Bibliomanie

Una nota etnofilologica sulla felicità
di , numero 55, giugno 2023, Saggi e Studi, DOI

Una nota etnofilologica sulla <em>felicità</em>
Come citare questo articolo:
Francesco Benozzo, Una nota etnofilologica sulla felicità, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 1, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10746

1. Secondo l’etimologia corrente, la parola felice continua il latino felix / felīce(m), corradicale di fecŭndus ‘fecondo, fertile’, e significa in origine ‘che produce frutti, fertile’, da cui poi ‘felice, propizio’1. Mi pare che, come sempre, il significato ‘fertile, fecondo’ sia un adattamento neolitico (decimo millennio a.C.) di tipo agro-pastorale, legato a un’idea – ancora molto attuale – di benessere come qualcosa originato dalla produttività, ma che per cogliere il senso profondo della nostra parola – o meglio il suo iconimo2 – sia necessario indagare quale esso potesse essere stato nei milioni di anni che precedono questa evoluzione semantica, vale a dire nelle comunità nomadi e pre-stanziali del Paleolitico3.
2. Non mi pare in questa prospettiva complicato individuare l’area semantica che questa parola porta incastonata dentro di sé in quella rappresentata dalla radice *-, la cui forma indoeuropea originaria viene abitualmente ricostruita come *dhē4. Si tratta cioè di un termine connesso alla parola – una di quelle appartenenti indubitabilmente al primo lessico di Homo loquens – usata per esprimere l’azione di ‘allattare’ e di ‘assumere il latte materno’ (si pensi al greco tithénē, ‘nutrice’, títthē ‘mammella’, thẽlys ‘che nutre, femminile’), e da cui si ha anche la successiva lessicalizzazione di femina ‘donna che allatta’ e di felare ‘succhiare’. Per quanto riguarda felix, va poi segnalato l’uso del tipico formante ­­-ī-, per indicare il genere femminile, cui si aggiunge –c-. come nel caso di numerosi nomi femminili di nomi d’agente in –tor (si pensi a genitor genitrix).
3. Sarà appena il caso di ricordare, in questo contesto, che la stessa origine del nome di Dio (latino deus, imparentato con il greco theós, da cui Zeus), è collegata alla radice indeuropea in questione e sembra pertanto riferirsi alla Grande Dea delle società pre-neolitiche5. Il nome dell’essere supremo, del ‘dio padre’, risale cioè a un periodo in cui il concetto di paternità nemmeno esisteva: va infatti sempre sottolineato che, prima del Neolitico, non eravamo in grado di stabilire alcuna correlazione tra atto sessuale e procreazione; anzitutto, la distanza di nove mesi tra la causa e l’effetto rendeva difficilmente collegabili i due eventi; tali eventi, inoltre, sono totalmente diversi, sia nel loro carattere fisico e psicologico che in quanto manifestazioni sociali: l’accoppiamento è legato a un piacere intenso mentre il parto a un evento doloroso e drammatico, l’accoppiamento riguarda una coppia mentre il parto solo la donna, l’accoppiamento è volontario e ripetibile mentre il parto “succede”, l’accoppiamento riguarda la coppia stessa e solo quella, mentre il parto richiede la presenza di un’altra donna che non ha niente a che fare con l’accoppiamento. Difficilmente nelle comunità del Paleolitico si sarebbe potuta cogliere una relazione tra le due cose: le due sole relazioni di causa ed effetto a portata immediata riguardavano esclusivamente la donna ed escludevano l’uomo: l’interruzione del ciclo mestruale mensile e la relazione tra gravidanza e parto6. E che la gravidanza fosse oggetto di straordinaria attenzione già nel Paleolitico è dimostrato dalle famose “veneri” diffuse in tutta Europa: si tratta di statuette e raffigurazioni nelle quali si accentuano soprattutto gli attributi materni, di madre prolifica o di puerpera, vale a dire, anche in questo caso, dell’allattatrice. Successivamente, la forma femminile del nome di dio fu resa maschile attraverso un accostamento con i nomi dello ‘zio’ (greco theîos), in quanto, prima di comprendere il nesso tra attività sessuale e procreazione, quando ancora non si pensava che esistesse un padre alle origini della vita, lo zio materno era considerato il maschio che doveva proteggere il figlio, in quanto era la persona più vicina alla femmina che lo aveva generato7.
4. Felice, in ogni caso, si mostra come un originario nome femminile per ‘colei che allatta’, poi esteso al genere non solo femminile di ‘colui/colei che assume il latte succhiando il seno’. Felix è in definitiva la femmina che tramite l’allattamento dona felicità alla creatura che allatta, ed è anche, contemporaneamente, la creatura che fela, cioè che succhia il latte al seno materno. I significati successivi della parola non sono che sviluppi successivi – in termini iconomastici “riciclaggi” –, così come duplicità di prospettiva rappresentata dal valore sia passivo (‘che produce frutti’) che attivo (‘fecondante’) di felix in latino, peraltro presente ancora nell’uso italiano contemporaneo, dove felice può comparire sia con valore attivo (una felice circostanza, tale cioè da fornire contentezza) sia con valore passivo (una persona felice).
5. Per quanto detto sopra, non può stupire che felix assuma, nel lessico di tipo religioso, il valore di ‘propizio’, come testimoniato dalle felicia exta, le viscere che contengono augurî favorevoli (Tibullo II 1, 25), dalla felix hostia, la vittima del sacrificio che propizia azioni benevole degli dèi (Virgilio, Georg. I 346) o dall’uso di felix come attributo della divinità invocata affinché esaudisca i desideri degli uomini (Virg., Ecl. 5, 65). Non può stupire in quanto, come visto, ogni divinità è concettualmente e antropologicamente un’emanazione e un riciclaggio dell’allattatrice preistorica, cioè ella Grande Dea del Paleolitico, tra le cui epifanie più evidenti si possono citare le tante “madonne del latte” della devozione popolare, non a caso definite in molti casi, nelle parlate locali delle comunità in cui sono ancor oggi venerate, “madonne della felicità8.

