Bibliomanie

Noi apparteniamo a Lingít Aaní. Ricerca del senso di appartenenza nelle memorie di Ernestine Hayes
di , numero 55, giugno 2023, Saggi e Studi, DOI

Noi apparteniamo a Lingít Aaní. Ricerca del senso di appartenenza nelle memorie di Ernestine Hayes
Come citare questo articolo:
Federico Ferretti, Noi apparteniamo a Lingít Aaní. Ricerca del senso di appartenenza nelle memorie di Ernestine Hayes, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 6, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10750

1 Introduzione
Quando nel marzo del 1867 il Segretario di Stato statunitense William Seward e il diplomatico russo Eduard de Stoeckl conclusero le trattative per la cessione dei territori dell’Alaska, dalla Russia agli Stati Uniti, sancirono con esse anche il destino di migliaia di persone: «The population of Russian America is about 60,000, of whom at least 50,000 are Esquimaux. The remaining portion of the inhabitants are Russians, Creoles, Kodiaks and Aleoots.1» Gli interessi sui territori alaskani erano stati ed erano principalmente di natura economica: mentre i Russi «understood their American experience almost exclusively in economic terms; their chief objective was exploitation of the available resources, mostly furs, on the least costly terms possible2», l’opinione americana si concentrava sul passaggio dei commerci già stabiliti nelle proprie mani — «The fisheries are very extensive, but the principal commercial wealth of the country is in its fur trade, which would, henceforth, be altogether controlled by American merchants.3» In questo scenario avevano ben poco spazio le opinioni delle popolazioni che già abitavano quei territori, che non furono interpellate direttamente a proposito della transazione4 e che furono da subito soggette ad un controllo da parte dell’esercito e della marina, invece di un governo civile, che si sarebbe insediato solo diciassette anni dopo.
I rapporti fra i Nativi e il governo americano continuarono ad essere tesi fra le richieste di riconoscimento e sovranità da parte dei primi e le parziali aperture (e chiusure, talvolta) dei secondi, anche in risposta alle situazioni storiche — prima gli echi della Guerra Civile appena conclusasi, poi quelli della Prima Guerra Mondiale e, infine, della Seconda Guerra Mondiale, che impatterà in modo profondo la comunità — ed economiche del territorio ricco di risorse ittiche, boschive, carbonifere e metallifere e, di grande importanza in tempi più moderni, di petrolio e gas naturale. Solamente nel 1971 si raggiunse un accordo fra le parti chiamato Alaska Native Claims Settlement Act (Ancsa). Anche questo atto però non era assente da criticità e come illustra Francis Paul Prucha:

«Some thought that the act freed the Alaska Natives and through grants of land and money gave them a basis for political power. The native community could now take its rightful place in Alaskan society. Others argued that in exchange for money and land the natives gave up their own lifestyle and traditional mode of living. They feared that hunters and gatherers would be transformed into corporation members interested in the development of resources and dividend payments, and that the political tribe as a dominant force in native life would be replaced by the economic corporation.5»

Pertanto, la delicata questione territoriale non riguardava soltanto interessi economici ma anche qualcosa di più profondo, che aveva (e ha) a che fare con le tradizioni e le credenze Native e il loro benessere. L’Alaska infatti non era solo un luogo dove la “wilderness” — «an integrated system of naturally occurring geology, physiography, flora and fauna, and scenic wonder unaltered by humans, a setting that inspired spirituality through its natural qualities»6 — si presentava nel suo massimo splendore agli occhi degli americani, che si rivolgevano all’Alaska per la prima volta, ma era anche il luogo a cui le popolazioni Native — Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian, Inupiaq, Yup’ik, Cup’ik, Athabaska, Alutiiq (Sugpiaq) e Unangax7 — sentivano di appartenere in una maniera più profonda: «The point then was not that the land belonged to the Natives, but rather that the Natives belonged to the land.8»

2 Quale felicità
Come rileva Lorraine Henry nella sua tesi magistrale9 l’appartenenza alla terra (e non viceversa) è una delle principali credenze nei sistemi di valori delle popolazioni Native dell’Alaska. Paragonando gli studi della Association of Alaska School Boards10 e quello di Libby Roderick11, Henry identifica tre principi chiave che vengono comunemente rispettati dalle popolazioni indigene dell’Alaska: “loyalty to family and community”, “sharing and cooperation” e “respect for all things”, trovando in quest’ultimo il ponte che collega strettamente i Nativi al mondo che li circonda, nella convinzione che tutto sia interconnesso ad un livello spirituale12 e quindi degno di rispetto e protezione. Anche Fengyu Wu, nella sua tesi di dottorato13, giunge ad una simile conclusione, identificando come per molte popolazioni indigene (in particolare gli Inuit) la costruzione della felicità personale sia strettamente legata a quattro fattori: «health, participating in traditional activities, social support and having both Christian religious beliefs and indigenous spiritual beliefs as part of life.14»
In un’intervista in occasione dei 30 anni dalla firma dell’Ancsa, Rex Allen Rock Sr., un Inupiaq di Point Hope, propone un esempio emblematico:

«Our culture’s real rich as far as whaling goes. There’s so much respect for the bowhead whale. Basically, that’s what our community’s based around. What I’ve learned — what I grew up with and maintained — is sharing. You don’t get the whale. It comes to you. That’s what I’ve been taught. There’s just so much respect for the whale. Nothing’s left on the ice. Once it’s landed, everything is taken. Things like, you put the whale’s skull back in the water. That, in itself, asks for the spirit to come back next spring. And you still do that to this day. A lot of things that we do are not written, but passed on.15»

