Du Bellay, gli altri e le altre. Notazioni comparatistiche dalla Pléiade al Barocco
Davide Monda, Roberto Roversi, Du Bellay, gli altri e le altre. Notazioni comparatistiche dalla Pléiade al Barocco, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 17, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10830
A Ezio Raimondi, interprete geniale e incontentabile
che ha saputo leggere l’opera di Petrarca
e di molti suoi discepoli europei
in maniera insuperata1.
Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile.
Italo Calvino, Il midollo del leone [1955]
Se il mio unico problema è capire quanto un romanzo è migliore o peggiore di altri romanzi, o quanti altri sonetti nasconde nella sua filigrana un sonetto, io, di fatto, sto esiliando quel romanzo e quel sonetto nel regno della morte.
Emanuele Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo [1994]
Non si ripeterà mai abbastanza che l’idealismo platonico è lungi dal corrispondere ad una visione ingenua o trasfigurata. Esso cerca, è vero, l’aria del paradiso, ma sorge, e non lo nasconde, da un mare di zolfo.
Mario Andrea Rigoni, Variazioni sull’Impossibile [2006]
Dal Poema fisico e lustrale di Empedocle – ricostruito segno per segno dalla minuta acribia di Carlo Gallavotti (1909-1992) – ci sta a cuore trascrivere, per cominciare, alcuni versi che conserviamo ben stretti nel pelago impetuoso delle nostre suggestioni:
O amici, so bene che la verità alberga negli argomenti
che ora voglio esporre; ma assai travagliato e sospettoso
è il passaggio della convinzione dentro l’animo umano.
Ed è questo: chi risulta spergiuro per la colpa commessa
dovrà migrare lontano dai beati, che come demoni longevi hanno raggiunto
la vita, per tre volte diecimila stagioni,
rinascendo attraverso il tempo in molteplici forme di corpi mortali,
permutando i procellosi cammini della propria esistenza.
Perché ci fu anche un tempo in cui sono stato un giovane e una ragazza,
e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce del mare.
Il tempo, la nostalgia forte e struggente della memoria; il tempo, che trascinando la vita e le generazioni, alle volte appiana, alle volte sgomenta, alle volte esalta, alle volte è marasma nella mente dei mortali costretti ad orbitare in affanno per ridisegnare il mondo dall’imo.
E, quasi per istinto, avvinti (e vinti) dalla profondità densa che accomuna numerosi dei testi letterari più arcaici, vogliamo associare alla fervida tensione speculativa del greco un passo del Libro di Giobbe che spicca per tagliente pessimismo antropologico: è un’altra pietra miliare – crediamo – nell’infinito, faticoso cammino della riflessione, un’altra scheggia rovente di poesia degna d’esser mandata a memoria:
L’uomo, nato da una donna,
ha vita breve e piena d’affanni.
Come un fiore sboccia e appassisce;
fugge come l’ombra e non si arresta,
e si disfà come legno fradicio,
come un vestito roso dalla tignola.
Quindi ricolleghiamo – secondo una visione di idee, cose e vicende che condividiamo, e che appare costantemente esaltata dalle parole antiche e nuovissime e giuste di alcuni libri senza spazio né tempo – i frammenti trascritti alle tempeste del tempo presente; e così, più in generale, ci predisponiamo a leggere e rileggere le parole, ad ascoltare le voci dei poeti morti come parlanti su un vascello che naviga fra alti marosi in mare aperto, e nessuno dei viventi a terra può allungare le mani per trattenerli vicini. Può solo ascoltare le voci e le grida lontane.
Il desiderio, il bisogno di lettura, per noi non può mancare di interrogarsi sul modo (meglio, sui modi) di leggere oggi, terzo millennio, i classici: alludiamo ai nuovi modi consentiti – lasciando ad altri, diversamente attrezzati, le indagini generali o particolari, le conclusioni e le catalogazioni – per riscontrare le vaste, dolorose irrequietezze culturali provocate da questi anni di inevitabili sconquassi.
In altre parole: sono ancora i classici consegnati dalle tradizioni il ponte di liane degli Incas, tremolanti su strapiombi inesorabili, che con un filo di dura corda e pezzetti di legno uniscono rive lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di lunga, lunghissima durata?
E poi: se dobbiamo continuare a dar credito a queste narrazioni sempre grandi e sovente grandiose, come è legittimo leggerle adesso? Rassicurati da collocazioni consolidate e da critiche classificazioni “d’autore”? O possiamo (dobbiamo) scompaginare i posti, rovesciare i tavoli – magari lasciando, sul momento, dei vuoti –, e quindi impegnarci a ricostruire con tutte le forze di cui disponiamo l’edificio autentico e sacro della nostra cultura, la sorgente più fresca e pura della nostra perduta commozione? Insomma, dobbiamo (possiamo) ancora fidarci apprezzando ed encomiando, o invece, scatenando talune indomate, insopprimibili necessità che ci abitano, dobbiamo (possiamo) graffiare le pagine inseguendo i cervi impauriti delle parole nella fuga nei boschi?
La scienza è cosa della terra, la sapienza è beneficio della divinità, e ci è dunque consegnata e versata: sono parole di Nicola Cusano (anche lui da riascoltare), memorizzate insieme all’altra indicazione, piena di fascino, dei “filosofi cacciatori”.
Ma se – trasferendo l’espressione – anche i poeti, i predestinati o improvvisati estensori di parole che pensano e che volano, sono cacciatori, dove si inoltrano? E cosa, e quanto rischiano? Scienza, saggezza e sapienza li contrassegnano, illuminandoli davvero? Infine, quanto a noi, li ascoltiamo, li abbiamo mai ascoltati, li ascolteremo mai come ombre luminose capaci di elargire la solenne virtù di suoni e parole incantevoli, non nascondendoci che ora la terra trema e brucia, e che tante biblioteche si disperdono misteriosamente, o si ammassano occultate?
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Sono semplici domande e piccole ipotesi sulla letteratura e sulla lettura. Ma è anche vero che non dobbiamo, anzi non possiamo aspettare appaganti, tranquillizzanti risposte altrui, che rischieremmo, fra l’altro, di trovare inaccessibili, o sibilline, o vacue, o pretenziose, o avare, o mistificanti.
Dobbiamo, al contrario, sforzarci di ottenerle, un passo dopo l’altro, da noi stessi, pure a costo di rendere il nostro tradizionale rispetto irrispettoso, e finanche di prendere cantonate ed abbagli, peraltro pressoché inevitabili negli universi quasi tragicamente vaghi, sdrucciolevoli, sfuggenti delle scienze umane.
Nei tempi ora condivisi, diis faventibus, sono di fatto tramontati parecchi di quegli entusiasmi (perlopiù ingenuamente) specialistici che, sdegnosi, non privi di arroganza e viziati da vari e vaghi scientismi, hanno imperato quasi indisturbati per oltre un ventennio; così, un numero cospicuo e crescente di studiosi de race – e anche, a onor del vero, di genuini amateurs – considera di nuovo adeguatamente, oggigiorno, quelle che, una volta, molti chiamavano non senza stima, nostalgia e riconoscenza incondizionate “scienze dello spirito” (Geisteswissenshaften). Nel 2022, in effetti, chi ha più il coraggio di trattarle da fanta-scienze, da discipline irreversibilmente imperfette e, quasi di conseguenza, condannate alla peggior precarietà?
In un libro squisitamente inattuale del ’96 (La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune), Raffaele La Capria, che da poco ci ha lasciato, discorre di questi temi con lucidità a un tempo coraggiosa e sottile, mai disgiunta da una garbata ironia mediterranea che aiuta a respirare:
La bizantina, sofisticata capziosità delle nuove tecniche di analisi letteraria può promuovere e sublimare qualsiasi testo, anche mediocre. E potrebbe, se applicata con l’indifferenza dello specialista, far diventare qualsiasi testo più importante di quello che è, o trattarlo con la stessa deferenza che si usa per un capolavoro: con gli stessi aggettivi, con gli stessi soprassalti di meraviglia o di ammirazione, come Don Chisciotte trattava la sua Dulcinea del Toboso.
Più avanti, ragionando in termini più generali e (giustamente) concitati, afferma:
Quel che so è che i grandi e veri creatori, un grande poeta, un grande critico, quelli insomma che si mettono in rapporto con la realtà, sono molto semplici quando devono esprimersi, e lo fanno con parole e pensieri alla portata di tutti, altrimenti non sarebbero universali.
