Felicità e condizione umana. Una prospettiva fenomenologica e antropoanalitica
Eva Rizzuti, Felicità e condizione umana. Una prospettiva fenomenologica e antropoanalitica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 12, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10802
Ad una riflessione sia pure succinta su di un tema semplice nel comune esperire e nell’immediato consapere, ma oltremodo complesso negli ambiti dottrinali di riferimento, non è dato svincolarsi dall’imperativo metodologico dell’assunzione di un oggetto.
Il nostro oggetto è psichico, ma non è classificabile né fra le pulsioni istintive né fra gli atti di volizione. Una sensazione, una percezione, una rappresentazione, un pensiero sono definibili con generale consenso, laddove il concetto di sentimento pare addirittura sfuggire all’analisi terminologica, rinviando a tutte le formazioni psichiche non chiaramente delineate, quasi “confuse”, cui invero – per dirla con Jaspers – “non si sa dare un altro nome” se non “fatto multiforme” dello psichico “non appartenente alla coscienza obiettivabile”(6). È universalmente ammesso che i sentimenti rappresentino il nucleo della sfera affettiva o timopsiche, posta tra la sfera istintivo-volitiva e quella intellettiva o sofropsiche, e che essi si possano ordinare secondo dimensioni o qualità designate dalla coppia antitetica ‘piacere-dispiacere’; mentre Wundt vi aggiunge altre due dimensioni contrastanti: ‘eccitamento-inibizione’ e ‘tensione- rilasciamento’. Un complesso ordinamento secondo l’origine o nel contesto della stratificazione della vita psichica è stato realizzato da Schneider, ma soprattutto da Scheler.
Per inciso Schneider afferma con speciale pregnanza la difficoltà di precisare con termini appropriati questi “coloriti subiettivi dei processi psichici”, giacché nel definire i sentimenti “stati dell’Io” o “qualità dell’Io vissute immediatamente o situazionalità subiettive dell’Io” aggiunge tuttavia che con ciò essi non sono ancora sufficientemente caratterizzati, poiché anche le pulsioni o le tendenze sono stati dell’Io e lo sono anche molte sensazioni o comunque lo sono se includiamo nell’Io il corpo vivente, il Leib (15).
Max Scheler, nella sua opera capitale Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (14), impianta e porta a compimento un’analisi fenomenologica dell’esperienza affettiva carica di sviluppi del tutto originali rispetto alle statuizioni husserliane, elaborando una fenomenologia dei sentimenti ove il concetto fondante di intenzionalità quale attitudine costitutiva dello psichico viene esteso dalla sfera noetica e coscienziale alla sfera affettiva. Tralasciando per ora i rimandi etici di un edificio filosofico di tal sorta, si osservi come Scheler nella già citata metafora spaziale di una stratificazione della vita psichica proponga un modello quadripartito, in tutta evidenza nobile progenitore dello schema tripartito di Klages (8), ancor oggi insuperato strumento della prassi psicopatologica: qui gli strati sensoriale e affettivo-somatico restano sussunti nel piano vitale, mentre i piani psichico e spirituale vi restano immutati insieme con i rispettivi sentimenti (Gefühle). In tal modo questi ultimi risultano così distinti: a) sentimenti sensibili o sensazioni con carica affettiva, di piacere e dolore; b) sentimenti corporei o sensazioni affettivo-somatiche, di benessere e malessere; c) sentimenti psichici o dell’Io, di gioia e tristezza o amore e odio – motivati da, e quindi reattivi a, particolari accadimenti; d) sentimenti spirituali o della personalità, di beatitudine o profonda felicità, comprensivi di affetti religiosi e metafisici che pervadono l’intera individualità. Deve evidenziarsi che nell’analisi scheleriana l’esperienza affettiva si fonda e si realizza in reciproco parallelismo con un’effettiva esperienza assiologica, nel senso che gli oggetti ai quali i sentimenti sono diretti, intenzionati, sono i valori: quantunque non sia il luogo per dettagliare tali presupposti, da essi non si può prescindere nell’arduo compito di elucidare il complesso ordinamento in seno al quale il grande fenomenologo ha assunto il sentimento di felicità (Glücksgefühl). È utile inoltre precisare che in un’ottica fenomenologica deve intendersi per spirito un superiore livello d’integrazione dello psichismo, alla stessa stregua di altri concetti analoghi come la “funzione del reale”, la “gnoseopsiche”, il “super-Io”; indi, la presa di posizione personale rispetto a momenti sovraindividuali etici, religiosi, logici, estetici integra lo strato spirituale (geistige Schicht).