La caccia alla balena è, per l’autore, un gesto portatore di tutti quei valori che si sono visti e che, analizzati da vicino, creano un ecosistema fortemente interconnesso: i legami con la famiglia (che fa crescere, mantiene e trasmette valori) e la comunità (che, compartecipe di questo scopo, si costruisce intorno a questi valori) esprimono la necessità di partecipare e realizzare le attività tradizionali, di per sé strettamente legate alla natura del luogo in cui si vive, ma anche collanti del senso di comunità e di condivisione sociale che vengono ad instaurarsi fra le persone. È nella comunità che si trovano la cooperazione e il supporto sociale, così come è nella comunità che si sviluppano e vengono tramandate le conoscenze — ad esempio quelle attinenti alla medicina tradizionale — e gli insegnamenti religiosi. Così la salute, la società e la religiosità sono estremamente interconnesse in un circolo che ha alla sua base il rispetto per tutte le cose.
Nel corso della stessa intervista, Allen riconosce invece i limiti di una vita, identificata con quella delle aziende in un sistema capitalistico, che non si basa sugli stessi principi e che non attribuisce nessuna importanza specifica alle relazioni cooperative interpersonali:

«What I’ve found out in the corporate world – there’s just so much emphasis on “I,” “me.” It’s just not the same. When you’re out whaling and you tell somebody you’re going to do this or they’re going to do it, you trust that they’re going to get it done. And the corporate world’s just a little different.16»

Questo allontanamento dall’idea di società e di codici comportamentali Nativi contribuisce negativamente al suo benessere. Egli aggiunge: «As far as corporations go, I had mixed feelings. I didn’t want to get involved because I knew that at times it can be ugly.17»
Dell’importanza di questi valori, riassunti in un’ottica più generale, parla anche l’economista Richard Easterlin, “padre dell’economia della felicità”, nel suo An Economist’s Lessons on Happiness, dove rileva: «Concerns about these three things — economic situation, family, and health — are by far the topics people most frequently mention when they are asked what’s important for their happiness.18». Easterlin specifica anche che la situazione economica non sia derivata solo dal semplice reddito monetario ma dall’essere supportati da “specific policies”19 istituzionali e civili su cui si può contare nel caso di difficoltà: esse sono rappresentate, ad esempio, da sistemi per la lotta alla disoccupazione e reti comunitarie di servizi per la sicurezza sociale20.
Sono così nuovamente la comunità, la famiglia, la salute, il potersi dedicare alle proprie attività e alle proprie credenze, che fanno la differenza nel raggiungere la felicità. In particolare, sono questi i fili conduttori che si possono ritrovare anche nei due volumi Blonde Indian: An Alaska Native Memoir del 2006, seguito da Tao of Raven: An Alaska Native Memoir del 2016, di Ernestine Hayes, autrice Tlingit che fa cominciare le sue memorie proprio con queste parole:

«Who our land now belongs to, or if land can even be owned, is a question for politicians and philosophers. But we belong to the land. There is not one Lingít person, from the most modern corporate executive to the most unsophisticated villager, from the oldest great-grandparent whose dim eyes can see only memories to the youngest child who has just learned to form the words, who will not say, “This is our land, for we still belong to it. We belong to Lingít Aaní.”21»

Con questo incipit l’autrice rende esplicita la natura condivisa delle proprie riflessioni e del proprio punto di vista, che si imperniano su una logica differente dalle logiche coloniali che non le appartengono.

3 Blonde Indian
Il primo lavoro di Hayes, Blonde Indian, si presenta come una narrazione corale che intreccia fin da subito diversi livelli narrativi. Tre fili apparentemente diversi verranno usati dalla scrittrice, non solo per ricostruire una memoria dei fatti ma anche per rielaborarne i significati, in modo da arrivare a una loro nuova interpretazione. La prima di queste narrazioni è quella personale. L’autrice inizia ricordando le sue memorie legate alla nonna, che si fa da subito portavoce degli insegnamenti orali, come membro anziano della comunità familiare: non solo le spiega come andare a caccia di vongole sulla spiaggia e come poi debbano essere cucinate e consumate, ma le racconta anche gli insegnamenti delle proprie tradizioni, quelle che appartengono ad un mondo naturale ricco della propria spiritualità. Così anche i ragni hanno storie da raccontare e l’orso è un cugino a cui si deve chiedere gentilezza mentre si raccolgono bacche nel bosco: «I was to talk to my unseen cousin. Don’t bother me, cousin! I’m only here for my share! I’m not trying to bother you! Be kind to me, cousin!22» Il contenuto di queste storie sottolinea anche l’insegnamento fondante delle sue credenze: quello del rispetto che si basa sulla comunione e l’equilibrio che esistono fra tutti gli esseri, compresi gli umani.

«Grandmother taught me that all our relatives and friends, even the forest, can hear every word that we say. That is why we must always be careful with our words, she said. Always show respect. Remember who you are. Watch your words carefully. Even the forest can hear you. Even the forest can hear.23»

Queste parole di Hayes riecheggiano le parole dell’autore Daniel Heath Justice (Cheerokee), che parlando dell’importanza della letteratura Nativa sottolinea come gli umani siano inseriti in una catena di legami familiari più ampi e di cui rappresentano solo un anello:

«Story, song, poem, and prayer all serve to remind us of our connections to one another, human and other-than-human alike. […] Kinship is inextricably realized in a context of expansive personhood, where humans are not the only people, where our human family members are not our only relatives to whom we owe attentive obligation.24»

