexis», 22, 2009, pp. 39-59. Jonathan Lear, Inside and Outside The Republic, «Phronesis», 37 (1992), pp. 184-215. Bernard Williams, Il senso del passato. Scritti di Storia della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 117-128. Un commento recente alla lettura di Williams e Lear dell’analogia anima-Stato si trova anche in Tommaso Meozzi, Rapporti analogici tra individuo e società nella Repubblica di Platone, «Aisthesis», 1 (2018), n. 2, pp. 235-246. Per una lettura politica dell’analogia anima-stao nella Repubblica, rimando a Vegetti, L’etica degli antichi, Lavis, Editori Laterza 2005 pp. 109-155.
  7. Nello specifico, questo articolo non si concentrerà sulle incongruenze che riguardano l’analogia dell’anima e della città, perché cerca di sottolineare l’interesse di Platone nel connettere l’ambito socio-politico a quello individuale: lo scopo di questo tentativo è quello di giustificare la pratica della giustizia – virtù che caratterizza l’anima ordinata – per l’individuo e per la comunità in cui è inserito questo stesso individuo. Per una riflessione a questo proposito, si veda anche Mario Vegetti, Politica dell’anima e anima del politico nella Repubblica, «Études Platoniciennes», 4 (2007), p. 347.
  8. Per quanto riguarda il rapporto tra felicità dello Stato della Repubblica e la felicità dei guardiani si veda Jonathan Culp, Happy City, Happy Citizens? The Common Good and the Private Good in Plato’s Republic, «Interpretation. A Journal of Political Philosophy», 41 (2014), n. 3, pp. 201-226, che riprende quella di Giovanni Ferrari, City and Soul in Plato’s Republic, Chicago, University of Chicago Press, 2005 [1 ed. 2003]. Queste posizioni permettono di considerare la questione della giustizia e della felicità come strettamente legate tra loro e consentono di sottolineare anche l’interesse di Platone a mostrare complessivamente la felicità del giusto, inteso come quella persona che non si esilia dalla comunità, ma che agisce attivamente in essa.
  9. Per l’equilibrio tra le parti dell’anima introdotto dall’educazione si veda, p.e., M. Vegetti, Politica dell’anima e anima del politico nella Repubblica, cit. pp. 344-345.
  10. Più in generale, nel dialogo, le professioni svolte rispecchiano il fatto che i cittadini siano portati al loro svolgimento e che possiedono le conoscenze adatte, così da sentirsi sia appagati nel praticarle sia parte integrante di un sistema che funziona anche grazie al loro apporto (369b-371b).
  11. Franco Trabattoni, Platone, p. 117: sottolinea la continua tensione in Platone tra ricerca della propria felicità e subordinazione della stessa al bene pubblico.
  12. Vedi J. Culp, Happy City, Happy Citizens?, «Interpretation. A Journal of Political Philosophy», 41 (2014), n. 3, cit., pp. 210-211. Ivi, Culp sottolinea come Platone cerchi di rispondere in modo efficace ad Adimanto, ma che la sua obiezione rimarca la complessità dell’argomento trattato.
  13. La presente discussione non si concentrerà sul tipo di verità che il filosofo può o vuole comunicare ai suoi compagni schiavi e al tipo di cogenza di questa verità, perché ci si vorrebbe invece concentrare sulla scelta operata dal filosofo di tornare nella caverna, nonostante non verrebbe compreso. Per una critica al valore della verità che il filosofo vuole comunicare ai suoi compagni nell’antro, si veda, p.e., il celebre articolo di Hannah Arendt, Philosophy and Politics, cit., 73-103 e per una posizione contrapposta, F. Trabattoni, Il sapere del filosofo in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica, vol. V, Napoli, Bibliopolis 2003, pp. 151-187.
  14. Giovanni Ferrari, City and Soul in Plato’s Republic, cit., pp. 100-102. Va sottolineato che Ferrari, discutendo il motivo per cui il filosofo decide di governare, sostiene che egli si rende conto che il suo modo di vedere le questioni – sia nel complesso sia nello specifico – gli fa accettare il compito di guidare la città proprio perché sa cogliere il generale e il particolare (Ivi, pp. 115-116).
  15. Si pensi, per esempio, al Gorgia (519a) in cui Temistocle, Pericle e Milziade vengono considerati grandi mali per la società.
