Bologna, una felicità possibile. Riflessioni a posteriori su tre guide atipiche
Federico Cinti, Bologna, una felicità possibile. Riflessioni a posteriori su tre guide atipiche, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 15, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10855
Un viaggio, una meta, una ripartenza: una città come Bologna è anche questo. Forse è soprattutto questo, sia per chi ci vive che per chi la visita. Ogni volta si scopre qualche cosa di nuovo, spinti da quella curiosità che muove ogni percorso di vita. Dal centro alle porte cittadine fino alle zone al di fuori, al di là, oltre. Dopo una prima escursione all’interno di un centro eccentrico, dopo una seconda lungo la soglia esotica delle porte e dei giardini, se ne fa possibile anche un’altra per cogliere una delle tante dimensioni di questa nostra sfuggente città che mi piace definire estatica, quasi fosse una visione che dal qui e ora porta al verde dei colli tutt’intorno e all’azzurro pallido d’un cielo che sovrasta ogni realtà, attraversando pezzi d’anima che amiamo chiamare quartieri.
Così, a un tratto, per rivelazione, l’io, il soggetto, diventa parte d’un tutto, tassello egli stesso d’un mosaico in continuo divenire, eppure ossessivamente stretto al proprio passato, antico o recente che sia non importa, in cui conoscersi è riconoscersi. Perché a Bologna tutto si fa possibile, pure un attimo di felicità, perché qui si ha l’impressione di esserci già stati, da sempre, come se si ritornasse a casa, nella propria famiglia, tra i vecchi amici di sempre.
Nelle mie tre guide dedicate a questo piccolo angolo di mondo, lo confesso, anch’io mi sono mosso non certo nelle vesti del depositario di una verità assoluta, bensì nell’abito di custode di una memoria condivisa nei ricordi personali, dei miei genitori, di chi mi ha preceduto nell’arduo esercizio di testimoniare. In tal modo, la mia voce non narra, ma dialoga con un tu, non semplicemente fittizio come nella diatriba cinica, bensì con un amico vero e reale con cui confrontarmi, passo passo. Una guida diventa quindi specchio d’un vissuto che sa di vita vera, simile ai racconti rubati o carpiti per sbaglio sotto i portici o in autobus, davanti a un negozietto in periferia o in qualche sperduto parcheggio. E il lettore si fa complice di un modo d’essere, di concepire i luoghi e gli spazi, vede sente e tocca gli angoli reconditi di cui nessuno parla, perché appartenenti a un privato che tende a farsi intimo.
Nulla sa né deve sapere di libresco, pur nella finzione letteraria. Mi sento riflesso negli altri, nell’identico modo in cui lo specchio si riflette in me senza saperlo, in un narcisismo inconsapevole. La città appartiene a tutti coloro che la agiscono, la percorrono, la vivono, anche se abitano altrove. Il mio amico fittizio lo sa, finge di tanto in tanto d’annuire col capo alle mie continue interlocuzioni. E io fingo di parlargli, mentre in realtà mi rivolgo ai miei lettori. Lo sa, certo, ne è consapevole: è pur sempre l’Ingegnere di tante mie allusioni, di tanti miei excursus, di tanti miei ricordi.
Nell’estasi di un mondo programmaticamente fuori porta non possono mancare una chiesa, raggio e diffrazione di cui ognuna delle zone individuate è intrisa. Silente nella interiore verticalità di ogni tempio, ogni istante accoglie il sorriso e il pianto di chi tra quelle mura secolari cerca un po’ di ricetto o di consolazione, un’illuminazione o una carezza. Un luogo di culto, come per qualcuno sono le bettole, le osterie e le trattorie: questo il motivo per cui non me la sono sentita di tralasciare, in questo percorso iniziatico, le soste enogastronomiche che tanto fanno Bologna nell’immaginario comune. In tal modo, tutto acquista odore e sapore, consistenza e colore, anche i ricordi proustianamente recuperati davanti alla maestà d’un piatto di tagliatelle al ragù, all’effluvio divino – o meglio di vino – di qualche bottiglia di nero stappata per l’occasione, all’avverarsi d’un sogno nella zuppa inglese o nella torta di riso. Infine, ho collocato i parchi, le aree verdi, che al di là della cinta muraria ormai inesistente, conservano il nome e la traccia di un tempo che, pur essendo inesorabilmente trascorso, s’ostina a resistere: ville, basi militari, depositi tramviari. In una realtà in continua, eterna metamorfosi, l’ombra del nome garantisce la sopravvivenza della propria identità.
In questo caleidoscopio così variegato e composito fanno capolino, a quando a quando, anche le voci di chi dà sostanza fonica all’intreccio di mondi diversamente impermeabili l’uno all’altro. Ogni spicchio urbano è rappresentato, idealmente, da un cantante che, per qualche motivo, ha lasciato la propria impronta anche fisica tra quelle vie, in mezzo a quelle case o nei locali più o meno tipici. Bologna è una città non solo da vivere, ma anche da ascoltare e riascoltare nella ricerca artistica di chi, dal dopoguerra in poi, ha costruito un modo di essere attraverso la musica e le parole, le immagini e i suoni.