Anzitutto la felicità (Glück) non viene collocata dall’Autore in un determinato strato, potendo la medesima persona esperire di volta in volta felicità nei livelli organico/sensoriale, vitale, psichico, spirituale: essa può dirsi trasversale a tutti gli strati in ordine ai diversi gradi di centralità o profondità. Al massimo grado di profondità avvolge tutto ciò che negli atti si dà del mondo interno e del mondo esterno, ossia pervade tutto l’essere nella sua Stimmung, potendosi così dire anche beatitudine (Seligkeit o Glückseligkeit); come gli altri sentimenti è intenzionale e può intenzionarsi al valore, a ciò che è degno o non degno di essere amato (ordo amoris), orientando la persona al bene ultimo, l’aristotelico summum bonum. In quanto intenzionata, non è poi facilmente manipolabile mediante interventi esterni né dipendente dalle alterne vicende della vita, benché le pertenga, come alla gioia, un certo grado di reattività. Con buona pace degli esegeti meno perspicaci, in Scheler il piacere sensoriale, vuoi nel suo proprium vuoi in rapporto alla felicità, si carica di valenze positive: pur nel suo declinarsi come effimero e parziale – relativo cioè ad un momento della persona nonché ad una parte di essa – viene assimilato alla felicità nella misura in cui l’appagamento che offre si ‘centralizza’ riferendosi a oggetti dotati di senso. Viene sì “rigettato” – come è stato detto da alcuni, di per sé e assieme alla felicità ad esso ridotta – ma solo allorquando lo si consideri edonisticamente il massimo valore, il bene supremo; aggiunge anzi Scheler che una siffatta ricerca del piacere non può che relegare nell’infelicità e in un profondo malessere sul piano vitale, se non alla disperazione sul piano spirituale che ineluttabilmente “insegue” la felicità e, sul piano sensoriale, il mero piacere.
In epicrisi alla lectio fenomenologica scheleriana, la felicità può definirsi un fenomeno soggettivo della vita psichica, uno stato dell’Io affatto peculiare; più specificamente quel “fatto multiforme” dello psichico non appartenente alla coscienza obiettivabile, quella formazione psichica per certi versi descrivibile in via negativa, apofatica: il sentimento, che si contrappone alla sensopercezione in quanto mette in rapporto l’individuo con il mondo esterno, e che in un medesimo atto di coscienza può scaturire dai vari strati, pervadendo così l’essere nella sua totalità nonché nella sua essenza. In tal senso la felicità può anche definirsi, anziché un a priori, una sorta di vettore ontologico in grado di intenzionare attivamente l’essere verso un compiersi pieno e assoluto, ciò che è un esistenziale primario di genere particolare.
Nell’assumere il costrutto scheleriano della felicità come paradigma dotato di ineguagliabile valore euristico – vista la dettagliata, coerente, sistematica analisi fornitaci dall’autore – ci sia consentito un corollario e al tempo stesso un reciproco di tale costrutto, inerente il dibattuto concetto di unità psicofisica. Beninteso: l’unità somatopsichica compete all’analisi fenomenologica non già nel suo statuto di idea, concetto, nozione, ma in modo definitivo e sostanziale sul versante del vissuto esperienziale. Si intende osservare come proprio negli stati di profonda felicità in tutte le sue coloriture affettive, così come negli stati contropolari, tale unità pare assumere la configurazione fenomenica di Erlebnis, esperienza vivente, in tutta la sua concreta pienezza, nel suo articolarsi come una totalità dotata di senso, “unità strutturale tra forme di atteggiamento e contenuti”, “il mio sentimento di qualcosa o il mio volere qualcosa” (5).
Più nel concreto: non abbiamo tutti esperito nelle situazioni di felicità uno stato immanente di pacificazione e di unicità; un soddisfacimento privo di bisogni ma pervaso da una forza diafana, verticale, ascendente, alata, disincarnata o del tutto incorporea in grado di opporsi alla passività, alla debolezza, alla caduta, alla cattività e al fardello del corpo e del suo peso mortale, alla massiccia grevità della carne posseduta dalla minaccia e dall’impotenza? Detto con unico sintagma, alla miseria hominis?