  16. B. Williams, Il senso del passato, cit., p. 161 ss.
  17. B. Williams, Il senso del passato, cit., p. 108. «L’esposizione di Glaucone mostra, si può dire, che abbiamo interesse a perseguire la giustizia, e assumendo che il “noi” sia inteso in senso collettivo, questo è chiaramente vero. In effetti, come si è già visto, dato il collettivo “noi”, la giustizia non viene a essere un ripiego: senza giustizia non ci sarà un “noi” collettivo. Ma il “noi” collettivo tende a disfarsi, e in una discussione con l’amoralista non possiamo servircene. Tanto Socrate che l’amoralista presuppongono che la questione se noi abbiamo motivo di perseguire la giustizia riguardi ciascuno di noi. L’interrogativo cui ciascuno di noi deve rispondere è: “che motivo ho di essere giusto?”; “che cosa fa la giustizia per me”. Ecco la forza della precedente osservazione di Socrate (352d). La nostra discussione non verte su cose senza importanza, ma su come si dovrebbe vivere. Il problema è allora quale sia la vita migliore per l’individuo e già in 357e Socrate ha detto di considerare “molto più importante” delle prime formulazioni di Trasimaco la questione se egli avesse ragione di pensare che la vita dell’ingiusto sia preferibile (kreitto; ameinon 358c) a quella del giusto.» Va precisato che con la frase “Ecco la forza della precedente osservazione di Socrate (352d)”, Williams si riferisce proprio al passaggio in cui si Socrate dice di voler analizzare la questione riguardante la felicità di giusti e ingiusti: «dobbiamo poi esaminare se i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti […].»; ameinon 358c) a quella del giusto.» Va precisato che con la frase “Ecco la forza della precedente osservazione di Socrate (352d)”, Williams si riferisce proprio al passaggio in cui si Socrate dice di voler analizzare la questione riguardante la felicità di giusti e ingiusti: «dobbiamo poi esaminare se i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti […].»
  18. Gorgia, 503d-504a4: «ciascuno mette in un dato ordine ogni cosa che mette, e costringe l’una ad adattarsi e ad armonizzarsi all’altra finché il tutto non prenda consistenza in qualcosa di organizzato e ordinato».
  19. Raphael Woolf, Callicles and Socrates. Psychic (Dis)harmony in the Gorgias, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 18, 2000, p. 25.
  20. Per il valore che gli interlocutori ostici hanno nei dialoghi di Platone si veda Antonella Besussi, Confine della filosofia e desiderio di verità. Sull’assolutismo terrestre di Platone in La filosofia politica di Platone, Chiodi, G., Gatti, R. (a cura di), Franco Angeli, Milano 2008, pp. 74-75.
  21. Per una riflessione intorno all’isolamento del tiranno e del filosofo si veda Gerald A. Press, Who Speaks for Plato? Studies in Platonic Anonymity, Rowman & Littelefield, Lanham 2000. Si veda inoltre Silvia Gastaldi, La filosofia e il suo ruolo formativo. Una questione controversa in, M. Vegetti, La Repubblica, cit., pp. 187-192 e Mario Vegetti, Il governo dei filosofi: uno scandaloso paradosso in M. Vegetti, La Repubblica, vol. IV, pp. 338-339.
  22. B. Williams, Il senso del passato, cit., p. 112. Vedi anche Ferrari, The City and the Soul, cit., p. 103 che sostiene che Platone descrive una città in cui il filosofo governa efficacemente rendendola, quindi, felice nel suo insieme. Per il rapporto di interazione reciproca tra individuo e città, si veda anche M. Vegetti Politica dell’anima e anima del politico, cit., p. 347.
  23. B. Williams, Il senso del passato, cit., pp. 116-128.
  24. B. Williams, Il senso del passato, cit. pp. 144-146.
  25. Non si vuole suggerire una lettura evolutiva dei dialoghi di Platone, ma confrontare gli stili di vita del tiranno e del filosofo presentati in entrambi.
  26. Si vedano paragrafi 3 e 4 di questa trattazione e F. Trabattoni, Platone, cit. pp. 117-118.
  27. Si veda B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, p. 90.
  28. Per alcune considerazioni che supportano questa riflessione, si veda F. Trabattoni, Platone, cit. pp. 101-103.
  29. B. Williams, Il senso del passato, cit., pp. 137-138 e p. 196.
  30. B. Williams, Genealogia della verità, cit., p. 90: in queste pagine, il filosofo parla del valore dell’affidabilità, ma il discorso può essere esteso anche alla giustizia nella Repubblica, così come viene suggerito in B. Williams, Il senso del passato, cit., p. 128 in cui si parla della costruzione della bontà intrinseca.
  31. Vedi B. Williams, Genealogia della verità, cit., p. 89: «quello che è essenziale perché ciò avvenga [perché qualcuno attribuisca valore intrinseco a qualcosa] è che l’agente abbia dei materiali nei termini dei quali comprendere questo valore in relazione ad altri valori che egli sostiene e ciò a sua volta implica che il bene intrinseco […] o piuttosto la relazione dell’agente con esso, abbia una struttura interna nei termini della quale possa essere connesso ad altri beni. […] Se le condizioni vengono soddisfatte allora avremo costruito un bene intrinseco.»
  32. Come suggerisce in modo provocatorio Giovanni Ferrari, City and Soul, cit. p. 110: ma cosa fare se il tiranno vivesse sempre al limite, in un modo sconsiderato perché desidera farlo? (La traduzione è mia).
  33. Si veda, p.e., M. Vegetti, L’etica degli antichi, cit. p. 148.

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