La storia di Hayes è, però, segnata presto da due divisioni, che segnano il suo mondo fino all’età adulta. Innanzitutto, poco dopo la sua nascita, alla madre di Hayes viene diagnosticata la tubercolosi, malattia per la quale passerà in un ospedale la maggior parte dell’infanzia della scrittrice. Questo crea una frattura nei rapporti sociali molto stretti della famiglia e nella catena di trasmissione delle informazioni e delle conoscenze, tanto da toccare non solo direttamente Hayes ma anche da diventare quasi solo una storia per la nonna: «My mother became a disembodied memory, a signature on regular letters, a scowling/smiling face on infrequent photos, a name in a story my grandmother occasionally told.25»
È alla fine di questa degenza che il mondo di Hayes cambia per sempre, portandola al primo esilio, in una serie di spostamenti non solo di coordinate geografiche, ma anche relazionali — suggellate dalla morte della nonna —, che la rendono un’estranea nel proprio mondo:

«After a while my mother came home from the hospital, and in a few years we left for California. Not long after that, my grandmother died. I wandered in California like a person in a strange dark forest. I saw a woman’s grief. I became a stranger. It was a long time before I finally came back home.26»

La seconda divisione è quella che invece l’autrice, in un qualche modo, è portata a sentire fin dall’inizio: qualcosa di profondo, ad esempio, divide la scrittrice dai suoi compagni di classe quando vengono stabiliti dei gruppi di lettura a scuola. Se i più bravi fanno parte dei “Bluebirds” e i meno bravi dei “Seagulls”, è ben chiaro fin da subito all’autrice che sia necessario altro, oltre alla capacità di leggere in maniera avanzata, per far parte del gruppo di eccellenza: «I worried that I would have to grow freckles and wear pastel angora sweaters before I could become a Bluebird.27» Hayes non sbaglia: la maestra non assegna i bambini solo in base alle capacità di lettura, ma anche in base ai vestiti che portano, alla famiglia a cui appartengono e alla loro capacità economiche. La donna, bianca, svolge così una funzione di gatekeeping, creando un ingroup, alla sua base razzista e classista, e un outgroup, in cui l’autrice si ritrova, impossibilitata ad uscire, intrappolata come gli altri suoi compagni Nativi. In contrapposizione, Hayes scopre così un’altra appartenenza, che è già in lei: è quella al clan Kaagwaantaan, la Casa del Lupo. È una caratteristica di nascita che, stando a quanto le viene detto, non porta con sé solo certe caratteristiche fisiognomiche — nel caso dell’autrice, un certo cipiglio che si dice abbia ereditato dalla madre — ma anche una serie di comportamenti sociali che le vengono trasmessi, come un portamento fiero che prescrive alla bambina di non piangere anche se si è fatta male. Ancora una volta, la figura centrale di questo conflitto interiore della scrittrice, giocato fra il senso di appartenenza a un clan familiare Nativo e le logiche imposte dai bianchi, è la nonna che, senza mezzi termini, le chiede di tenere a mente le proprie origini, le proprie tradizioni, di fronte a quelle imposte dalla scuola e dalla società, in un atto di resistenza quotidiano: «”Never forget,” she told me daily, ”you are Eagle. Not Raven. Not Seagull. You will always be an Eagle and a Wolf. You will never be a Bluebird.”28»
La stessa tensione, per la scrittrice, è presente in tutti i contesti di vita che la circondano, solo in maniera più o meno rigida e tutti sono chiamati a risponderle. Se, imperiosamente, la società coloniale ha dettato i limiti degli spazi e delle attività Native — «“We were allowed to hunt deer only in certain places and only in certain seasons when people from an office told us we could.29» —, non lasciando loro spazio di manovra se non nell’illegalità, così anche la vita personale dei singoli ci deve fare i conti. Né è un esempio la zia Erm che vive con uomo bianco, possiede una macchina e cucina secondo i costumi dei bianchi, utilizzando perfetti piatti coordinati, avendo scelto di adattarsi alla società che la circonda, perdendo un po’ della sua identità originaria.
L’autrice naviga una difficile situazione personale, che la vede all’incrocio di mondi e spazi molto diversi: da un lato, la nonna, in quanto anziana della comunità, è portavoce pulsante del mondo ancestrale, pieno di insegnamenti e di appartenenze ben chiare e precise. È un mondo che vacilla quando salta una generazione, come vedremo, e che rischia di essere perso se ce ne si allontana, anche spazialmente, oltre che spiritualmente. Allo stesso tempo, Hayes vive un’epoca diversa, dove il mondo è stato colonizzato dai bianchi, che ne hanno dettato le regole, non solo a scuola, ma in tutti i campi e con cui bisogna interfacciarsi per poter sopravvivere.
Sarà proprio la narrazione autobiografica, infine, a presentarsi come spazio utile alla trasformazione sociale: Hayes raccoglierà la memoria di tutti i traumi personali e generazionali subiti, accompagnandoli alla riscoperta dei valori e delle credenze precedenti ad essi e che da essi sono stati schiacciati, fornendo una sintesi che aiuti sì a preservarne la memoria ma anche a indicare una strada per rielaborarli verso un futuro migliore.