E, più avanti ancora, trascrive e commenta con perspicacia insieme animosa e moderata un passaggio tolstojano, che possiede un non so che di profetico e che sarebbe, comunque, da memorizzare adagio:
Nel suo libro Che cosa è l’arte, Tolstoj, a proposito dell’arte finita in mano agli “specialisti”, dice che: «Tali uomini, spesso molto buoni e intelligenti, adatti ad ogni lavoro utile, s’inselvatichiscono in queste occupazioni singolari e stupefacenti, e diventano sordi a tutte le manifestazioni serie della vita, si trasformano in specialisti limitati e pienamente soddisfatti di sé, capaci soltanto di virtuosismi coi piedi, con la lingua e con le dita». E qui allude al balletto, all’arte di «rigirare le frasi nei modi più diversi» e all’arte di suonare il pianoforte.
Non so come è nell’originale, ma mi ha colpito il verbo «s’inselvatichiscono» trovato dal traduttore, perché corrisponde esattamente a quello che io penso.
Ancora, non lasciamoci ingannare da certi discutibilissimi ragionamenti sui “piaceri del testo”, oggi tanto popolari, à la page e quasi prêt-à-porter: possono senz’altro attrarre mediante le lusinghe, le seduzioni e le facilitazioni su cui sono costruiti, ma ben di rado arricchiscono e affinano la nostra cultura, le nostre capacità critiche e – soprattutto – la nostra interiorità, già confusa, illanguidita e (forse) sviata in mille e mille modi talvolta misteriosi.
Invero, la lettura seria sa regalare momenti d’incomparabile gioia e di libertà vera, ma nel contempo richiede uno sforzo infaticabile e severo, una sorta di ascesi interpretativa volta a trarre dai testi tutto quello che possiamo. Si tratta di un esercizio duro e complesso, che comporta un’autodisciplina costante, un’abnegazione esegetica ed ermeneutica disposta a spendersi con tutta la mente, l’anima e persino il corpo, un senso del sacrificio oggi assai poco diffuso – e, a dirla giusta, quasi mai apprezzato.
Eppure, se vinciamo quanto ci allontana dallo sviluppo intellettuale, se abbiamo la meglio su quella distrazione, quel disimpegno, quel disincanto che abitano (prosperano?) in noi, e che il sistema tenta quotidianamente di sedurre con legioni di sirene – non sempre, a dire il vero, effimere o triviali –, se ci imponiamo, insomma, di seguire sino in fondo “virtute e canoscenza”, ci sarà dato raggiungere e contemplare alte vette di abbacinante bellezza, panorami d’inattesa ricchezza, varietà e (spinoziana) letizia.
«Come conosceremmo – ha scritto Ernst Cassirer in un libro fondamentale uscito nel 1944 (Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura) – tante sfumature delle cose se non fosse per le opere dei grandi pittori e dei grandi scultori?». Parallelamente, la poesia gli appariva la rivelazione decisiva della nostra vita personale e fonda. Infinite possibilità esistenziali, da noi di solito vagamente e oscuramente adombrate, vengono così portate alla luce dal poeta lirico, dal romanziere e dal drammaturgo. Una tale arte non è affatto una contrapposizione o un semplice facsimile della vita interiore, bensì una sua manifestazione autentica.
Come potremmo poi non condividere almeno un poco di tanti e tali patrimoni dell’anima – quanti profumi e quante musiche singolarmente evocative, quante luci e quanti colori ineffabili, quanti volti e quanti ambienti nuovi e penetranti, quanti spunti curiosi e, forse più che tutto, quante idee universali… – con chi non può, per oceani di ragioni, raggiungerli da solo?
La nostra biblioteca – e qui alludiamo in specie a quella biblioteca mentale che tutti, volenti o nolenti, portiamo sempre con noi – non può, non deve essere lo stimolo saccente di sterili chiacchiere, né il repertorio crudele della nostra frustrata “volontà di potenza” (Wille zur Macht), né uno status symbol da mostrare orgogliosi a chi conviene, né tanto meno un vecchio cimitero abbandonato. Un libro, mille libri chiusi sono cadaveri: se però li apriamo e ci sforziamo d’animarli con tutte le energie e le fibre, potranno tornare a parlarci e contribuiranno, così, ad aprire la nostra vita a galassie di pensiero sconosciute, a tempi remoti e contemporanei, ad arti e a scienze, a vicende, scenari, profili che non avremmo probabilmente immaginato e, in una parola, a miriadi di realtà coinvolgenti. Leggiamoli dunque, o rileggiamoli, con l’entusiasmo fresco e ardente di un primo amore, con l'”eroico furore” di umanisti insieme lucidi ed entusiasti, insaziabili e sempre inappagati dai risultati raggiunti, dalle vie e dai paesi esplorati.
Quanto agli intellettuali, o più esattamente agli hommes de lettres (studiosi, docenti, educatori, editori, bibliotecari, librai etc.), di questo inasprito millennio, non dovrebbero mai dimenticare o prendere alla leggera – sebbene sconfortati e intristiti, turlupinati e umiliati, battuti e violati da un sistema alieno e spesso avverso a quanto più desiderano ed auspicano – il loro compito fondamentale, la responsabilità immensa e ineludibile che pesa sul loro capo così come sulle loro spalle: formare, con tutte le forze intellettuali, culturali e morali in loro possesso, coscienze attente e sensibili a quei valori etici ed estetici – ma i due domini assiologici, come ci ha rammentato anche Wittgenstein, sono in realtà coincidenti – che ravvivano, riscaldano e illuminano numerosi dei testi che le letterature tout court ci hanno consegnato.
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Così pure noi, con cautela e modestia, possiamo arrischiare qualche riflessione: per esempio, a proposito della diversità sussistente fra il Cinquecento francese e quello italiano. Nel primo, ci pare, è abbastanza costante, con lucida e addolorata (accidentata) chiarezza, un superamento del tormentoso dilemma della fragilità della vita nella ricerca della grazia (come beneficio celeste), o addirittura nella pace rassicurante di un Dio che non è più un drammatico antagonista, ma un porto di luce, un’impreveduta salvezza nel fortunale.
Da noi, la divinità sovrasta (incombe) tra un velario di nubi morbide e vaganti; e persino la morte, con quel suo nero non di rado compiacente, sembra sottostare al drammatico e luminoso, o amoroso, abbraccio con una vita (con la vita) che non vuol cedere, non vuol lasciarsi consumare, ma consentirsi all’opposto di essere respirata fino all’ultimo soffio.
Nel primo, la conclusione è una ferita aspra, amara, e comunque tristemente sopportata nell’attesa e nella fiduciosa speranza della somma risalita; da noi, invece, ogni grido, od ogni sentimento, è sempre accompagnato da una ultima, da un’estrema tenerezza.
Si rileggano, ad esempio, i sonetti o gli altri brevissimi testi e frammenti di Michelangelo, prevalentemente sistemato – non sappiamo con quanta attendibilità filologica – fra i minori: per quanto graffianti fino al sangue nei riguardi della propria vita e del proprio destino che invecchiano e vanno spegnendosi, racchiudono una sorta di miracoloso stridore di denti, che esprime una ultima volontà di resistenza, di ribellione all’oblio della carne. E anche per altri componimenti – ci riferiamo, in primo luogo, ai più acidi e tormentati madrigali di Giovan Battista Strozzi “il Vecchio” (1505-1571) – è legittimo, forse, avanzare proposte interpretative non dissimili.
Un’altra impressione: nei testi italiani di questo secolo che, in Francia come in altre parti d’Europa, risplende così lucido di bianchissimo fuoco, l'”amor platonico” ci appare viceversa assai poco platonico, nel senso di un’astrazione o formulazione affatto idealizzata, e ci sembra scoprire (o coprire) un’autentica, realistica, palpitante vitalità non consumata.
Inoltre i poeti francesi, come gruppo ampio di autori, risultano criticamente più accentrati, diremmo coesi, intorno a nuclei problematici comuni, tenuti accesi da quella tensione amorosa e spirituale percepibile come una rigorosa e (sovente) partecipata costante. Nei casi migliori, ci si trova di fronte – crediamo – a una drammaticità in movimento, ad ascesi ed ascese senza fine. I percorsi esistenziali e di scrittura degli autori d’Italia, invece, ci risultano alquanto diversi l’uno dall’altro e, in più casi, non privi di un certo pur fascinoso disordine, forse anche perché troppo a lungo sono stati genericamente chiusi (o rinchiusi) dentro stanze, stanzini e stanzoni, frequentati quasi solo dalla solennità pur stimabile degli eruditi.