“Ali ha ciascuno al core ed ali al piede / né del suo ratto andar però s’accorge”, così Torquato Tasso nel canto III della Gerusalemme liberata.
Non occorre argomentare come la ricerca della felicità, strenua e incessante, rappresenti sin dall’inizio dei tempi una pulsione istintiva, una forza motrice, il fulcro di ogni Weltanschauung, sia essa consapevole o meno. I suoi contenuti, i sentieri che vi approdano, la sua vera essenza furono e sono l’oggetto ultimo di ogni religione, filosofia, cultura. – Alcuni exempla dell’antichità classica per introdurre l’argomento: nell’edonismo canonico di Aristippo da Cirene la felicità consiste nella ricerca del piacere come unico bene possibile e altresì fondamento della vita morale; per Democrito, Epicurei e Stoici essa rinvia all’ideale dell’atarassia o dominio sulle ‘passioni’, nel senso più generale del greco πάθος che include sentimenti ed emozioni; per Aristotele la felicità si consegue mediante l’esercizio della virtù; per Socrate mediante la virtù e soprattutto la sapienza, riconoscendo egli il sommo male nell’ignoranza.
Al fine di estendere la visuale a paradigmi di maggior interesse antropofenomenologico, sono da evidenziare ulteriori elementi di approfondimento.
S’intende che la ricerca della felicità altro non è che l’epitome di un’aspirazione originaria dell’uomo – come essere “incompiuto”, “malato”, esposto alla “fallibilità” (Kierkegaard, Jaspers, Ricoeur) – ad una totalità ineffabile dispensatrice di plenitudine e perfezione. Totalità che in un suo configurarsi incondizionato e atemporale sia in grado di elevarlo sopra le miserie della condizione umana, di svincolarlo dalle catene del male che insidiano e pervadono l’esistenza, così opponendosi all’ideale di una condition humaine definita da regole, conforme all’ordine immutabile di uno spazio abitato, ordinato, conosciuto, ossia di un kosmos privo di angoscia e infelicità (3). Sono proprio i sentimenti vitali e spirituali generati dal negativo – come disposizione fondamentale di homo existentia, come possibilità latente legata al fatto di essere-nel-mondo e vertigine della libertà (7) – ad aprire lo scenario dello spazio antitetico al kosmos: lo spazio straniero, posseduto dal terrore, dal pericolo, dall’insicurezza, dalla fantasmaticità caotica del tremendum; a posare lo sguardo su tutto quanto appare estraneo, incomprensibile, difforme, discordante, insolito, eccezionale, anomalo, diverso e pertanto vissuto con l’angoscia, la disperazione, lo smarrimento, la paura primaria che accompagna l’umana sciagura.
In tutta evidenza se la ricerca della felicità non è mera pulsione istintiva, originaria e irriflessa – come in ogni uomo nelle sue declinazioni creaturali, immediate, macchinali, ‘iliche’ per dirla con gli gnostici – necessariamente rappresenta il complemento e il reciproco di un modello ermeneutico del male, di un linguaggio in grado di descrivere l’esperienza del male nei suoi diversi registri, di una rappresentazione, di una dialettica di archetipi e simbolismi che vi ineriscono, di una teoria sulla sua origine: l’eterna ed universale tematica dell’agostiniano “unde malum”.
