Bibliomanie

I Federzoni tra politica e cultura
di , numero 56, dicembre 2023, Saggi e Studi, DOI

I Federzoni tra politica e cultura
Come citare questo articolo:
Francesco Pellegrini, I Federzoni tra politica e cultura, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 9, dicembre 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.11070

Introduzione
Il presente saggio si propone di indagare, ricostruire e analizzare la personalità e l’eredità di Giovanni e Luigi Federzoni, due figure di rilievo che hanno impresso un segno nel panorama culturale e politico italiano della prima metà del XX secolo.


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Giovanni Federzoni, benché meno noto al grande pubblico, emerge nel campo della cultura, grazie al suo contributo agli studi danteschi. Curatore di edizioni critiche e commentatore di opere di Dante Alighieri, quali la Vita Nova e la Divina Commedia, G. Federzoni si distinse anche come poeta e saggista.
Suo figlio Luigi si affermò come esponente di rilievo, prima, nel movimento nazionalista e, poi, in quello fascista. Cresciuto nello stimolante ambiente culturale bolognese di fine Ottocento, Luigi Federzoni subì il fascino dell’intellettuale Alfredo Oriani e si formò sotto la guida di Giosuè Carducci. La sua carriera letteraria, intrapresa con lo pseudonimo di Giulio De Frenzi, lo vide impegnato nella critica dell’arte contemporanea e nella composizione di opere narrative e teatrali. La sua carriera politica, iniziata con successo quando fu eletto deputato nel 1913, consolidata grazie a diversi incarichi nel regime fascista, ebbe una flessione a causa della sua fedeltà alla monarchia e ostilità verso gli ambienti estremisti del PNF. Fu tra coloro che, durante la notte del 24 luglio 1943, quella del Gran Consiglio del Fascismo, sostenne l’ordine del giorno Grandi.
Il saggio, partendo da una meticolosa indagine bibliografica e documentaria, si pone l’obiettivo di ricostruire le vite di questi due uomini, mettendo in luce il loro apporto alla cultura e alla politica italiana.

Giovanni Federzoni

«A Bologna, città degli studi, Alma Mater Studiorum, il professor Federzoni era tipo così caratteristico, che senza di lui non si poteva rappresentare Bologna compiutamente»1.
Anna Evangelisti


Giovanni Federzoni nacque a Borgo Panigale (Bologna) il 29 agosto 1849. Frequentò il Liceo Galvani, dove si distinse per l’impegno nello studio, vincendo un concorso interno di composizione letteraria. Nel capoluogo felsineo stabilì un profondo rapporto di amicizia con il futuro scrittore Alfredo Oriani. Terminato il liceo, si iscrisse all’Università di Bologna, inizialmente alla facoltà di medicina. Un incontro decisivo cambiò il corso della sua vita: una lezione di Giosuè Carducci lo lasciò talmente estasiato da indurlo a iscriversi alla Facoltà di Lettere nel 1869. Divenuto discepolo del poeta toscano, proseguì gli studi letterari sotto la sua guida, laureandosi nel 1873.
Dopo la laurea, non coltivando ambizioni di carriera accademica, Giovanni Federzoni scelse di dedicarsi, con passione, alla produzione letteraria, abbracciando sia la poesia che la prosa. Curò per conto del Carducci alcune pregevoli opere letterarie, tra cui Orazio italiano, che prevedeva lo studio di tutti i traduttori delle odi d’Orazio, a partire dal Cinquecento. Da questa vasta raccolta, Federzoni selezionò le versioni più eccellenti per raccoglierle in un’edizione definitiva, un’impresa ardua e inedita, destinata poi alla pubblicazione da parte dell’editore Sansoni. Successivamente, curò la compilazione di un indice analitico allegato al Canzoniere del Petrarca, nell’edizione curata dal Carducci.
Nel 1877 Giovanni Federzoni sposò Elisa Giovannini, figlia di Carlino Giovannini, ex sindaco di San Lazzaro di Savena, e la coppia si trasferì in una casa di via Riva di Reno, non lontano da Via Roma, l’attuale via Marconi.
In seguito, G. Federzoni ottenne la nomina a professore nel ginnasio comunale Guinizelli, scuola secondaria all’epoca considerata tra le più prestigiose di Bologna, tanto che Carducci in Senato la definì il primo ginnasio d’Italia. Vi insegnò per vent’anni e ne divenne anche vicedirettore.
Interessanti, in questo senso, le parole scritte dalla studiosa Anna Evangelisti, allieva del professor Federzoni2:

Ricordo che in quinta, quando si studiava la storia della Rivoluzione francese, egli, dopo averci infiammato con le sue spiegazioni e le sue letture riguardo alla convocazione degli stati generali, ci diede da svolgere a casa questo tema: A Parigi la sera del 4 maggio 1789.
Che egli in quinta desse temi quasi sempre danteschi era naturale: la Divina Commedia era il libro di testo, e l’Inferno ce lo fece imparare e ripetere a memoria tutto, meno il canto dei ladri, il XXV, che fu soltanto letto e spiegato da lui, perché a lui certe espressioni sulle labbra degli scolari non parevano convenienti…
I lavori di scuola li leggeva tutti e ‘li restituiva tutti discutendo le correzioni con inflessibile severità riguardo alle regole, e con piacevole indulgenza riguardo al resto. Se i termini gli parevano troppo disparati, aveva le sue uscite scherzose. — Queste due parole si meravigliano molto di trovarsi insieme — diceva; oppure: — Qui siamo proprio nel caso di quel tale che disse: «Questa stretta di mano è il più bel giorno della mia vita».
Anche nell’interrogare teneva spesso di quelle forme amene che sollevano dalla stanchezza e ricreano la scuola. Ad uno scolaro che non sapeva la struttura del decasillabo:
— Non importa — disse — la regola, mi dia un esempio, mi dica un verso decasillabo.
— Non lo so.
— Non lo sa! Ahi sventura, sventura, sventura! Questo è un decasillabo d’autore sommo, è del Manzoni, e lei non lo dimenticherà più.


Dopo la cessione dell’Istituto Guinizelli allo Stato, G. Federzoni perse sia il posto che l’anzianità di servizio, passando da titolare a reggente. A quarantasette anni, partecipò a un concorso per insegnanti dei licei, sfidando colleghi più giovani e freschi di laurea e titoli. La carriera di Federzoni era stata fino a quel momento dedicata principalmente allo studio contemplativo e all’insegnamento, senza un’accentuata produzione di pubblicazioni scientifiche. Tuttavia, grazie all’impegno e alla dedizione profusi durante la carriera scolastica, risultò tra i vincitori del concorso e fu destinato al Liceo Galvani.
Il latinista romagnolo Giuseppe Albini, riconoscendo le competenze e le qualità di Giovanni Federzoni, prese l’iniziativa di proporlo al ministro dell’Istruzione Pubblica, Giovanni Codronchi Argeli, per un incarico di prestigio: quello di preside e insegnante di Lettere italiane presso il Liceo Minghetti.
Prima che il provvedimento divenisse esecutivo, una crisi ministeriale portò al pensionamento anticipato del ministro Codronchi. In seguito a questi cambiamenti, il direttore generale Giuseppe Chiarini decise di bloccare la nomina di Federzoni. Questa decisione turbò l’animo del professore bolognese. Federzoni si vide costretto a tornare al Liceo Galvani, un ritorno che percepì come una concessione quasi benefica, piuttosto che un riconoscimento del suo valore. La delusione si acuì in seguito alla sconfitta nel concorso per la cattedra di Italiano al Liceo Minghetti, dove si classificò in una posizione inferiore rispetto ad altri candidati che, a suo giudizio, erano meno qualificati di lui. In una lettera datata luglio 1901, indirizzata al dantista fiorentino e suo amico G.L. Passerini, Federzoni espresse la sua tristezza e frustrazione e il senso di ingiustizia percepito: «Mi fu tolto l’ufficio della presidenza in una maniera molto sgarbata, e poi mi fu concesso, quasi per grazia, di rimanere reggente di classi superiori nel Ginnasio Galvani. Fu fatto un concorso alla cattedra di italiano nel nuovo Liceo Minghetti; io vi presi parte, ma fui classificato molto basso rispettivamente ad altri, che, a voler dir lo vero, valgono molto meno di me; e qui non c’è bisogno di modestia, che la cosa è troppo evidente. Io non ho mai capito nulla di tutto questo»3. Secondo Passerini, le disavventure professionali di Federzoni potevano essere attribuite a pregiudizi di origine politica. Egli suggerì che il talento di Federzoni, la fierezza del suo carattere, e la nobiltà della sua vita come scrittore e cittadino, fossero in aperto disaccordo con le figure dominanti nel mondo dell’istruzione pubblica dell’epoca. Passerini descrisse Federzoni come un anticonformista rispetto alle autorità da lui definite provocatoriamente come «venerabili mummie», suggerendo che la negazione di adeguato riconoscimento e ricompensa fosse stata una conseguenza di questa discrepanza ideologica. Federzoni era descritto come un outsider, ostacolato dai gruppi di potere all’interno di istituzioni come la Minerva, dove democratici e massoni esercitavano un’influenza preponderante:

Ma se appunto l’essere un artista fu per l’autore della Vita di Beatrice la capitale colpa agli occhi del critico, forse per questo suo costante amore del bello, per la fierezza del suo carattere, per la nobiltà della sua vita di scrittore e di cittadino, in aperto contrasto col modo di vita delle venerabili mummie che presiedevano allora alle cose della pubblica istruzione a Giovanni Federzoni mancò sempre la considerazione e il giusto premio che eran dovuti, in larga e degna misura, alla sua bontà e al suo valore. Fu anzi, può dirsi, un perseguitato dai democratici e dai massoni che insinuatisi alla Minerva e altrove, come vermi dentro alle fosse, vi tennero incontrastato dominio4.

Contemporaneamente all’attività didattica scolastica, G. Federzoni diede lezioni private su Dante, per le quali era particolarmente ricercato e remunerato. In seguito, a cinquantadue anni, ricevette un significativo riconoscimento professionale: fu promosso a professore titolare di liceo e nominato direttore di una Scuola Superiore Femminile, un’istituzione prestigiosa frequentata dalle giovani donne della migliore borghesia cittadina. Successivamente, su proposta di Giuseppe Albini, l’Università di Bologna gli concesse la libera docenza per titoli in letteratura italiana, un ulteriore attestato del suo valore accademico e della sua competenza. In età avanzata si trasferì a Roma, dove continuò a insegnare letteratura italiana presso il liceo “Umberto I” e il Collegio militare. Tuttavia, a causa del gravoso impegno richiesto dal doppio incarico, fu costretto a ridurre il tempo dedicato alla scrittura, sua grande passione. Di conseguenza, con rammarico, decise di rinunciare anche all’insegnamento al Collegio Militare.
Dal punto di vista politico e sociale, Federzoni era un liberale moderato e un sostenitore di un governo forte. Simpatizzò per la figura di Francesco Crispi, ma non aderì mai attivamente a nessun partito politico. Fedele cattolico osservante, negli ultimi anni della sua vita si avvicinò al fascismo. Federzoni morì nella capitale il 14 giugno 1923, lasciando un’eredità di contributi significativi nel campo della letteratura e dell’istruzione.

Le opere
Durante la sua carriera, Giovanni Federzoni abbinò la sua profonda dedizione all’insegnamento, visto come una missione al servizio della cultura italiana, con una fervida attività editoriale. Pubblicò un volume di Letture Italiane Moderne, da lui selezionate, destinato alle scuole secondarie e alle famiglie. Oltre a ciò, si dedicò alla stesura di varie compilazioni scolastiche, testimoniando il suo impegno nel campo educativo. Federzoni si distinse anche nel panorama letterario, in particolare per i suoi contributi alla poesia e agli studi danteschi. Tra le sue opere più notevoli spiccano Il paradiso perduto ed altri scritti (1895), Diporti danteschi (1899), Amore serotino. Negli anni gravi. Sonetti (1904) e L’angelo nocchiero (1912). Inoltre, produsse un Commento per le scuole e per gli studiosi di Giovanni Federzoni, con note e giudizi inediti di Giosue Carducci (1918) e, nel 1923, un Commento alla Divina Commedia. Quest’opera fu dedicata a suo figlio Luigi con una lettera affettuosa5:

Al dott. Luigi Federzoni
Caro Gigi,
Durante la maggior parte della mia vita ho studiato l’opera di Dante e l’anima di lui, anima cattolica, anima italiana; ed ho cercato di far intendere a molti il senso letterale e l’intimo spirito del poema sacro. Questo ho voluto far conoscere anche a te mio figliuolo, e ad altri quasi figliuoli, ai miei discepoli, esortando sempre te e loro, secondo gli ammaestramenti del poeta, a giustizia, a fortezza e a costanza romana, a italianità pura.
L’opera mia è ora compiuta; benché nessuno (io credo) senza insania può osare di proferire così grande parola, può cioè gloriarsi d’avere compiuta una tale opera; la quale, per essere perfetta, deve di necessità oltrepassare il limite dell’ingegno e del sapere comune.
Ma, qualunque essa sia, ora intendo che sia a te dedicata; anzi voglio che sia a te legata, come per testamento; a te, perché sei il legittimo possessore delle cose mie, e sopra tutto perché, mosso e spinto dall’idea della gloria e della grandezza d’Italia hai combattuto fortemente, e con tutte le armi.
Viva sempre nei cuori italiani l’anima di Dante!; e viva sempre gloriosa e grande l’Italia! Roma, 19 giugno 1919.
Il tuo babbo.