«Non c’è un solo scrittore di questo secolo – ha affermato Daniel Ménager (1936-2020) in una delle non molte mappe affidabili delle lettere rinascimentali d’oltralpe (1997) – che non si proponga, in un modo o nell’altro, d’istruire i suoi simili». Si è inoltre autorevolmente asserito (alludiamo al compianto Lionello Sozzi), pochi anni fa, che «gli scrittori del Cinquecento francese hanno ancora molto da insegnarci». Noi intendiamo che la loro lettura è da ritenersi ancora utile, forse indispensabile soccorso alle nostre infinite miserie, tanto d’affetti quanto di conoscenze.
Quasi mezzo secolo fa, un giovane Italo Calvino, nel saggio oggi a giusto titolo celeberrimo con cui abbiamo introdotto questi pur flebili e provvisori ragguagli, asseverava – in piena sintonia, come si percepisce ictu oculi, con Seneca, Plutarco, Montaigne, Vico, Goethe, Manzoni, Rolland, T. Mann, Gide, Valéry, Camus e parecchie altre anime moderne e contemporanee sinceramente europee – che la letteratura, mentre impara dagli uomini, deve «insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti».
Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare – continuava con quella razionalità finissima che già lo distingueva e che, a mano a mano, avrebbe poi arricchito ed acuito anche prendendo sentieri assai differenti – sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili.
Per noi tutto ciò è verissimo e, in aggiunta, continua ad essere un modo valido per affilare nuove spade – con gli occhi ben fissi sulla terra intera. Non stancarsi mai di attraversare quel ponte di liane che, fra monte e monte, sta sospeso sopra l’abisso: questa è la non peritura necessità dei classici, il brivido della loro voce. Tali testi possono, a ogni buon conto, dirci tutto e darci tutto, specialmente se sloggiati dagli scaffali e dagli inviluppi sterili delle edizioni critiche più accigliate o proibitive, e dunque riconsegnati – finalmente – con una cordialità insieme informata, onesta e umile ai nostri affannosi tragitti esistenziali ed etico-civili.
R.R. D.M.
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Nonostante ogni discorso sull’arte, ben pochi hanno un autentico rapporto con essa. La maggior parte sente sì qualcosa di bello; conosce spesso stili e tecniche; talvolta ricerca anche soltanto quanto ci può essere di materialmente interessante o di attraente per i sensi. L’autentico rapporto con l’opera d’arte non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Esso consiste nel mettersi in silenzio, raccogliersi, entrare, guardare con sensi desti e anima aperta, spiare, rivivere. Allora si dischiude il mondo dell’opera d’arte.
Romano Guardini, L’opera d’arte
Scrive Schopenhauer in un passo rimarchevole del Libro Terzo del suo capolavoro:
Nella lirica dei veri poeti si riflette l’intima essenza di tutta l’umanità, e tutto ciò che i milioni di uomini passati, presenti e futuri hanno sentito e sentiranno nelle stesse situazioni, perché sempre ritornanti, trova in essa la sua espressione adeguata. Poiché quelle situazioni, per il loro costante ritornare, appunto come l’umanità stessa si presentano sempre di nuovo, suscitando sempre gli stessi sentimenti, le creazioni liriche dei veri poeti rimangono per millenni giuste, efficaci e fresche.
Benché vissuti più di quattro secoli fa, benché lontanissimi da ogni Weltanschauung postmoderna, benché formatisi su auctores ed exempla che oggi appartengono quasi esclusivamente alla cultura di una minoranza erudita, i lirici francesi del Rinascimento sanno ancora suscitare in noi riflessioni ed emozioni davvero profonde, in virtù di un’energia straordinaria che sembra sgorgare da vissuti eccezionali, di una carica patetica di singolare potenza che, in molti casi, può lasciare stupefatti e che, more solito, mai è disgiunta da un’abilità compositiva che non passa inosservata. Così, i versi insieme avvampati e ponderati che quel mondo remoto ci ha donato, e che i libri sono riusciti a strappare alle avide fauci del tempo, possono certamente continuare a parlarci dell’uomo e della natura, dell’esistere e del suo senso fondo, di paure e di speranze, di amicizie e di amori, toccando (sovente) con energia vivificante e lucido calore corde sempre sensibili e nervi sempre scoperti.
D’altronde, anche considerando quell’oceano di pensiero e scrittura solamente sotto il profilo storico-culturale, non si può facilmente negare che, come osservò qualche decennio fa (1987) Giovanni Macchia, «con il Rinascimento del XVI secolo s’iniziò per la Francia una nuova era, che la Francia moderna nasce di lì, e che, a guardare il campo concreto dei risultati, il Cinquecento francese fu uno dei secoli più fecondi, ricco di personalità di primo piano, prosatori, poeti, scienziati, moralisti». Quanto alle lettere, pochi dubitano oggi che tale secolo denso, policromo e tribolato rappresenti la prima grande stagione della lirica francese: le altre – non certo per noi soltanto – sono l’intero Ottocento (da Lamartine a Mallarmé) e i primi settant’anni del Novecento.
Eppure, ai molti e (sovente) validi studi storico-critici che, nel Novecento e dopo, sono stati compiuti intorno alla poesia cinquecentesca di Francia – fra i più operosi e, perlopiù, indubbiamente originali, pare doveroso ricordare almeno quelli di Lefranc, Chamard, Schmidt, Raymond, Febvre, Lebègue, Saulnier, Weber, Gadoffre, Rousset, della or ora scomparsa Lazard (1921-2022), della Kushner, della Joukovsky, di Cave, di Ménager, di Céard, della Mathieu-Castellani, della Fragonard e, in Italia, di Giovanni Macchia, Franco Simone, Enea Balmàs, Lionello Sozzi, Mario Richter, Paolo Budini, Rosanna Gorris – non hanno sino ad ora corrisposto in Italia, disgraziatamente, troppe iniziative di traduzione, come dire, di qualità. Pazienza!
Fine primario di queste paginette – i cui limiti saranno ben presto notati ma, ci auguriamo, non stigmatizzati a priori da chi pratica professionalmente la filologia francese – è dunque far conoscere, di là dai rigorosi quanto generosi orizzonti accademici che ancora operano egregiamente in tal senso, qualche frammento di un patrimonio letterario che, a nostro avviso, include davvero un’infinità di tesori estetici ed etici.
L’esplorazione e la comprensione di tali testi, tuttavia, richiede, anzi pretende, la massima attenzione, una meditazione paziente, consapevole e matura, un rispetto vissuto, insomma, affatto alieno da quella prassi di lettura edonistico-degustativa cui alludevamo dianzi, applicando la quale troppo spesso liquidiamo malamente molti dei libri che, per avventura, per necessità o per desiderio, passano lenti o lesti sotto i nostri occhi.
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Notorio è che i lirici rinascimentali, manieristi e barocchi d’oltralpe e, più in generale, d’Europa raggiunsero esiti mirabili e memorabili allorquando si cimentarono nella poesia epica, erotica, elegiaca, bucolica e satirica; questa evidenza, crediamo, non dovrebbe però indurci a collocare in secondo piano (o addirittura ai margini) la lirica d’ispirazione etico-spirituale.
In verità, il fatto che, almeno in Francia, tutti quanti gli autori (forse) più interessanti abbiano affrontato in più riprese, abbiano percorso e ripercorso – sebbene per motivi e con trasporti diversi, come del resto ognora avviene – idee e problemi di ordine strettamente morale e religioso ci sembra rivelare, piuttosto che una mera, compiacente ottemperanza a mode e costumi dell’epoca, preoccupazioni etico-spirituali assai diffuse e, in molti casi, passioni e ossessioni brucianti, inquietudini e angosce decisive quanto gravi. Come che sia, «i fatti e i dati oggi in nostro possesso – ha sottolineato con energia un filologo severo quanto infaticabile, Gérard Defaux (1937-2004) – ci permettono di meglio comprendere che è assolutamente impossibile studiare la letteratura del sedicesimo secolo come un oggetto puro, isolato dal suo contesto teologico e storico».
Invero, il sedicesimo secolo – come hanno oramai mostrato diverse generazioni di storici della cultura, delle lettere e del pensiero – fu in Europa un periodo oltremodo complesso e travagliato in cui, fra l’altro, l’intolleranza era pressoché ovunque regola spietata, e i valori della dignità umana, della pace e della libertà di coscienza riuscirono a trionfare solo sporadicamente, solo dopo molte lacrime e molto sangue. Gli eccessi e i soprusi dei Riformati, gli obbrobri e i vincoli disumani voluti dalla Controriforma, le interminabili, fratricide Guerre di Religione ed altre raggelanti sventure non meno aspre funestarono e dilacerarono orrendamente un’Europa che si avviava con fatica verso la modernità, spesso soffocando per l’appunto la libera espressione del pensiero, della sensibilità e, in specie, della fede.