4 Raven
La prima storia parallela alla narrazione delle vicende personali di Hayes è quella di Raven, il Corvo, una delle molteplici incarnazioni del trickster, un’importante figura presente in molte mitologie, che si presta a «[…] illustrate the centrality of relationships between family members, clans and nations, while highlighting the tension between individual motivations and those of the larger social group.30» In un tempo ancestrale, prima che vi fosse la luce del sole, il mondo abitava nel buio. Raven viene a conoscenza di una casa dove un uomo custodisce tutta la luce del mondo, nelle tipiche scatole di legno «made from a single smoothed plank, steam-bent at three corners and bound at the fourth open (‘rabbeted’) end.31». Queste sono custodite gelosamente e non vengono mai aperte e il loro contenuto mai condiviso. Raven, «the great trickster who constantly strove to upset the moral order with his cunning deceptions32», decide così di trasformarsi in un ago di pino che viene ingerito dalla figlia dell’uomo. Raven poi muta e viene presto partorito dalla donna, con grande gioia del nonno, che fin da subito lo ama grandemente. Passato un po’ di tempo, Raven chiede le scatole, piangendo fino a che non gli vengono concesse. Nella prima sono contenute le stelle che, dopo essere state usate per giocare un po’, vengono liberate nel cielo, rendendo il mondo un po’ meno oscuro. La scena si ripete con la seconda scatola che, invece, contiene la luna e con la terza scatola che, infine, contiene la luce del giorno. Conclusa la sua missione di portare la luce nel mondo, Raven riprende la sua forma e vola via.
La storia di Raven non solo racconta il mito della creazione, ma definisce lo spazio ancestrale della natura e dell’identità Nativa. È grazie al suo dono, infatti, che si instaura un ciclo naturale di vita, che viene seguito dagli animali, dalle piante e anche dagli uomini. Questo dono, poi, è alla base del senso di comunità che dovrebbe vigere in tutte le creature presenti sulla Terra, che possono vivere ed esistere grazie a lui. Raven diventa così una fonte di riflessione sulle origini di Hayes e degli insegnamenti Nativi, allargatisi a tutte le creature e gli spiriti che la circondano. Il mondo di Raven, infatti, è quello anche abitato dagli spiriti e dagli animali, che è possibile osservare e da cui si traggono lezioni ed insegnamenti. Ad esempio, è il mondo dell’orsa, archetipo della madre, che percorre la strada che il suo istinto le suggerisce, dall’uscita dal letargo, fino alla pesca dei salmoni, così come è il mondo dei salmoni stessi, il cui ciclo di vita detta il ciclo dell’anno:

«The year begins with the salmon’s summer return. The salmon return to spawn and to die. The year begins with the death of the salmon. But first, before they die, the salmon put the next generation in place. And then they die. And the year begins. It is finally the moon of the salmon’s return, and now the year begins.33»

Tutto è scandito dal proprio ritmo, quello di una terra a cui tutti le cose appartengono e che in essa trovano il proprio posto. «Remember that the land is enspirited. It is quickened. When as you conduct your life you chance to see an eagle, or a wolf, or a bear, remember that it too is conducting its life, and it sees you as well. As does a tree. And the forest itself. The very land sees you.34» Questo primo mondo ancestrale, che scompare quasi del tutto con il genocidio compiuto contro i Nativi e la loro cultura, non potendo più essere trasmessa, viene recuperato dalla scrittrice nella narrazione di tutta la sua vita, come punto di riferimento a cui tornare per ritrovare un significato più profondo alle vicende.

5 Tom
In aggiunta alla storia di Raven, Hayes racconta l’epopea familiare di Tom, le cui vicende, fin dalla prima comparsa nel racconto, occupano uno spazio ben preciso, dalle coordinate chiare: è lo spazio della Storia «There’d been a war. They called it a world war. And not the first world war, the teachers said. It was the second world war. World War Two, they named it.35»
Tuttavia, ad avere rilevanza non sono gli avvenimenti storici mondiali ma quelli più specifici della vita del protagonista che iniziano quando egli viene sottratto alla famiglia di origine per essere educato dal sistema scolastico che i bianchi hanno istituito. Questo comporta un distacco traumatico sia spaziale — il protagonista viene allontanato dalla casa familiare e mandato a Haines House, una residential school, in cui gli è proibito vedere i propri familiari — che culturale e identitario. Tawnewaysh viene rinominato Tom, dovendo abbandonare il nome Nativo ereditato dal nonno ed è costretto ad una serie di attività che sono lontane da quelle praticate in precedenza: la vita a Haines House non è così male solo se il protagonista si ricorda di non parlare la sua lingua Tlingit, di pregare tutte le volte prescritte dal predicatore, di mangiare il cibo insapore a pranzo e cena36, in un processo di rieducazione il cui scopo è dichiaratamente «[…] take the Indian out of the child37». Questo processo trasforma Tom che all’inizio, tuttavia, rimane legato ad un’idea di vita che avrebbe voluto e dovuto vivere, legata all’esperienza della pesca, centrale per la sua cultura Nativa e familiare, che è strettamente interconnessa alla sua identità:

«Of course he’d rather fish. Although his old name and his old language and his old food and his old way of dressing had been slapped and lectured out of him, he remembered the feel of a boat on the water, crisp air, killer whales and jumping fish and cold ocean spray. He remembered those days with his dad, and the whole family stopping to smoke fish and pick berries and take pleasure in living the life they were meant to live, the life it was best for them to live, the life they needed to live in order to be fully themselves. 38»