Se nelle guide precedenti si era tratteggiato un ritratto di Mingardi e di Beppe Starnazza, in questo terzo episodio il personaggio si fa anima e corpo, si fa nome e cognome, diventa gloria che travalica i confini cittadini, pur restando per sempre espressione inequivocabile di Bologna. Intendo riferirmi a Lucio Dalla, che sempre s’incontrava sotto casa sua in via d’Azeglio o in piazza Maggiore; a Cesare Cremonini, che aleggiava da ragazzo – almeno così mi è stato raccontato – nei pressi dei Servi in via Begatto; a Gianni Morandi, che ha abitato a pochi metri da casa mia e che tutti facevano finta di non riconoscere per non disturbarlo troppo; allo Stato Sociale, che ama dissacrare col sorriso dell’ironia le piccole certezze di chi li ascolta; a Claudio Lolli, che è stato tanto tempo mio collega al liceo «Leonardo da Vinci» di Casalecchio, anche se poi gli avrò parlato due o tre volte in croce; e per chiudere al vate dell’Appennino, il poeta con la chitarra in spalla, Francesco Guccini.
Vezzi retorici a parte, in queste mie pennellate introduttive mi è sembrato efficace tenere per ultimo Guccini, e mi auguro me lo perdoni, non certo perché sia di poco rilievo in questo mio lavoro, bensì perché mi ha donato un suo scritto, una sorta di preludio virtuoso e virtuosistico alla sinfonia d’esperienze che ho cercato di rappresentare. Me ne aveva regalato uno, nella sua magnanimità, anche Andrea Mingardi per la guida eccentrica e così pure il simpaticissimo Stefano Bichecchi, in arte Vito, per quella esotica. Ora Francesco Guccini, anima della Cirenaica e di via Paolo Fabbri 43, mi onora della sua presenza, diviene personaggio di quel mondo di poeti, di folli e d’osterie che tante volte ha rappresentato nelle sue canzoni, nelle sue poesie, nei suoi romanzi. È il mio nume tutelare, il garante dell’autenticità e della genuinità del mio intento. Il suo ricordo di Bologna, di una città che forse non esiste più, fa da apripista ai tanti che si susseguono in queste pagine, ai miei che ritraggono ciò che non posso più vedere. Ricordi, memorie e sogni in fondo sono tutte proiezioni di un divenire in continua evoluzione. Il senso del mio scritto è poi questo, non perdere la percezione del transeunte per aggiungere al mosaico metropolitano un tassello di policroma semplicità.
Linguaggi che si fondono, tutto qui: una poesia in acrostico, che ritrae il luogo ed è unica e irripetibile. È il primo momento, la soglia su cui fermarsi e meditare prima d’addentrarsi nel fluire prosaico del punto dinamico che ci sfugge tra le mani. Anche la mia voce canta, anche la mia penna narra. Tutto concorre a divenire immagine, come le fotografie di chi mi ha accompagnato in quest’avventura: si è trattato di eternare l’attimo. Ci si è addentrati in zone cittadine forse mai sentite nemmeno nominare. Non si è svolto il solito compito, esercizio cui forse troppo spesso ci si sente chiamati: è una ricerca introspettiva, un’indagine dentro e fuori di sé, una ricerca che coinvolge e cambia. Forse è stato, in alcuni casi, pure un gioco, ma un gioco consapevole e studiatamente accorto.
L’impegno profuso ha comunque trasceso la mera consegna: il tempo si è dilatato fino all’estate, fino al tempo della vacanza, quando la città muta volto e voce. È la consapevolezza di creare e ricreare, attraverso la sola presenza e la sola azione, un mosaico unico, irripetibile. Il racconto, il ricordo, l’assolo poetico non avrebbe assunto la stessa efficacia senza questo lavoro, questa fatica divenuta parte viva d’un mondo, del mio mondo. Per questo, posso affermare che il frutto è stato abbondante e proficuo, oltreché di grande valore. Non era facile: in apparenza non vi era nulla di artistico, non vi erano monumenti né opere d’arte. L’unica indicazione era di ritrarre in uno scatto la vita di un qualche ritaglio di periferia a partire da uno dei miei versi. L’operazione è stata completata da una didascalia, asciutta e levigata come il linguaggio del tweet richiede. Ibridazione e fusione di espressione. Tutto qui.
A chiudere i percorsi il volto solitario della Basilica di San Luca, adagiato sul Colle della Guardia a un passo dalla cupola azzurra tutto intorno. Lassù, oltre il velo, torna costantemente lo sguardo di chi giunge a Bologna e quasi se ne stupisce, da lassù è possibile abbracciare a colpo d’occhio il brulicare d’un panorama cittadino esteso fino a dove la vista può correre. L’immagine vela e svela a un tempo stesso il significato recondito, per non azzardare simbolico, d’una rappresentazione che si fa stile di vita e modo d’essere. In tal senso, anche l’occhio fotografico rende giustizia alla continua elevazione cui siamo chiamati naturalmente. Elevazione, certo, ascesa che si fa ascesi e che della nostra città mostra ai passanti e ai residenti l’autentica parte estatica.
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