In Francia, la personalità vivace e poderosa di Francesco I, monarca assai attento a quelle lettere e arti che coltivava anch’egli en amateur (amava sino alla venerazione, fra l’altro, il Canzoniere e il suo già mitizzato autore), attuò una politica ambigua ed incerta nei confronti di quanti, allontanatisi dalle dottrine imposte da Roma e dalla Sorbona, mostravano decise simpatie per la riforma luterana e, più in generale, per ogni forma alternativa di Cristianesimo che, aspirando al recupero effettivo della spiritualità delle origini, finiva sovente per elaborare e diffondere critiche tanto fondate quanto temerarie all’ortodossia cattolica.
Vicini all’evangelismo di Lefèvre d’Etaples – dotto filosofo e teologo nemico delle tradizioni esegetiche medievali, obbligato dalla Sorbona, che aveva fra l’altro condannato alle fiamme la sua versione in volgare della Bibbia, a prendere la via dell’esilio – ed alla generosa e coraggiosa Margherita di Navarra – che, anch’essa in odore di eresia, mai cessò di tendere a un Cristianesimo lato sensu insieme paolino e giovanneo –, gli scrittori spiritualmente più engagés del primo Cinquecento desideravano ardentemente una decisa emendazione dei costumi ecclesiastici (come negare, trascurare o ignorare l’immoralità scandalosa e deprecabile raggiunta allora dal clero?), un ritorno alla vera religio degli apostoli e dei primi Padri e la possibilità di schiudere anche al popolo, rimasto fino a quel momento nelle tenebre dell’ignoranza, le luminose meraviglie di un evangelo agli antipodi delle empietà che una certa Chiesa corrotta e gaudente continuava a praticare, delle “menzogne” che non cessava imperiosa d’inculcare.
Se, in un primo tempo, Francesco si mostrò piuttosto tollerante verso tali cristiani eterodossi, per loro fortuna assai cari a sua sorella Margherita (che sempre si sforzò di mantenere un equilibrio forse impossibile fra “eretici” e potere), dopo la celebre, famigerata affaire des Placards (1534), reagì con violenza davvero inusitata, assecondando in toto le brame vessatorie cattoliche e perseguitando con torture e roghi implacabili ogni forma di devianza o di ribellione.
Mentre personaggi come Louis Berquin, Etienne Dolet o Michele Serveto persero la vita divorati da fiamme integraliste, altri, come Marot, Rabelais, Bonaventure Des Périers, Eustorg de Beaulieu e lo stesso Calvino, riuscirono a salvarsi con la fuga o l’abiura. Tali laghi di sangue, tali violenze studiate e capillari, tali aberranti episodi d’intolleranza non furono peraltro che il lugubre preludio di quelle terribili Guerre di religione che costituiscono senz’altro una delle pagine più drammatiche e disperanti della storia europea, nonché un monito eloquente contro ogni eclissi della ragione. Durante più di trent’anni (1562-93), esse provocarono tutti quanti gli effetti che sempre caratterizzano i conflitti più gravi e prolungati: migliaia e migliaia di morti, pestilenze tremende, crisi economiche e carestie senza fine, mostruosità a profusione, inevitabili decadenze morali, graduale indebolimento delle fedi.
Uno dei modi migliori per farsi un’idea un poco più precisa e vicina alla realtà effettuale delle miserie e delle follie di quel tempo insanguinato è, presumibilmente, leggere adagio i versi commossi, angosciati e talvolta truculenti dei Tragiques di Agrippa d’Aubigné, umanista e poeta-soldato calvinista di forte, perturbato sentire e generosa umanità, cui abbiamo riservato ampio spazio nella nostra antologia.
Se è innegabile che la tensione etico-spirituale raggiunge l’acme nella seconda metà del secolo, è altrettanto vero, come s’accennava, ch’essa si percepisce in tutta la poesia religiosa cinquecentesca: basti pensare agli accenti schietti, fondi, toccanti con cui Margherita di Navarra si rivolge al Creatore per lodare la Sua sapienza ed il Suo infinito amore, per implorare il perdono dei propri peccati di creatura decaduta e carnale oppure per chiedere il Suo potente ausilio nelle tante difficoltà che la vita, in un mondo astutamente governato dal Malvagio, le impone.
Si possono menzionare, ancora, i versi più pungenti e disvelanti di Clément Marot, poeta prossimo alla Riforma e all’evangelismo che ottiene risultati convincenti tanto in composizioni lievi, burlesche e spensierate quanto nelle sue liriche più impegnate in senso evangelico: il clero opulento, ignorante e degradato (e perfino il Papa…) vi sono messi sarcasticamente alla berlina. Questo geniale discepolo dei Grands Rhétoriqueurs, pur non avendone la cultura, possiede l’animus dell’autentico umanista.
Coscienza cristiana cara – non per caso – a Margherita di Navarra e al suo vivido milieu, egli è indubbiamente poeta fra i più originali e simpatici del secolo, ed ha, fra l’altro, il merito d’introdurre in Francia il sonetto e lo strambotto. Nei suoi versi, mai banali o noiosi, Marot vuol cantare tanto l’aristocrazia quanto la gente comune, tra gioie e dolori, splendori e miserie, ideali e derisioni, amore della vita e desiderio della morte, l’unica a poter donare la libertà dai travagli di un’esistenza sempre e comunque imperfetta e miserabile.
Smantellando il luogo comune di un Marot lieve, spiritoso e frivolo, diversi studiosi di fama hanno insistito soprattutto – e da parecchi decenni – sull’importanza decisiva dell’elemento spirituale nella maggior parte della sua varia ed ampia produzione. Oltre a cinquanta Salmi, Virgilio, Ovidio, Erasmo e altri auctores, Marot traduce felicemente, negli anni trenta, la “canzone delle visioni” e sei sonetti di Petrarca, che reputa senza ambagi maestro d’amore, di vita e di stile. Solo nel 1555 verrà pubblicata – guarda caso ad Avignone! – la versione di Toutes les oeuvres vulgaires de François Pétrarque compiuta da Vasquin Philieul di Carpentras.
Dell’abbondante “rimeria” degli epigoni di Marot, si possono ricordare le satire un poco ingenue e grossolane, ma non di rado penetranti, di Eustorg de Beaulieu, cattolico insubordinato che, rifugiatosi nella città-chiesa di Calvino, vi divenne pastore: egli rappresenta con risentita energia le cadute, le incoerenze, le carenze e le meschinità che macchiano non solo i cattolici, ma pure i protestanti. Questo stesso autore compose altresì poesie penitenziali in cui confessa contrito al Supremo gli errori della sua carne ribelle, pentendosi e implorando umilmente perdono.
Il tema della lotta interiore contro la carne (per riprendere la fortunata e tuttora problematica metafora paolina), ovvero contro quell’imperfezione inestirpabile e inesorabile, in questa vita, derivante dal peccato adamico che, naturaliter avversa alle vere e vivificanti parole del «Padre, creatore della luce, presso il quale non c’è variazione né ombra di cambiamento» (Lettera di Giacomo 1, 17), ostacola dannatamente ogni slancio, ogni proposito virtuoso dello spirito, è riscontrabile nella produzione di tutti i grandi autori del Seizième Siècle, nonché in quella dei cosiddetti minores che si cimentarono in generi lato sensu religiosi.
Prescindendo dalla Pléiade e dai poeti ad essa vicini, dei quali discorreremo in seguito, la totalità dei lirici che operarono nella seconda metà e alla fine del secolo scrisse versi addolorati intorno al topos del combattimento spirituale, il cui stile spezzato, contratto e affannoso pare testimoniare anch’esso una condizione psicologica turbata ed estrema.
Tanto cattolici come Desportes, La Ceppède o Chassignet quanto protestanti quali D’Aubigné, Du Bartas, Sponde o Goulart condividevano, fra l’altro, una conoscenza approfondita della poesia “profana”, che avevano coltivato negli anni giovanili, seguendo le orme gloriose di Ronsard, alla cui influenza, a dirla giusta, nessuno poté sottrarsi: si scagliano con rabbia, anzitutto, contro quella parte della loro interiorità che, cupida e incontenibile, rifiuta di sottoporsi alle leggi di Dio, e li spinge potentemente ad immergersi nelle voluttà materiali, a violare ogni razionalità, ogni equilibrio, ogni misura.