L’esperienza della scuola separerà Tom completamente dai suoi genitori, a loro volta travolti dalla colonizzazione che i bianchi stanno imponendo a tutta la società e al territorio che li circonda. Il padre di Tom, in un colloquio col ragazzo in uno dei rari ritorni a casa, lo avverte di questo processo incontenibile che sta distruggendo la realtà Nativa, che contrappone due visioni completamente distinte del mondo. Secondo il padre «They won’t stop until they do the same things to us that they did to their own Jesus. They beat us and break the land and then they crucify us. After that they worship it all.39» È qui che il padre sottolinea anche la connessione, evidente per l’occhio Nativo, che esiste fra tutte le cose: «“Our land,” he moaned.”Our forest. Our fish. Our stories.” […] “Remember, boy,” he said. “Whatever they do to the land they’ll do to us.”40»
Da qui, la vita di Tom è usata per esemplificare la condizione storica dei Nativi, costretti a vivere in un mondo razzista nei loro confronti e in cui il trauma culturale si tramanda di generazione in generazione. Dopo essere stato allontanato dall’esercito per diserzione, Tom cerca di tornare ad una vita di pesca nel suo villaggio nativo, ma ormai il mondo è cambiato e lui con esso. Avendo sviluppato una dipendenza dall’alcol e potendo lavorare solo come marinaio su una nave di pescatori bianchi, Tom cerca di costruirsi una famiglia con Louise, che però sviluppa una depressione post-parto dopo la nascita del loro figlio Tom — rinominato Young Tom, per distinguerlo dal padre, ora chiamato Old Tom — e presto muore, lasciando da soli i due, che si ritrovano incastrati in un ciclo di trauma impossibile da rompere: Old Tom cade definitivamente vittima della bottiglia, mentre il destino di Young Tom è lo stesso del padre: «Young Tom was ten when they took him away, the same age as Old Tom had been when they’d taken him away. They took Young Tom to the same place they’d taken Old Tom years ago, to the missionary school up in Haines.41»
Segnato anche lui dall’esperienza della scuola residenziale, Young Tom incontra le stesse difficoltà del padre, sottolineate anche da una ridondanza di forme nella narrazione di Hayes: costretto a servire come marinaio su un peschereccio gestito da bianchi, dove la paga e le razioni di cibo sono misere e il lavoro è duro, Young Tom si innamora di Lucille, una giovane che abusa di alcool e insieme hanno una figlia, Patricia. Quando Lucille si dimostra una moglie fedifraga e una madre inaffidabile, abbandonando in più occasioni la piccola e, infine, andandosene per sempre, Young Tom cede, come era stato per il padre, all’alcool. E in un ripetersi di circostanze personali, è la loro vicina bianca, Mabel, che questa volta prende sotto la sua ala Patricia, impedendo al padre di vederla se non da sobrio e imponendo alla piccola un’educazione conforme alle regole della società bianca. Le vite di Old Tom, Young Tom e Patricia sono segnate dal trauma che il razzismo sistemico dei bianchi continua a perpetrare contro i Nativi, sottolineati dall’autrice con momenti storici significativi come il passaggio dell’Alaska a stato federale del 195942 o il disastro petrolifero della Exxon Valdez del 1989 nello stretto di Prince William43, ma anche dalla sua trasmissione intergenerazionale, al cui termine si colloca idealmente la vicenda personale dell’autrice. Se Young Tom, incapace di trovare un suo posto nella società, poiché privo di riferimenti utili alla rielaborazione dei traumi che vive — e altrettanto incapace di sfuggire ai suoi drammi personali «migod he should never have brought that last pint of vodka or even the beer44» — finirà per affogare, una delle più grandi paure di suo padre, in quanto incapace di nuotare, la conclusione per Hayes ha invece la direzione opposta: la sua narrazione raccoglie tutti gli avvenimenti che vive in prima persona e quelli che hanno scosso e scuotono la sua comunità, per cercare di comprenderli e stabilire un nuovo equilibrio.

6 Ernestine Hayes
La storia personale della scrittrice si configura, fin dall’inizio, come quella di una ragazza Nativa come molte altre: educata in una scuola residenziale, poi portata via dalla madre dalla sua città di nascita, dalla sua famiglia in senso ampio e dalle sue tradizioni, presto la ragazza si perde a causa dell’alcol e per questo viene mandata alla stessa Haines House dei Tom, da cui scapperà con un ragazzo, solo per finire in prigione prima in Idaho, poi a Washington, per finire nuovamente a Juneau poco dopo. Seguendo la madre in un nuovo trasferimento, Hayes si ritroverà in California, dove il senso di spaesamento la pervaderà per molto tempo.Qui, la scrittrice si ritrova in una relazione con un uomo che non conosce appieno e che si rivela poi essere, una volta avuti figli, violento e incapace di amare lei e i bambini.
In questo momento, Hayes si rivolge anche alla religione cristiana che trova però inconciliabile con la sua esperienza personale, in quanto diametralmente opposta alla visione della società Lingít, di stampo matrilineare e in cui il potere delle donne è uguale a quello degli uomini, se non addirittura superiore in molte occasioni. La religione che incontra Hayes, la cristianità di Padre Baglin: «identified us as man and wife, and so instructs me to stay, for the wife is to the husband as the church is to Christ. […] Never mind how mean he is, or what a tyrant. All that matters, I am told, is that he is the man and I am not.45» La subordinazione della donna, in quanto categoria “altra” rispetto all’uomo, è anche un deciso spostamento di potere che la religione cristiana esercita rispetto alla tradizione Nativa. Come Paula Gunn Allen nota nel suo The Sacred Hoop, i taboo che la religione ha costruito intorno alle donne e alle mestruazioni — «Now it is taught that women were not to mingle with men or step into fresh water while her moon was upon her because her blood was offensive.46» fa eco Hayes — sono un attacco diretto al potere che le donne e il loro sangue avevano nei riti e nella società Indigena, in cui «each ritual depends on a certain balance of power, and the positions of women within the phases of womanhood are used by tribal people to empower certain rites.47»
Così il menarca, che per i Lingít segnava il passaggio delle donne all’età adulta e conferiva loro un grande potere, da dover imparare a controllare, poiché capace addirittura di far muovere i ghiacciai, diventa impuro e questo potere viene cancellato, in una chiara forma di oppressione.
Scappata da questa unione e da questa religione, Hayes si ritrova in una vita fatta di povertà, stenti, senza avere una fissa dimora, lontana da tutto e tutti. È proprio in questo apice di sconforto e di mancanze che prende sempre più corpo in lei l’idea di dover tornare a casa, di dover cercare di ricostruire un rapporto col proprio passato e con le proprie origini, spinta da una forza che forse anche lei non capisce e conosce del tutto:

«And this time, feeling strong, strong enough, secure enough to hold my ground, to regroup my forces, to persevere.[…] I’m still here. Nothing has changed. And the seductive evil: do it again do it again. But on this morning I woke to a sure resolve. I was finally homeless; I was finally broke. I was finally forty. I would go home now, or I would die with my thoughts facing north.48»

Hayes si rende conto di essersi allontanata dal luogo in cui invece deve tornare, la propria casa. È in questo viaggio verso nord che Hayes si rende conto di dover cercare per il proprio benessere, anche altro: un modo per riconnettersi con quanto è successo a lei e nel suo passato ancestrale e rielaborarlo in modo che possa essere utile a trasformare il trauma.
In questo ritorno non facile, segnato dalla lotta per la sobrietà, la morte della madre e la fine di una relazione, Hayes trova subito un senso di rinnovata pace quando riesce a tornare nei suoi luoghi. Un esempio è Glacier Bay, dove la scrittrice accompagna su grandi navi i turisti per vedere le balene:

«Glacier Bay is an ancestral home of the Lingít people. It holds the hearts of the original people of this land. Now it is called Sít’ Eeti Geey — the place where the glacier was. I fell in love on my trips to Glacier Bay that summer. It was the same experience that I had had when falling in love at any other time: my heart was tender and beat a little faster when I thought of Glacier Bay, I smiled at thoughts of the place. My eyes longed for the sights I would see there. 49»

Oltre a queste occasioni che le permettono di riscoprire i propri luoghi, dove la natura rimane un elemento fondamentale, una volta riappropriatasi della propria dimensione spirituale — «The captain had been surprised when he realized that I still considered the brown bear my cousin, the Taku Wind my grandfather, the spider my neighbor.50» — Hayes riscopre anche un senso di appartenenza grazie a delle esperienze che la riavvicinano alle proprie radici culturali, come inscenare storie e canti Nativi a teatro. È in questo momento che nella narrazione le storie personali e quelle del mondo degli spiriti si riconciliano, restituendo un immaginario ricco di persone comuni che hanno a che fare con entità naturali o soprannaturali in una continuità normalizzata: così, come nota Justice, le storie che Hayes riporta del vecchio Lingít che ha avuto rispetto per il cugino orso e quindi è sopravvissuto indenne ad un incontro troppo ravvicinato o del viaggiatore che afferma di essere riuscito a ingannare uno spirito, evitando di perdere così la strada di casa, rappresentano «meaningful engagements and encounters that are dismissed by colonial authorities but are central to cultural resurgence and the recovery of other ways of knowing, being, and abiding51», ricucendo anche nello spazio immaginativo lo strappo che le azioni coloniali hanno causato fra il passato e il presente Nativi.
L’esperienza personale serve anche al piano della Storia, del trauma sociale che affligge i Nativi e che ha bisogno ugualmente di riconciliazione. In particolare, la morte della madre di Hayes la porta a riflettere su come gli eventi storici e le tradizioni religiose importate in Alaska abbiano avuto un effetto distruttivo sulla vita Nativa. Un esempio riguarda proprio le tradizioni funerarie e la storia di Juneau. I Nativi erano soliti cremare i propri morti, pratica poi giudicata troppo cruda e poco cristiana dai missionari, che stabilirono così i primi cimiteri per Nativi. Nel 1887, però, a Juneau, il lotto del cimitero a loro assegnato venne considerato di interesse edile e quasi tutte le tombe vennero tolte per far partire la costruzione di un nuovo complesso residenziale, all’insaputa dei familiari dei Nativi che lì riposavano, che si ritrovarono davanti ad una realtà crudele: «Juneau’s Native people learned that the graves of their loved ones were being dug up and exhumed bodies thrown over the east side of the hill along with the excavated dirt. Small coffins and large were shoved over the side of the hill.52»
A questa azione seguirono delle proteste, a cui le autorità, un missionario presbiteriano e un ufficiale dell’Interior Office Land Department, non fecero seguito, giudicando che non vi fossero motivi per intentare una causa, in quanto il lotto cimiteriale era passato in mano privata. Le restanti tombe vennero così spostate in un altro cimitero, l’Evergreen Cemetery, senza troppe cerimonie. Bisognerà attendere il 1990 prima che una legge federale, il Native American Graves Protection and Repatriation Act53 (Nagpra), riconosca il danno fatto ai luoghi di sepoltura Nativi e alla loro memoria.
In parallelo, Hayes ricorda però come certe tradizioni religiose siano anche state adottate sincreticamente dai Nativi, in particolare quella della tradizione Ortodossa russa, che prescrive un periodo di lutto per quaranta giorni dopo la morte del defunto, con eventi che lo ricordano.
Così alla morte della madre di Hayes, i suoi resti vengono cremati prima di essere sepolti, ma i suoi parenti e il suo clan si ritrovano per festeggiare la sua memoria, in un connubio che porta ad un equilibrio ritrovato:

«A few weeks after her death, we held a forty-day party to release my mother’s spirit. We served an abundance of traditional and modern foods; the Eagle/Raven dancers sang songs of celebration; everyone shared funny stories and memories. We burned plates of food so my mother and those with whom she now kept company could also hold a party. That night, my son watched northern lights flash through the sky. It is a rare sight in Southeast, especially in the summer. It told us that our mourning of death had been relieved by the celebration of life. It told us that balance had again been restored.54»

Questo equilibrio sembra potersi ristabilire anche fuori dall’esperienza personale dell’autrice, conciliando la memoria Nativa e i fatti storici. Hayes ricorda come la storia orale Nativa porti tracce di movimenti dei ghiacciai che ora possono e vengono confermati da moderni studi geologici, così come di insediamenti in certe zone risalenti alle Ere Glaciali, di cui recenti scavi archeologici hanno trovato tracce evidenti.