La ricerca fenomenologica e psicoantropologica (Ricoeur, Van der Leeuw, Pettazzoni) ha mostrato il paradigma dell’impurità come la più antica metafora del male, bioantropocosmica, pre-riflessiva e pre-teologica; il simbolo sovradeterminato in grado di significare analogicamente tutti i piani dell’esperienza del male, dai più arcaici ai più speculativi e interiorizzati: piano corporale, etico, magico-animistico (malattia, passione, colpa, peccato, affatturamento magico, possessione demoniaca). L’impurità è una sostanza, una macchia materiale; ma è anche una potenza e un demone; è l’epifania del numinoso nel suo attributo terrificante; è un linguaggio simbolico in grado di figurare ciò che rilutta ad una figurazione, di ridescrivere le esperienze-limite dell’umano (il caso, il dolore, la morte); è interna ed esterna, causa e conseguenza, additando ad un livello protofisico e protomentale. La purità si raggiunge mediante pratiche di lustrazione che vanno dai lavacri con acqua di sorgente ai cerimoniali magici di espulsione del “peccato” alle vere e proprie pratiche di pentimento e purificazione (10): del resto la καθάρσις (purificazione intesa a mondare il corpo e l’anima) è un’operazione concepita nella modalità di un drenaggio o di un’evacuazione, è la messa a morte del καθάρμα, l’oggetto malefico che introducendosi nell’organismo vi porta il disordine. Ebbene, solo le anime rese pure mediante le pratiche di purificazione giungono alla beatitudine; così come son detti “beati” o “felici” (μακάριοι) i puri (καθαροί) di cuore” (Mt. 5:8). I dizionari Gemoll e Rocci traducono μακαρία con felicità, beatitudine; il Liddell-Scott come happiness, bliss.
Nella mitologia la felicità viene personificata: Euripide fa di Makaría la figlia di Eracle, volontaria vittima sacrificale per la salvezza di Atene; il Lessico Suda la dice generata da Hades dio degli inferi, e da lui incaricata di traghettare le anime dei giusti verso le Isole dei Beati.
Quel monumento teologico e filosofico agli dei sùperi, come pure all’umanità dell’uomo come archeologia e teleologia della coscienza (11), che è rappresentato dal complesso religioso greco-giudaico-cristiano pare offrire in modo quanto mai emblematico un modello ermeneutico del male con il suo reciproco (v. supra) per il tramite di una drammaturgia di esperienze-limite corredata dal linguaggio atto a descriverle: il linguaggio iperbolico delle espressioni-limite. Ed eccone un frammento.
“Mi fu recata furtivamente una parola e il mio orecchio ne percepì il sussurro; nell’inquietudine delle visioni della notte uno spavento mi colse, un terrore fece tremare tutte le mie ossa, un vento mi passò sul volto e orripilò la mia carne” (Gb. 4:12-15).
Beninteso, ponendoci in modo definitivo e sostanziale sul versante del vissuto esperienziale, ci occupiamo non già dei fondamenti della verità rivelata ovvero dell’esistenza di Dio, bensì della rivelazione e del divino come Erlebnis nonché del sacro come fenomeno ed esperienza vissuta comprensibile, sempre quindi di homo existentia, nella figura antropologica di homo religiosus, «l’uomo che crea e manipola la sfera del soprannaturale o del sacro» (1), in euristica antitesi al riduzionismo positivistico di homo natura. In questa prospettiva tentiamo allora di trascrivere alcune figure della condizione umana attraverso i racconti, le immagini, i simboli, le metafore-limite degli scritti biblici (2). Esemplare la lettura del racconto di Genesi sul declino creaturale dallo stato originario di felicità e purezza mediante il linguaggio metapsicologico ed esistenziale dell’immaginario che è chiarificazione filosofica dell’esistenza umana nel suo tragico: il richiamo incessante verso una perfezione grandiosa non più raggiungibile, le istanze incommensurabili di unicità, perfezione, immortalità, certezza, felicità pur nella finitudine e nell’inevitabile destino di irreparabili sconfitte; così in tale drammatica Spaltung fra l’ideale dell’onnipotenza e la realtà della miseria emerge una spietata istanza giudicante che alla colpa come debito sconosciuto e insolubile aggiunge la vergogna insanabile dello scacco. Ma ancora, la colpa non può fare a meno di fissare lo sguardo sulla libertà, poiché cogliere l’uno significa rifiutare l’altro possibile: se nell’esserci io sono esistenza possibile posso evitare la colpa non entrando nel mondo e quindi non facendo nulla; solo così potrei mantenermi nella possibilità universale. Ed ecco l’angoscia, giacché la libertà e la colpa sono ancora una possibilità, ma la possibilità si dilegua non appena si cerca di afferrarla, si dilegua come un nulla che può soltanto angosciare. In questo tragico epilogo tra finito ed infinito, tempo ed eternità, libertà e necessità l’Io che si pone da sé, nel suo esser solo di fronte al nulla, non può che dileguarsi e sprofondare nella disperazione.