Incapaci – al pari, del resto, di ogni altro membro della stirpe adamica – di annientarne una volta per tutte la foga ferina, sono costretti a combatterla senza tregua. Tuttavia, nonostante gli sforzi decisi, il loro spirito cede sovente alla carne, non riuscendo a trattenere l’anima dai gorghi del peccato. Non possono allora, dilaniati dai rimorsi di una coscienza severa, fare a meno d’implorare la misericordia divina, gridando al Supremo che la malvagità e la fragilità proprie della natura umana non li hanno certo abbandonati, e che queste intime furie impediscono loro di vivere all’altezza degli ideali che professano, proclamano e difendono.
Quantunque certi di essere parte del “gregge di Dio” (ovvero dei suoi “unti”, dei suoi “eletti”), benché sicuri che il sangue di Cristo è stato sparso per loro e per loro soltanto, i calvinisti soffrono quanto e più dei cattolici per l’aspra insufficienza della loro condotta, e domandano insistentemente – in toni sempre umili e spesso concitati – il perdono delle loro mancanze.
In taluni frangenti estremi, poi, tutti questi cristiani pregano Iddio di liberarli dalle pesanti catene di una vita terrena “falsa e bugiarda”, che reca soltanto mali e dolori fisici e spirituali, e di condurli, attraverso una morte sospirata e benefica, al vivere autentico, giusto, puro e svincolato appunto dalle sozzure vischiose, dall’insostenibile opacità di una carne dannata.
Sforzi agonistici per vincere passioni tutt’altro che nobili si possono ravvisare, inoltre, nelle rime amorose ispirate al neoplatonismo cristiano introdotto da Marsilio Ficino – un protagonista assoluto del Rinascimento europeo, sul cui influsso affatto straordinario non s’insisterà mai abbastanza –, di Giovanni Pico della Mirandola e di Leone Ebreo, e quindi del Bembo degli Asolani, del Castiglione del Cortegiano e di altri valenti autori di “trattati d’amore” che svilupparono, variarono e (talvolta) tradirono idee, temi e motivi perlopiù ficiniani.
«Il petrarchismo – ha chiarito da par suo Ménager (1997), considerando nella sua globalità tale sconfinato e labirintico fenomeno culturale, che qui più che mai c’intriga – deriva in parte dall’amor cortese, ma è un amore più intenso, teso, tragico; la sua espressione è ancor più raffinata, sottile, preziosa. Esso si rivolge, talora, a un’amata immaginaria, sicché la poesia d’amore rischia di divenire un gioco brillante, ma superficiale. Il vero rinnovamento nell’ispirazione amorosa viene da Platone, commentato da Marsilio Ficino. Con lui l’amore si colora di tinte nettamente mistiche».
Il filologo cita quindi un passaggio incisivo e illuminante, tolto da un piccolo-grande libro giovanile di Jean Festugière (La philosophie de l’amour de Marsile Ficin et son influence sur la littérature française au XVIe siècle) a noi assai caro, che ci piace trascrivere: «Alle vecchie formule, egli [Ficino] dà un senso profondo: dell’amore già purificato e raffinato della tradizione medioevale, egli fa quel sentimento mistico e religioso che anima, alle volte, un Heroët, un Scève, un Du Bellay».
E difatti, nei testi e nei canzonieri più fedeli alle fiamme e ai bagliori amorosi del neoplatonismo fiorentino, l’amante descrive la contemplazione delle bellezze esteriori ed interiori della donna diletta come i primi stadi di un mirifico, ineffabile itinerarium mentis in Deum, come i primi gradini di una splendida scala Amoris che lo innalza, gradualmente, fino alla somma Beltà celeste, alla Divinità. Così, in questi percorsi ascendenti, ai lacci, alle catene ed al fango, alle eccitazioni, alle irragionevolezze ed ai tormenti caratteristici di un’istintualità disordinata, confusa e legibus soluta, si giustappongono immagini e condizioni psicologiche nitide, trasparenti, luminose, armoniche, soavemente composte e divinamente calme, tratte perlopiù dai trattati neoplatonici, ermetici e cabalistici cui s’accennava, che tanta fortuna ebbero nell’Europa del Cinquecento.
Sebbene Rabelais, Montaigne, Ronsard (che, peraltro, sembra aver sempre nutrito stima e attrazione verso molte delle eredità platoniche più persuasive e feconde) e diversi altri scrittori abbiano criticato in più riprese – e in maniera anche aspra e beffarda – un neoplatonismo che giudicavano privo di naturalezza, realismo, senso di concretezza, e che de facto divenne, dalla seconda metà del secolo in poi, una sorta di moda letteraria (salvo eccezioni), siamo convinti – con Schmidt, Febvre, Gadoffre e altri fini esegeti contemporanei – che “anime filosofiche”, sottili e delicate come Margherita di Navarra, Maurice Scève, Pontus de Tyard e Joachim Du Bellay abbiano abbracciato toto pectore una concezione dell’amore insieme esigente e gentile che, al di là di tutto, contribuì notevolmente – come notò già Croce – al raffinamento di modi e costumi ancor gravati, per taluni aspetti, da rozzezza, trivialità, violenza.
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Davvero arduo ci sembra confutare quanto perentoriamente affermato da Jean-Luc Nardone nel suo Pétrarque et le pétrarquisme (1998) circa il prestigio e il peso del grande aretino nella Francia del Cinquecento:
Di tutti i paesi d’Europa è senz’altro la Francia, per la sua prossimità geografica, per le sue guerre peninsulari, per la curiositas dei suoi umanisti e per l’accoglienza a Corte di molti Italiani, ad esser la più sensibile all’influenza italiana. E la Francia del sedicesimo secolo consacra lo sviluppo fecondo del petrarchismo francese attraverso l’esplorazione e l’imitazione dell’autore del Canzoniere.
Nel 1533, il lionese Maurice Scève, mentre studia diritto ad Avignone, crede di scoprire il sepolcro di Laura nella cappella della famiglia Sade: il fatto colpisce, è naturale, numerosi intellettuali europei, e anche questo viene a far parte del culto petrarchesco. In realtà, la sua opera principale – un canzoniere intitolato Délie, object de plus haulte vertu – sceglie la strada di uno stile complesso e, talvolta, oscuro: in 449 dizains (componimenti di dieci decasillabi, ch’egli sa plasmare con rara maestria, infondendovi profondità e intensità ancora sorprendenti), egli narra neoplatonicamente la storia della sua anima di malinconico rinascimentale: si tratta di un’autentica iniziazione etico-spirituale che, mai dimentica della tradizione lirica antica e moderna (Petrarca e i petrarchisti italiani, certo, ma anche la Bibbia, molti classici d’Atene e di Roma, e i trovatori, e il diletto Dante…), va dalla passione totalizzante per una donna bellissima al raggiungimento delle supreme virtù, passando per molti timori e molte gioie, per mille delusioni e altrettante speranze.
In verità, la Délie (1544) resta da secoli la sua opera più originale e fortunata: il poeta-filosofo vi canta le gioie e, soprattutto, le sofferenze del suo amore per una donna (probabilmente la poetessa Pernette du Guillet, sua discepola e casta amica) la quale, pur spingendolo a innalzarsi a trasparenze metafisiche, all’immortalità ed alla più vera e piena letizia, non viene tuttavia raffigurata come un mero mezzo, come una sorta di via indispensabile per giungere all’Idea, e non perde così la sua realtà effettiva di creatura a tutto tondo, capace di rallegrare, irritare ed affliggere. E pure il lettore postmoderno può venire colpito dall’abilità insieme lucida, perspicace e accorata con cui Scève analizza i propri stati psicologici nei diversi momenti di questa sua esperienza determinante, nel divenire di un’avventura esistenziale rivelatrice nel corso della quale la luce si fa sempre più fulgida.
Quanto alle altre sue opere, mentre nella Saulsaye contrappone gli affanni mondani alla felicità del solitario, nel Microcosme – un poema filosofico-didascalico in tre libri assai caro, tra gli altri, a Valéry Larbaud – ripercorre i progressi che l’umanità ha compiuto, dopo la caduta di Adamo, per signoreggiare la natura.