7 The Tao of Raven
È nel secondo volume delle memorie di Hayes, The Tao of Raven del 2016, che si continuano a mettere in dialogo le problematiche sociali che affliggono la vita dei Nativi in un mondo non più loro.
Attraverso le stesse tre narrazioni del volume precedente, infatti, Hayes racconta, ad esempio, delle sue difficoltà nel perseguire un’educazione superiore, immaginata da bianchi secondo le loro modalità — «In the earlier years of colonization, the Bureau of Indian Affairs crafted its design of educating Indigenous people for service to the master55» — che alla fine riesce a concludere con successo. Il successo è rappresentato qui non solo dall’ottenimento di un pezzo di carta che certifichi lo studio, ma anche dalla possibilità di ritrovarsi nella propria lingua nativa e di rendere fieri coloro che assistono a questa cosa da una prospettiva diversa, quella dei Nativi che riescono e hanno successo in un mondo che si stanno riconquistando:

«As I walk down the aisle, I catch the eye of my proud son and his children. After alumni and politicians present speeches, I approach the podium. As I introduce myself in the Lingít language, someone in the audience calls a response. Whoever it is, I understand that he is proud: proud not of me, perhaps not even of my clan, the Kaagwaantaan. The power of these words of introduction has made a man proud of himself. 56»

Tuttavia, Hayes continua a percepire la difficoltà di questa guerra culturale che è in atto, non solo rivolgendosi al passato e vedendo così la difficoltà nel comprendere certe scelte che i suoi genitori e progenitori hanno preso prima di lei, ma anche guardando al futuro, condannando chi continua a portarla avanti con tutti i mezzi possibili. Il colonialismo è quindi il nemico da combattere, grazie ad una serie di insegnamenti che arrivano proprio dai modi stabiliti da Raven e che vede il suo applicarsi anche nella storia di Old Tom, mentre il trauma culturale che ne deriva è il male a cui cercare una soluzione definitiva, in modo che smetta di essere trasmesso di generazione in generazione.
Al centro di questa Hayes riconosce la posizione dell’educazione, che è il campo di battaglia più spietato. I colonizzatori bianchi hanno cancellato la memoria Nativa imponendo prima la propria educazione religiosa — «The first killing weapon was always the Good News57» — poi un sistema scolastico che puntava non tanto a fare dei Nativi dei bianchi, quanto al voler desiderare di esserlo. Il punto finale era quindi la forzata assimilazione che si configura come basata su un principio dissonante:

«Indigenous children drop out of Western-model schools at rates higher than all other groups, and for uncountable, unutterable reasons, many do not succeed according to the white man’s terms. This doesn’t’ mean that education is failing. On the contrary, Indian education is succeeding at what it was designed to do: produce Native failure.58»

Hayes riscontra anche come il sistema sia sbagliato nella sua applicazione odierna: molti degli insegnanti dei corsi universitari che hanno a che fare con le materie Native, non sono essi stessi Nativi, continuando così non solo a normalizzare atti coloniali ma allo stesso tempo rendendo più difficile ai Nativi che intraprendono questa strada, di riuscire. L’importanza della rappresentazione negli spazi accademici diventa così anche una rivendicazione di autorità intellettuale Nativa, che deve essere reclamata e che deve trovare il suo giusto posto nello spazio educativo.

8 Comunità
In questo scenario di battaglia, è la conclusione della vicenda di Old Tom che offre uno spiraglio di resistenza e di luce. Giunto quasi alla fine della sua vita, il protagonista riesce finalmente a trovare una propria dimensione, quando viene riconosciuto come una figura anziana degna di rispetto dai suoi familiari e dal suo clan. Ormai sobrio, egli capisce l’importanza di un fattore fondamentale per la sua sopravvivenza: il senso della comunità. In un episodio emblematico, scagliatosi contro il capitalismo che ormai affligge anche i ritrovi Nativi, dove mercanti senza scrupoli vendono le proprie tradizioni ai turisti, Old Tom viene configurato come un eroe e un resistente, un uomo libero che ha ritrovato il senso delle proprie origini. Questo fa sì che la comunità si stringa intorno a lui e lo elegga informalmente come autorità anziana del clan, posto tradizionalmente occupato da uomini e donne saggi. È in questa comunione dove tutti sono presenti — «Everyone is here, even the ancestors. […] Everyone is watching the children. All the people are supporting and balancing one another. All the women are smiling. All the men feel strong.59» — che si realizza il senso profondo della comunità e dell’equilibrio ristabilito.
Non solo si è consci che sia necessario condividere quanto si ha per poter vivere meglio, «Conserving comfort and love and consolation is accomplished by letting them go. Riches are doubled by their distribution.60», ma è solo grazie a questa condivisione che è possibile affrontare quanto sta ancora per succedere.
La narrazione di Hayes, volgendo al termine, articola proprio l’impossibilità ripetuta dell’individuo di avere risposte o certezze — «I don’t know how we survive this trauma. I don’t know where we start. I don’t know which way to go. I don’t know how it’s done. I don’t know who I can trust. I don’t know when I will die.61» — sottolineando però come sia nella collettività la chiave della risoluzione: «We will all rejoin this scrap of earth and we will patiently wait. We will season ourselves in vigilant repose. We will listen for the lovesongs of those who tend the fires and we will await the inevitable dawn.62»

9 Conclusione
Lo sguardo di Ernestine Hayes, raccontato sia dalla storia personale che da quella degli archetipi di Raven e Old Tom, ci riporta una visione chiara della vita e della ricerca di autonomia e benessere dei Nativi dell’Alaska. Il progetto personale di rappacificazione personale deve per forza passare per la riconciliazione con gli eventi storici e la guerra con cui ancora devono fare i conti i Nativi, così come con la riscoperta e la valorizzazione della propria autonomia culturale e ancestrale. La memoria, intesa quindi come racconto del sé, non solo non si può sottrarre a questi tre piani diversi, ma deve raccontarli in parallelo per poter giungere ad una conclusione appropriata. Hayes e il suo lavoro aderiscono così perfettamente a ciò che Marianne Hirsch definisce come postmemoria:

«In casting daughters as agents of transmission, and through them opening the space of remembrance beyond the line of family, their practice of postmemory, particularly, can become a reparative ethical and political act of solidarity and, perhaps, agency on behalf of the trauma of the other63»

Così, i riscoperti insegnamenti di Raven contribuiscono a gettare luce sugli eventi e le loro influenze nelle vite Native, trovando applicazione nel personale, che può lottare nel proprio presente per tutta la comunità e orientarsi anche verso il futuro, dove, in un circolo perfetto: «Outside, the raven calls.64»

Note

  1. The Russian Treaty, New-York Tribune, 1 Aprile 1867, p. 1.
  2. Stephen W. Haycox, Alaska. An American Colony, University of Washington Press, Seattle, 2020 [1^ ed. 2002], p. xvi.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 182.
  5. Francis Paul Prucha, The Great Father. The United States Government and the American Indians. Volumes I and II, University of Nebraska Press, Lincoln and London, 1984 [First Bison Book combined and unabridged ed. 1995], p. 1134-1135.
  6. S.W. Haycox, Alaska. An American Colony, cit., p. 315.
  7. Alaska Federation of Natives, Alaska Native Peoples.
  8. David S. Case e David A. Voluck, Alaska Natives and American Laws, University of Alaska Press, Fairbanks, 1978 [3^ ed. 2012], p. 187.
  9. Lorraine Henry, The application of cultural values by contemporary Alaska native leaders and Alaska native corporations: individual and organizational implications, Theses and dissertations Pepperdine University, S.L., 2011.
  10. Association of Alaska School Boards, Traditional values of Alaska poster.
  11. Libby Roderick (a cura di) Alaska Native cultures and issues: responses to frequently asked questions, University of Alaska Anchorage and Alaska Pacific, S.L., [2^ ed. revisionata Fairbanks, University of Alaska Press, 2010].
  12. Ivi, p. 33.
  13. Fengyu Wu, What leads to a happy life? Subjective well-being in Alaska, China, and Australia, University of Southern California, S.L., 2018.
  14. Ivi, p. 37.
  15. Rex Allen Rock, Sr., Growing Up Native in Alaska, The Ciri Foundation, S.L., 2000.
  16. Ibidem.
  17. Ibidem.
  18. Richard A. Easterlin, An Economist’s Lessons on Happiness, Springer Cham, S.L., 2021, p. 13.
  19. Ivi, p. 77.
  20. Ivi, p. 122.
  21. Ernestine Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, The University of Arizona Press, Tucson, 2006, p. ix.
  22. Ivi, p. 5. Il corsivo è dell’autrice.
  23. Ivi, p. 6.
  24. Daniel Heath Justice, Why Indigenous literature matter, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo, 2018, p. 87.
  25. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 8.
  26. Ivi, p. 26.
  27. Ivi, p. 10.
  28. Ivi, p. 15.
  29. Ivi, p. 24.
  30. Amanda Robinson, Trickster, The Canadian Encyclopedia, Historica Canada, 2018.
  31. Sean O’Neill, Co-evolution between Bentwood Box Traditions and Languages on the Pacific Northwest Coast, in Roy Ellen, Stephen Lycett, Sarah Johns (a cura di) Understanding cultural transmission in anthropology: a critical synthesis, New York, Berghahn Books, 2013, p. 176.
  32. Walter R. Borneman, Alaska. Saga of a Bold Land, HarperCollins e-books, S.L., 2003, p. 25.
  33. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 40.
  34. Ivi, p. 173.
  35. Ivi, p. 26.
  36. Ivi, p. 28.
  37. Ivi, p. 29.
  38. Ivi, p. 29-30.
  39. Ivi, p. 36.
  40. Ibidem.
  41. Ivi, p. 68.
  42. Office of the Federal Register, National Archives and Records Administration, Pub. L. No. 85-508, 72 Stat. 339, An Act to provide for the admission of the State of Alaska Into the Union., 24 agosto 1958.
  43. The Information Architects of Encyclopaedia, Exxon Valdez oil spill, in Encyclopedia Britannica.
  44. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 171.
  45. Ivi, p. 81.
  46. Ivi, p. 54.
  47. Paula Gunn Allen, The Sacred Hoop, Open Road Integrated Media, New York, 2015 [1^ ed. 1992], p. 73.
  48. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 111.
  49. Ivi, p. 135.
  50. Ivi, p. 145.
  51. D. H. Justice, Why Indigenous literature matter, cit., p. 154.
  52. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 151-152.
  53. Office of the Federal Register, National Archives and Records Administration, Pub. L. No. 101-601, 104 Stat. 3048, An Act to provide for the protection of Native American graves, and for other purposes., 16 novembre 1990.
  54. E. Hayes, Blonde Indian: an Alaska Native memoir, cit., p. 160.
  55. Ernestine Hayes, The Tao of Raven: an Alaska Native memoir, The University of Washington Press, Seattle, 2016, p. 6.
  56. Ivi, p. 25.
  57. Ivi, p. 38.
  58. Ivi, p. 56.
  59. Ivi, p. 166.
  60. Ivi, p. 139.
  61. Ivi, p. 170.
  62. Ivi, p. 173.
  63. Marianne Hirsch, The Generation of postmemory, Columbia University Press, New York, 2012, p. 99.
  64. E. Hayes, The Tao of Raven: an Alaska Native memoir, cit., p. 173.

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