Ora se all’uomo fondato su di sé, messo in stato d’accusa dall’Ideale, non resta che la disperazione – ossia per dirla con Kierkegaard la “malattia mortale” – homo religiosus mediante l’esperirsi nella “categoria del davanti-a-dio”, nel “peccato”, rinviene la formula della fede, la formula che emancipa dall’angoscia e dalla disperazione. Entro tale categoria il linguaggio atto a comprendere ed esprimere la ‘caduta’, la colpa, la vergogna, la sconfitta all’interno di uno spazio ideale rispetto all’umana finitudine diviene il linguaggio religioso.
“Un tempo, senza la legge, io vivevo; ma venuto il precetto, il peccato si ridestò ed io morii: sicché il precetto che doveva darmi la vita diventò occasione di morte. Poiché il peccato, colta l’occasione del precetto, mi sedusse e per mezzo di esso mi uccise. […] Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom. 7: 9-12, 24).
Se dunque homo religiosus sussume il modello del male e del mal-essere nella categoria del davanti-a-dio, a chi chiederà la parola della consolazione, a chi chiederà la felicità?
Ebbene, il Dio uranico (4) l’Altissimo che “abita una luce inaccessibile, che nessun uomo ha visto né può vedere” (I Tim. 6:16), cui vanno l’onore e l’impero sempiterno, Jahvè degli eserciti, è chiamato ὁ μακάριος θεὸς “il felice dio” (o “beato”, v. supra), che si “diletta” sul globo terrestre “deliziandosi” dei figli degli uomini, che li conduce per mano ad indicar loro la via, li prega di “ascoltare” i suoi “insegnamenti”, perché chi li ascolterà sarà felice (Prov. passim). La felicità – descritta ampiamente in Salmi e Proverbi – non risiede nel possesso di beni materiali né nel potere o nella bellezza (Sal. passim); non dipende dal presumersi sapienti o dal ricercare lodi, onori e ricchezze, “sedersi al posto di dio” col cuore gonfio di orgoglio, superbia, alterigia (Ez. 28: 2-5). Felice è l’uomo che ha trovato la sapienza, il discernimento, la disciplina che dà perspicacia, giustizia, equanimità e rettitudine, astuzia, prudenza e intendimento, per crescere in sagacia e dottrina, per capire i proverbi e le allegorie, i detti dei savi e i loro enigmi; felice è l’uomo che mi ascolta e veglia alle mie porte ogni giorno, felice colui che segue le mie vie (Pr. 1-9, passim). In uno dei vangeli sinottici (Mt. 5: 3-11) qualità o situazioni non accidentali od effimere ma inerenti alla relazione con dio sono fonte di felicità o beatitudine (v. supra: μακάριοι e μακαρία). Felici sono: i miti, i poveri nello spirito, i misericordiosi, i puri di cuore, i facitori di pace, coloro che hanno fame e sete di giustizia e sono perseguitati a causa di dio e della giustizia. Anche nell’ultimo libro delle scritture greche (Αποκάλυψις) Rivelazione, la felicità viene menzionata in numerosi passi, ma lo stile letterario ‘apocalittico’ costellato di visioni profetiche, ierofanie e simbolismi di assai ardua esegesi, nonché i contenuti precipuamente escatologici, rappresentano verità rivelate di fede ed esulano dal tema del presente contributo; utile un pallido esempio a significare quanto detto:
“Felice chi legge e felici coloro che ascoltano le parole di questa profezia, osservando le cose scritte in essa, perché il tempo è vicino” (Ap. 1:3).