Fra i suoi discepoli vanno in primis ricordate due donne: Pernette du Guillet, legata sentimentalmente a Scève ed autrice di Rymes pregevoli e dense di pensiero, e Louise Labé, le cui liriche (una delle quali, non per caso, è composta in italiano) danno invece prevalentemente espressione a una schietta e fremente sensualità; e va ricordato che, da Sainte-Beuve a Rilke, da Gide a Tomasi di Lampedusa, il canzoniere di quest’ultima – smilzo (tre elegie e ventiquattro sonetti) quanto vivido – ha ottenuto numerosi consensi autorevoli in età contemporanea. Introducendo i sonetti della “belle cordière”, Albert-Marie Schmidt (1901-1966) ha steso considerazioni davvero persuasive e, a nostro avviso, insuperate, ove campeggia quella sua perspicacia sottile e preziosa che non sfuggì a François Mauriac e a Raymond Queneau:
Seguace del Petrarca, ella cerca di non sottomettersi a lui servilmente. Della sua lectio conserva, nondimeno, un gusto per le antitesi – o piuttosto per le antilogie – che potrebbe incitarla alle acrobazie di un faticoso virtuosismo, se non l’aiutasse ad enumerare con pertinenza tutte le contraddizioni della sua persona. Nel suo caso il petrarchismo, anziché dar luogo a una sorta di sofistica, garantisce le confessioni di una minuziosa sincerità femminile – ma non effemminata.
Umanista, traduttore e poeta erotico, elegiaco e scientifico-didascalico, Maurice Scève fu, insieme con Pontus de Tyard, la personalità più interessante ed eclettica del fervido milieu culturale di Lione; in Tyard, poeta e pensatore di rilevanza tutt’altro che marginale, si vede solitamente una sorta di trait d’union fra la vivace atmosfera di Lione e la non meno vitale Parigi dei Collegi, ove si formarono molti dei massimi lirici del secolo.
Risaputo è, d’alto canto, che tutti gli scrittori cinquecenteschi lessero con devozione appassionata non solo la Bibbia, ma anche quei classici greci e latini che gli umanisti italiani per primi avevano scoperto o (più spesso) riletto con spirito nuovo ed acribia filologica meticolosa. In essi, oltre che nei capolavori italiani più diffusi (in primis i “frammenti dell’anima” di Francesco Petrarca, ma pure il Decameron e il Cortegiano), trovarono non solo preziosi modelli stilistici da imitare con originalità, stimoli potenti per la loro creatività esuberante, ma anche quelle lezioni civili e morali, quei valori sommi e sempiterni che rielaborarono e reinventarono nelle loro composizioni: Platone, Plotino, Cicerone, Sallustio, Livio, Seneca, Epitteto, Tacito, e, tra le voci poetiche, Pindaro, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano rappresentarono senza dubbio momenti efficacissimi per la riflessione e l’arricchimento interiore.
Tuttavia, se Margherita di Navarra poteva dedicare ai libri solo il tempo che le molte pressanti incombenze le concedevano, se Clément Marot ebbe una formazione piuttosto fragile e disordinata, che le svariate esperienze culturali da lui compiute non riuscirono a consolidare al punto di farne un umanista “canonico”, se Agrippa d’Aubigné, sbalzato ancor bambino sui campi di battaglia, mai possedette, a dire il vero, una cultura completa e consolidata, è noto invece che gli scrittori riunitisi intorno alla carismatica, straordinaria figura di Pierre de Ronsard, grazie soprattutto alla guida sapiente di ottimi umanisti di respiro enciclopedico, si cimentarono con serietà, metodo e disciplina nello studio delle lingue classiche, e dialogarono quotidianamente con i maggiori poeti, storici, filosofi e oratori della classicità.
Cantore poliedrico e davvero ispirato, cultore erudito e instancabile degli auctores che sentiva più vicini al suo carattere alquanto irrequieto, pensatore che, oltre a conoscere le discipline tradizionali, si orientava egregiamente anche fra gli arcani dell’occulto, individualità complessa la cui cospicua opera racchiude, di fatto, la globalità dei temi, delle problematiche e delle angosce del suo tempo, Pierre de Ronsard animò e vivificò un cenacolo letterario formato dai più brillanti fra i suoi compagni di studi del Collegio di Coqueret e dai migliori talenti del Collegio di Boncourt.
Da tale fecondissimo milieu intellettuale ed artistico, che fu certamente il più importante nella civiltà letteraria della Renaissance, nacque la Pléiade, gruppo di sette “astri poetici” che prendeva il nome da quello – allora celebre, celebrato e rivestito di un’aura mitica – di cui avevano fatto parte, nell’Alessandria dei Tolomei, inter alios, Teocrito, Arato e Apollonio.
Comunque è Joachim Du Bellay, fraterno amico di Ronsard e scrittore de race, a stendere il fervido e, per certi aspetti, bellicoso manifesto della Pléiade (l’ancor famosissima Deffence et Illustration de la Langue Françoyse), ove s’insiste specialmente sulla necessità di poetare nella propria lingua, seguendo le orme sicure dei classici di Atene e di Roma, nonché d’illustri italiani quali Petrarca, Pontano, Sannazaro, Bembo (naturalmente), Alamanni e pochi altri. Nondimeno, sarà proprio lui ad affermare, qualche anno dopo, di volersi affrancare dalle consuetudini cristallizzate del petrarchismo, onde interpretare più liberamente la vita dei sentimenti.
Dopo l’Olive, un’elegante e aristocratica raccolta di sonetti fedeli al miglior platonismo petrarchistista – si tratta, per la precisione, del primo canzoniere francese composto esclusivamente di sonetti – data alle stampe nel 1549 (ma decisiva, come risaputo, è l’edizione uscita nell’anno successivo), eccolo allora scrivere altri libri di liriche, i cui temi principali sono la comparazione fra la grandezza della Roma imperiale e le miserie di quella cinquecentesca, la satira di un mondo moralmente degradato, l’amore per la sobria semplicità della vita dei campi, l’aspirazione ad un Cristianesimo che, in conformità con le tradizioni gallicane, fosse alieno tanto dalla corruzione ecclesiastica quanto dai rigori dei calvinisti, che stimava viziati da fanatismi e ipocrisie. Le effusioni liriche, talora venate di toccante malinconia, si alternano o si fondono con impietose sferzate ironiche.
Ma, ritornando un istante sul canzoniere petrarchista del poeta angioino, sarebbe certo azzardato sottovalutarne il valore paradigmatico, nonché iniquo trascurarne – come qualcuno ha fatto – l’elaborata freschezza, le iridescenze filosofiche e teologiche, la felicità lirica. Ci vengono qui in aiuto taluni limpidi ragguagli egregiamente didascalici (1996) di Anna Bettoni:
L’Olive è il risultato […] di un labor poetico che si basa su una ricca cultura di umanista, usufruisce dei procedimenti della retorica classica e pratica l’imitazione delle fonti prescelte: i classici e Petrarca, ma anche Bembo, Ariosto e i sonetti petrarchisti raccolti in due celebri antologie veneziane, le Rime diverse di molti eccellentissimi auttori (1545) e le Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti (1547). Detto in altri termini, L’Olive è il frutto degli studi condotti da Du Bellay sotto la guida dell’umanista e italianista Jean Dorat, nonché la realizzazione di quella volontà di rinnovamento poetico che Du Bellay condivideva con compagni di studio e di ricerca quali Jean-Antoine de Baïf e Ronsard.
Oltre al grande Ronsard, che fu ben presto unanimemente riconosciuto il “principe” della “scuola”, e a Du Bellay, dei poeti della Pléiade conviene qui menzionare il già citato Tyard, Jean-Antoine de Baïf, Rémy Belleau, Etienne Jodelle e – non certo da ultimo! – Jean Dorat, l’illustre filologo che aveva svelato ai giovani del Coqueret tantissime meraviglie letterarie dell’antichità. Giova comunque ricordare che i componenti “ufficiali” del gruppo dei sette, per diversi motivi (decessi, allontanamenti et similia), variarono sensibilmente nel corso del tempo.
Declama Ronsard nell’ampia, impegnata e impegnativa Ode à Michel de L’Hospital, che suona come una sorta di manifesto, secondo cui le Muse, figlie di Giove e di Mnemosine, donano l’ispirazione autentica esclusivamente ai poeti dal cuore puro e virtuoso. Invero, il baldanzoso vendômois congetturava con ogni probabilità che, come in passato esse avevano riempito del loro furor divino cantori del respiro di Orfeo, Omero, Pindaro o Virgilio, non diversamente ora lo elargissero ai poeti-umanisti francesi, dotati di spirito, dottrina e ingegno incliti, fondi, inediti tout court.