Note

  1. Cfr. M. Cortelazzo – P. Zolli, DELI. Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 19992, p. 569.
  2. Per una messa a punto teorica dell’iconomastica, cfr. M. Alinei, L’origine delle parole, Roma, Aracne, 2009, nonché M, Alinei – F. Benozzo, Fondamenti di etimologia continuista, in “Quaderni di semantica”, n.s. 7-8, 2021-2022, pp. 631-737; tra gli articoli precedenti, si veda almeno M. Alinei, The Role of Motivation (“iconymy”) in Naming: Six Responses to a List of Questions, in G. Sanga – G. Ortalli (eds.), Nature Knowledge, Ethnoscience, Cognition, New York – Oxford, Berghahn Books, 2003, pp. 108-118.
  3. Per la giusta collocazione delle nostre lingue già nel Paoeolitico, rimando ai vari articoli pubblicati sul sito The paleolothic continuity paradigm for the origins of Indo-European languages, che raccoglie gli interventi di vari specialisti all’interno del PCP – Paradigma della Continuità dal Paleolitico. Come saggio esaustivo e complessivo di questo punto di vista, cfr. M. Alinei – F. Benozzo, European Philologies: Why Their Future Lives in Their Prehistoric Past , in “Philology”, 3, 2017, pp. 9-42.
  4. Cfr. S.E. Mann, An Indo-European Comparative Dictionary, Hamburg, Helmut Buske, 1984-1987, pp. 178-179.
  5. Per questa questione si rimanda a M. Alinei – F. Benozzo, DESLI. Dizionario etimologico-semantico della lingua italiana, Bologna, Pendragon, 2015, pp. 63-65.
  6. Si veda F. Benozzo, Thanatos nella preistoria: tre proposte sulla natura e sull’evoluzione della pulsione di morte, del principio del piacere e della perversione, in “Rivista di sessuologia”, 45, 2021, pp. 95-101.
  7. Cfr. E.S. Hartland, Primitive Paternity: The Myth of Supernatural Birth in Relation to the History of the Family. London, Nutt, 1910, pp. 133-137.
  8. Tra le tante monografie, segnalo L. Arbace, La Madre generosa. Dal culto di Iside alla “Madonna Iactans”, Pescara, Zip edizioni, 2019.

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