Qui, come si diceva, solo un iniziato o un adepto può comprendere od esperire quel singolare stato di felicità. Infatti desituarsi dalla formula della fede e porsi in un orizzonte ermeneutico di altro genere non è dato, neanche per il tramite di uno strumento metodologico così complesso e duttile qual è il costrutto scheleriano; tantomeno cadere nella trappola della conoscenza ingenua e considerare i riduzionismi di qualsiasi natura proclivi alla ricerca di un comun denominatore (12). Le sole deduzioni lecite, cioè scientificamente valide, pertengono all’analisi del linguaggio. Si tratta di un linguaggio religioso (sermo mythicus) di una sorta speciale, giacché alle modalità simboliche di surdeterminazione, eccedenza allusiva, iperbole si aggiungono le modalità ultrasimboliche come l’idioma apofatico o pneumatico ossia il linguaggio dell’ineffabilità o retorica del silenzio (11). Ne derivano due ordini di considerazioni: la straordinaria potenza evocativa di tale linguaggio viene paradossalmente intensificata dalla retorica ‘non verbale’ del linguaggio dell’ineffabilità; una grammatica simbolica siffatta, già veicolante contenuti trascendenti, rinvia agli aspetti più profondi ed estremi della realtà, alle modalità più segrete dell’essere, a segno che l’oggetto scompare ed appare la trascendenza nel suo nascondimento, nel mistero della sua indecifrabilità.
Si configura un declinarsi possibile della felicità (Glückseligkeit) in forme indecifrabili: altri exempla atti ad illustrare tale tematica possono riferirsi a figure antropologiche singolari, in particolare là dove, per dirla con Kant, la felice sintesi di creatività e intelletto insieme con quella di spontaneità e regole non scritte definisce il genio. Non è un caso che sovente ci pervengano immagini stereotipe, distorte e falsate in merito a vari aspetti della loro vite (16): nel caso di un genio autentico come Wolfgang Amadeus Mozart è superficialmente divulgata l’icona del joker eccentrico e bizzarro, immerso nella felicità aurorale dello spensierato puer aeternus, a spese di altre icone stereotipe del Genio, come la figura di chi esibisce sguardi penetranti e sopracciglio perennemente aggrottato per manifestare la propria grandezza. Ebbene, ad un’analisi più attenta della figura di Mozart, i tentativi di pervenire ad una visione unitaria sintetica – in seno alla quale i singoli eventi e le immagini multiformi appartengano come membri ad un’unità di relazioni comprensibili atte a prender corpo in un oggetto unico – non possono che rimanere frustrati o risultare forzosi o insulsi. Infatti, se lo sviluppo unitario di una personalità è fondato sul succedersi psicobiologico normale delle tipiche fasi di sviluppo in rapporto all’età, potremmo forse parlare per Mozart di un naturale percorso biologico delle età e delle attinenti tappe evolutive? Perfino il concetto di “precocità” è legittimamente messo in questione dai suoi biografi insieme con quello di “maturità”, poiché tali categorie richiederebbero solidi punti di riferimento e comparazioni sincroniche e diacroniche: ciò che è del tutto mancante in una parabola vitale che pare essersi sottratta alle leggi del tempo, della biologia, della psicologia. Alla luce di tali contenuti filosofici assieme alla coscienza metodologica da cui traggono origine, pare necessario opporsi all’atteggiamento naturale di riunire, sistematizzare, unificare ciò che resterebbe inaccessibile come unità, come un insieme attuale; ma si concede al mondo solo mediante singoli eventi e immagini multiformi: il prodigioso, il tragico, il sublime, il bizzarro, il trascendente restano le modalità del suo essere individuale nelle quali per conoscerlo lo scomponiamo.
«Il piccolo Wolferl a quattro anni va spiaccicando l’inchiostro col palmo della mano per poi scrivervi sopra le note di un concerto per clavicembalo. – L’enfant prodige obbligato alle esibizioni circensi, fedelmente e allo stesso prezzo, esegue anche numeri speciali, come suonare a prima vista o con la tastiera coperta da un panno. – Mozart assoluto al pianoforte, specie nelle improvvisazioni, si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, freddamente invasato, quasi assente, totalmente immerso nello spirito indicibilmente grande del suo genio. – Wolfie spregiudicato e buffone, di punto in bianco prende a miagolare, a saltare, a far le capriole come un bambino capriccioso. – Mozart esemplarmente dignitoso, quantunque misconosciuto, ignorato, confinato in un isolamento crescente, giammai proferisce lamento, sopporta le assurde umiliazioni con pazienza o quasi non sembra farci caso […]. – Mozart melanconico, presago o delirante confida a Constanze con gli occhi pieni di pianto che ‘non durerà a lungo’, che ‘di certo lo hanno avvelenato’, ‘qualcuno gli ha dato dell’acqua tofana’» (12).