Tale concezione elitaria e orgogliosa dell’arte spinse Ronsard, Du Bellay e i loro letteratissimi amici ad affrontare con animoso entusiasmo materie elevate e impegnative (celebrazioni di grandi personaggi, precetti e consigli al princeps christianus, descrizione dei fenomeni e dei misteri della natura, esplicazione di nodi della morale e della fede, lamenti sulle ingiustizie, le assurdità e le miserie della guerra, etc.), mettendo a profitto quelle idee, storie e risorse stilistiche che avevano ricercato, con pazienza non priva d’amore, nei libri di un’antichità inesauribile.
Così Ronsard rappresenta le perfette virtù del Messia, gli splendori (e i dolori) della sapienza greco-romana e la centralità di valori quali la pace, l’ordine e l’armonia; Du Bellay delinea efficacemente il trionfo della cultura sull’ignoranza; Belleau i duri tormenti di Giobbe e la vanità delle cose umane; Tyard la vittoria sulle fosche, brutali passioni ottenuta da una ragione vieppiù illuminata da un platonismo intriso di Cristianesimo squisitamente neoplatonico; Baïf il valore della saggezza dei popoli e la misericordia ineffabile di un Dio che non tarda a soccorrere quanti confidano in lui.
Tutti assai sensibili alle questioni religiose tanto vive nel secolo, ma alieni dalla dottrina della predestinazione e dalle posizioni più pessimistiche del calvinismo, che si ritrovano invece nelle composizioni dei poeti ugonotti, i dotti cantori appartenenti o vicini alla Pléiade reputavano che la natura umana non fosse stata del tutto corrotta, ma soltanto ferita dal peccato originale, e che non solo un numero prefissato e invariabile di “eletti”, ma ogni uomo disposto a conformare la mente e il cuore ai voleri di Dio potesse beneficiare del riscatto di Cristo e, di conseguenza, essere approvato e salvato.
Nonostante queste ed altre cospicue differenze teologiche, come prima accennato e come ben dimostrato da Cave (1939-) già negli anni Sessanta, fra i componimenti dei cattolici e quelli dei protestanti si riscontrano numerose tematiche comuni o affini.
Tali convergenze si verificano non solo perché gli intellettuali di entrambi gli schieramenti (e partiti) attingevano alle medesime fonti antiche e medioevali (in primis la Bibbia, i classici pagani, la patristica latina e greca e la miglior scolastica), ma soprattutto per il fatto che la totalità di queste anime cristiane – ce lo ha mostrato superbamente Jean Delumeau (1923-2020) in diversi volumi imprescindibili – condivideva le medesime ansie ed angosce etico-spirituali (consapevolezza della propria immane miseria, paura del peccato e di un Dio nei confronti del quale si sentivano eternamente in debito). Frattanto Mario Richter (1935-) ha compiuto, a questo riguardo, una scoperta importante ed eloquente: il cattolicissimo poeta Jean-Baptiste Chassignet prese ispirazione, per parecchi sonetti spirituali della sua monumentale raccolta, dal Discours de la Vie et de la Mort di Philippe Du-Plessis-Mornay, politico, polemista, teologo e poeta all’epoca definito, a giusto titolo, “il Papa degli Ugonotti”.
Ma riprendendo ora i fili della nostra storia, ci pare indubbio che la figura di rilievo, forza e fascino maggiori della Pléiade – e forse del Rinascimento poetico d’oltralpe – rimane ancora per noi, lettori del Millennio successivo, Pierre de Ronsard, che è riuscito ad eccellere in (quasi) tutti i generi poetici. Dopo anni di studio accanito sotto l’abile guida del dottissimo Dorat (maestro, come si diceva, anche di Du Bellay e di Baïf), questo giovane di sicuro talento esordisce pubblicando Odes (1550) ad imitazione di Pindaro e di Orazio che, pur nel tratto geniale, manifestano i limiti di una poetica troppo elitaria e magniloquente, talvolta oscura e pedante, sempre altezzosa.
«Dopo aver sfidato il grande pubblico – ha ben asseverato nel suo ammirevole e utilissimo Ronsard (1960) Gilbert Gadoffre (1911-1995), con occhio attento a quegli elementi sociologici che chiunque non si accontenti di trite oleografie da compendio non può non giudicare imprescindibili –, Ronsard s’impegna per conquistarlo. Si volge così verso la forma letteraria che, da tempo, ha ottenuto i favori della Corte, il sonetto all’italiana, e due anni dopo la pubblicazione delle Odes, procede al lancio del primo libro delle Amours, che si è preoccupato di far accompagnare con un supplemento musicale. Egli non indulge affatto, peraltro, al “petit sonnet petrarquisé”, e sa conservare la sua altezza di tono quando è necessario».
In verità, nella sua lunga carriera di poeta di Corte, oltre a Hymnes fisici, metafisici e morali, intensi e vibranti Discours, delicate elegie, un ambizioso tentativo epico interrotto (la Franciade) ed altro ancora, Ronsard compone parecchie raccolte di poesie amorose (si tratta perlopiù di sonetti) intitolate Amours (1552-78), ove dipinge le bellezze e le virtù di donne vagheggiate e poi trasfigurate (l’inattingibile, quasi marmorea Cassandre Salviati, la dolcissima Marie Dupin, la dotta e algida Hélène de Surgères e altre donne mirabili) così come i moti infiniti del suo spirito irrequieto, ricreando in maniera via via più personale il linguaggio della tradizione petrarchista. Per la varietà, la ricchezza, la vivacità e l’originalità d’ispirazione, le Amours ronsardiane sono state da più parti considerate il più insigne monumento poetico del petrarchismo francese: quantunque allergici ad ogni tipo di classifica, ci è assai difficile non concordare.
Anch’essi forti di una solida cultura classica, Rémy Belleau e Antoine de Baïf illustrano degnamente il generoso programma della Pléiade: il primo dedica i suoi versi più vivi alla descrizione di quadri naturalistici, mentre il secondo pétrarquise con tenera eleganza, intavola riflessioni morali di un’intima e antica saggezza, con un interesse specialissimo ai rapporti fra poesia e musica. Autore della prima tragedia classica francese (la Cléopâtre captive, cui farà seguire una seconda: Didon se sacrifiant), Etienne Jodelle sa poi essere lirico dagli accenti oltremodo personali e drammatici, con un ardimento sconcertante che sembra sovente farsi beffe della tradizione di cui pur si nutre.
Non meno interessante, nella generazione successiva, appare tuttora Philippe Desportes, la cui forma limpida e squisita, che qualche studioso ha definito con ragione manieristica, diviene anche uno stile di corte, mentre egli, oltre a comporre poesie che si rifanno ai modi brillanti dei petrarchisti dell’Italia meridionale, traduce elegantemente i Salmi. Ma, per un bilancio attendibile sulla parabola creativa di tale scaltritissimo “comprimario”, conviene cedere la parola a Verdun-Louis Saulnier (1917-1980), un altro studioso che ha lasciato coordinate di grande utilità per orientarsi nel folto e infido bosco del Cinquecento d’oltralpe: «Rinasce con lui [Desportes] il sonetto petrarchesco; si ritorna al 1550. Panfilo Sasso, Tebaldeo, l’antologia di Dolce sono i suoi modelli, spesso tradotti fedelmente. E, a partire dal 1579, i moderni: Di Costanzo, Rota, Tansillo. Prezioso, affettato, spiritoso, il suo stile piacque per i frizzi, la chiarezza, la grazia un poco effeminata». Anche Jean Bertaud è fine ed eloquente poeta di corte: nelle sue liriche d’amore segue da vicino, ma non senza un’apprezzabile rielaborazione personale e una consapevolezza stilistica rara, le esperienze letterarie di Ronsard e di Desportes.
Ma passando ora alla schiera degli scrittori riformati, tra i poeti ugonotti che accolgono le istanze del petrarchismo troviamo Agrippa d’Aubigné e Guillaume de Salluste Du Bartas, entrambi oramai prossimi alla temperie frenetica e amara del barocco.
Nelle sue monumentali Sepmaines, Du Bartas, alla ricerca di un tono solenne e maestoso per affrescare degnamente le storie della creazione e del genere umano, s’ispira tuttavia ben più ai Trionfi che non al Canzoniere, che pur conosce bene.