Possiamo forse dire di aver colto le forme o gli stati di felicità o infelicità in un’esistenza che è indiscutibilmente posta fuori dalla condizione comune, la cui realtà è un accadere-senza-terreno, la cui forma è l’essere-in-movimento, il non fermarsi mai a lungo in un luogo o su un traguardo artistico già raggiunto e che pare dischiudersi parzialmente solo obiettivandosi e quasi dissipandosi nell’assoluto dell’opera? Vale a dire nel sublime e nella potenza catartica dei suoi ineguagliati capolavori. È qui infatti che si può reperire un indizio ed afferrare un sillabo significativo: se le immagini musicali ci rappresentassero in qualche forma coloriti subiettivi psichici, potremmo forse trasporre la sintesi suprema del drammatico musicale ed il sovrumano dominio del tragico che emana dalla musica di Mozart, come in nessun’altra mai, in una funzione armonizzante dello spirito umano percepibile come sintesi trasfigurata delle opposizioni drammatiche esemplari: il destino mortale e il desiderio d’immortalità, la felicità e l’infelicità.
Di séguito alla figura della felicità come cifra ed al suo simbolico trasfigurarsi nella coppia di opposti che la contiene, una sua rappresentazione altra si intende delineare nel contesto antropologico della nostra travagliata postmodernità. Epoca del nichilismo compiuto e della ‘morte di dio’: là dove gli dei sono divenuti irreali, si sono sottratti alla loro stessa verità, hanno perso forza e valore, non dispensano né reggono più la vita. Restano i valori che giudicano non dominando più l’agire ma condannandolo, talché il fragile statuto identitario così fiaccato da crudeli istanze stigmatizzanti, ma al tempo stesso desituato dal divino che lo sorreggeva, ha una sola via da imboccare per non soccombere; una sola: trasumanarsi o meglio deificarsi a propria volta per riacquistare dignità e valore e potenza, così da poter combattere contro i divieti, la sorte avversa, il destino, ma soprattutto contro l’altro che è perturbante e vessatorio e tracotante e ostile.
Già da qualche decennio la compagine sociale moderna ha gradualmente acquisito caratteristiche tali da essere definibile come ‘società’, Gesellschaft, non più ‘comunità’, Gemeinschaft: la classica distinzione di Ferdinand Tönnies (1887), riproposta da più parti anche di recente, sembra costituire la chiave di lettura più idonea ai fini del nostro tema, poiché descrive specificamente l’intersoggettività e il suo declinarsi nelle due diverse strutturazioni. Nella comunità le relazioni personali sono funzionalmente immediate, multiple, stabili, totali e affettivamente cariche, predisponendo alla partecipazione e alla solidarietà quanto a ruoli, valori e credenze, dimodoché “ognuno esperisce un mondo uguale a quello degli altri […] un mondo comunitario correlativo ad un soggetto unico” (5). Nella società le relazioni sociali sono indirette, funzionalmente specifiche, parziali, impersonali e talora frustranti, condizionando così un tessuto sociale disgregato, espulsivo, affettivamente desertificato, ove credenze, valori, affetti sono meno condivisi, talché quell’unico ‘mondo comunitario’ si frammenta in una moltitudine di inframondi poco comunicanti fra loro, se non segregati: ciascuno con la propria felicità o infelicità, ciascuno con il proprio demone.
Infine, nell’aver definito la felicità ‘vettore ontologico’ in grado di intenzionare attivamente l’essere verso un compiersi pieno e assoluto, ci si è discostati dall’imprescindibile Scheler, il quale – ribaltando così le basi delle più note teorie etiche – considerò nel suo impianto etico la felicità non già lo scopo di un volere o il fine del tendere, ma la sua fonte. Ora un vettore non è né una fonte né uno scopo, bensì un intenzionarsi di homo existentia verso quell’insieme di simboli, immagini, esigenze, ideali i quali, nell’ambito delle manifestazioni di esistenza possibile, configurano la visione del mondo, la Weltanschauung che ciascuno riconosce come propria, cui dà senso e valore, così come ad una forma o rappresentazione o figura di felicità: giusto in qualità di vettore la felicità informa la concreta realizzazione dell’esistenza per entro la Weltanschauung che ogni persona, nella sua irripetibile singolarità, ha riconosciuto e abbracciato come propria assieme alla sua propria figura di felicità.
Note bibliografiche
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