Egli vuol cantare – ha sintetizzato con acuta perspicuità Macchia (1987) – su una corda sola, ma dalle più vaste risonanze. Questa unità d’ispirazione era già un passo verso la restaurazione del concetto di poesia, prostituita dai facili poeti di corte, portati a mutar tema e metro, secondo commissione. La sua strada non era né quella di dei poeti della Pléiade né quella di Desportes. I suoi attacchi alla poesia di Desportes sono riconoscibili. Il suo “petrarchismo” (se così vogliamo chiamarlo) non aveva nulla a che fare con il petrarchismo di Desportes. Si rifaceva ai Trionfi, non al Canzoniere.
Agrippa d’Aubigné, che ha conosciuto ancor fanciullo gli orrori e le miserie delle Guerre di Religione, mostra invece sin dal giovanile Printemps – una raccolta di sonetti, stanze e odi d’argomento in prevalenza amoroso – di possedere quella sensibilità melanconica, perturbata e talora violenta che poi esprimerà pienamente nei Tragiques, la sua drammatica, “espressionistica” epopea protestante, fatta di lacrime amare e fiumi di sangue, di foschi intrighi politici e indicibili violenze religiose, di amori esasperati e odi ferocissimi, nonché – costantemente – di ardenti aspirazioni metafisiche ed escatologiche.
Nelle poesie erotiche è comunque assai forte l’elemento letterario: oltre che dal cantore di Laura e dai suoi emuli italiani e francesi più ortodossi, l’ugonotto trae ispirazione dalle Desperades di François d’Amboise, lo scrittore che ha introdotto in Francia la “disperata”, un tipo di componimento in cui l’innamorato non corrisposto (o tradito) dichiara con accenti risentiti ed estremi le proprie delusioni e le proprie angosce. «Questi sonetti – come ha illustrato (2000) un raffinato francesista bolognese, Paolo Budini (1920-2019) – riprendono i temi dei canzonieri amorosi di Du Bellay e di Ronsard senza la stretta obbedienza alla forma metrica canonica, il velo obbligato dei miti pagani; non più in forme classicamente evidenti e lineari, ma in forme contorte e gridate, irte di immagini violente e drammatiche. Là dove Ronsard – aggiunge quindi con notevole perspicacia comparativa – coglieva quasi paganamente il tempo umano fuggitivo, o constatava stoicamente, nei suoi ultimi versi, l’approssimarsi della fine del ciclo vitale, D’Aubigné aspira all’eternità fuori dal tempo e dal mondo; se Ronsard sembrava perlopiù tendere all’immortalità del lauro mondano, D’Aubigné anela all’immortalità dei giusti presso Dio».
Non meno irrequieta si presenta l’avventura culturale, spirituale ed esistenziale tout court di Jean de Sponde, umanista e poeta calvinista che, nel fatidico 1593, decide – non per biechi motivi opportunistici, con ogni probabilità – di ritornare nel seno della Chiesa di Roma. Le poche sue liriche religiose, piccoli capolavori in cui tratteggia con forza caravaggesca le proprie dilaceranti lotte intime (inobliabili le stanze e i sonetti sulla Morte), sono state autorevolmente definite barocche e, soprattutto, paragonate con argomenti plausibili a quelle dei grandi metafisici inglesi.
Tali vertiginosi versi spirituali costituiscono la “conclusione necessaria” – per dirla di nuovo con Giovanni Macchia, che allo scrittore ha consacrato uno dei suoi saggi forse più belli e sodi, Il dramma di Sponde (1965) – della sua non certo abbondante produzione erotica, quasi ossessivamente incentrata sul sentimento della costanza, «ché una poesia amorosa come la sua, il cui vago petrarchismo non si affidava alla memoria poetica, e respingeva il “senso” e ogni contaminazione del tempo, cioè la vita stessa del nostro passato che attraverso l’amore si risveglia, e ogni trasformazione provocata dall’oblio, questa poesia amorosa doveva cercare altrove, addirittura nell’assoluto, la sua soluzione».
Va infine ricordato che, non molti anni dopo, l’arcigna, stizzosa, radicale riforma della poesia francese compiuta da François de Malherbe si oppose radicalmente alla formidabile libertà immaginativa e lessicale dei suoi predecessori rinascimentali. Questo normanno freddo e freddoloso propugnò e difese a spada tratta, come risaputo, la semplicità, la chiarezza, il rigore grammaticale e metrico più ferreo, nonché un lessico essenziale, depurato, vigilatissimo: fu, in una parola, il maestro severo e inflessibile di quel classicismo secentesco che, semplificato ed appiattito ad usum delphini, rappresenta ancor oggi l’aspetto più vulgato – nel bene e nel male, s’intende – della letteratura di Francia.
D.M.
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Nella Lettera ai Cahiers du Sud sulla responsabilità della letteratura (1941), Simone Weil, la cui finissima e, non di rado, vertiginosamente tragica sensibilità etico-spirituale era stata attratta, fra il resto, dai versi infuocati e impetuosi dei Tragiques, espresse penetranti e artiglianti osservazioni sui rapporti fra etica e letteratura, che forse non sono ancora sfiorite:
Gli scrittori non han da essere professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E non vi è nulla di così essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in tutti i momenti, come il bene e il male. Quando la letteratura diventa per partito preso indifferente all’opposizione del bene e del male, tradisce la propria funzione e non può pretendere all’eccellenza. Da giovane Racine prendeva in giro i Giansenisti, ma non li prendeva più in giro scrivendo Phèdre, e Phèdre è il suo capolavoro.
Piuttosto che cimentarsi nelle arti vacue e sgradevoli del celebrare e del moralizzare (a vanvera), i migliori poeti francesi del Cinquecento ritrassero – spesse volte con una durezza e un disinganno che spronano a meditare – i dedali e gli abissi del bizzarro, incostante, imperfetto cuore umano, e le mille asperità di un vivere che, anche quando appare delizioso, può cogliere in ogni momento alla sprovvista; cantarono inoltre, con un trasporto senza tempo, la verità e la bellezza di valori che toccano tuttora ogni persona.
Per quanti amano leggere non solo per acquisire una necessaria (e talora appassionante) informazione storico-critica, o per anatomizzare le strutture dei testi, ma anche per essere alimentati e scossi nell’intimo, per sentirsi ristorati, medicati e fortificati dentro, pensiamo davvero che le migliori poesie di Du Bellay, nonché delle altre voci poetiche a lui contemporanee, pur presentando certe inevitabili eterogeneità di vario ordine, possano costituire, fra il resto, un incentivo virtuoso quanto incondizionato per intavolare un dialogo rinnovato con quell’io recondito che abita in noi, con quell’io la cui voce è purtroppo resa sovente, adesso, pressoché inavvertibile a causa del brusio molesto organato da una società vieppiù banale, ciarliera, maligna, senza lucida pietà.
Non si tarderà poi a constatare che tale poesia, oltre a raffinare l’humanitas del lettore, desidera altresì ragionare sull’Assoluto, cioè su una dimensione che – occorrerà ribadirlo? –, se vissuta e non recitata, impone di continuo interrogativi, ansie e angosce, finanche nelle realtà estreme e ardite dell’ateismo “ben temperato” o della bestemmia più tremenda. E certo non è casuale che l’impigrita coscienza postmoderna veda, senta, patisca il sacro sempre più di rado, e con fatiche sempre maggiori.
Come che sia, le liriche di una Francia assetata di Bellezza, Giustizia, Bontà e Verità – assai meglio di ponderosi trattati teologici, di complesse opere filosofiche ma, soprattutto, dei troppi catechismi interessati e delle innumerevoli panacee fasulle in circolazione – possono proporre alla nostra interiorità malmenata, dubbiosa e condannata a barbare confusioni diverse prospettive terapeutiche, forse illuminanti.
Pur mostrando con chiarezza i drammi più crudeli connaturati (pare) alla humana condicio, questi scrittori, oltre a fornire coordinate persuasive sul microcosmo affettivo, morale e spirituale di ogni singolo così come – quasi parallelamente – sul macrocosmo di tutti, non lasciano mai senza speranza, sempre prospettando vie di scampo ardue quanto avvincenti, che possono rivelarsi valide anche per sfuggire agli artigli delle infinite depressioni contemporanee – o liberarsene almeno in parte.
R.R. D.M.
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Note
- Steso insieme con Roberto Roversi (1923-2012) nel lontano 2004, il saggio è stato riveduto ab imis fundamentis per l’occasione. In sintesi estrema, ho lievemente aggiornato – per ovvie ragioni di natura anche giuridica – la prima e la terza parte, laddove ho riscritto la seconda, vergata peraltro ab origine esclusivamente da me; quanto infine alla bibliografia, è assolutamente inedita.
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