L’impegno per le colonie estive e la «Strenna»
A partire dal 1898, G. Federzoni mantenne uno stretto rapporto con la scuola primaria in qualità di patrocinatore delle colonie scolastiche estive bolognesi. Egli trascorreva ogni anno le vacanze a Castiglione de’ Pepoli, nell’Appennino bolognese, dove trovava «il riposo, il ricreamento dell’animo, l’ombra dei boschi, la dolcezza serena di giornate senza molesti pensieri, senza chiassi, in bella e buona compagnia»6. Castiglione dal 1889 era sede delle colonie estive che ospitavano 98 bambini divisi su due turni. Durante questo periodo, Federzoni, non solo offriva assistenza e consigli agli educatori, ma si impegnava attivamente nella formazione dei bambini, stabilendo con loro un legame profondo e personale. Inoltre, per assicurare maggiori risorse finanziarie alle colonie, G. Federzoni ideò e curò la pubblicazione della Strenna delle Colonie Bolognesi.
Questa raccolta annuale, arricchita dai contributi originali di illustri scrittori suoi amici, come Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Antonio Fogazzaro e Olindo Guerrini, si distingueva per la sua qualità e prestigio, attirando così maggiori fondi per l’istituto delle Colonie Bolognesi.
La prima Strenna si apriva con queste commoventi parole di Federzoni:
«Un giorno, quando delle strenne per le Colonie ne saran venute molte alla luce, e belle per gentilezza di dettato saranno incitamenti nobili a larghezza d’ offerte, spero che i bambini di quel tempo avvenire mi avranno un po’ di gratitudine, pensando che sono stato io il primo autore delle loro Strenne7».
Il primo contributo di Federzoni alla Strenna fu Date pauperibus, traduzione in italiano di una poesia scritta da Elise de Pressense per le Colonies de vacances parigine. Quest’opera fu stampata in un’edizione elegante e venduta privatamente. Furono prodotte cinquanta copie dall’editore Cesare Zanichelli, e il ricavato di 300 lire fu generosamente donato da Federzoni all’istituto. Successivamente, Federzoni espresse la sua gioia per il risultato ottenuto8: «Non so dire con vere parole che gioia fosse la mia quando seppi che con quel denaro ch’era stato frutto del mio piccolo lavoro ben quattro o cinque fanciulli poveri e graciletti avrebbero potuto godere del beneficio delle Colonie!». Questa iniziativa non fu un evento isolato per Federzoni, ma divenne una passione che lo portò a trasformare la sua collaborazione in una strenna annuale a beneficio delle Colonie. Grazie alla generosità della casa editrice Zanichelli, che copriva le spese di stampa, le vendite delle strenne permettevano di garantire dai venticinque ai trenta posti per i bambini ogni anno. Nel 1899 Federzoni scrisse anche l’Inno delle colonie, che veniva cantato in coro dai bambini e che continuò ad essere ricordato anche dopo la sua morte.
I principali contributi artistici di G. Federzoni alla strenna furono un Commento alla Chiesa di Polenta nel 1899, una Raccolta di Pie preci italiane in rima scritte nei quattro primi secoli nel 1902, La commemorazione di Giosuè Carducci nel 1909, La commemorazione di Giuseppe Garibaldi nel 1918, La commemorazione di Giuseppe Bignami nel 1919 e, nel 1921, La Vita di Dante narrata ai bambini, che Federzoni, uno dei maggiori dantisti italiani, scrisse in occasione dal sesto centenario di Dante per far conoscere e apprezzare ai bambini la vita e la grandezza del sommo poeta. Il Comune di Bologna acquistò alcune migliaia di copie che distribuì agli alunni delle scuole, permettendo alle Colonie di ottenere la riguardabile cifra di quattromila lire. Inoltre, Federzoni scrisse le prefazioni annuali per la Strenna, dove invocava la generosità dei lettori per supportare le Colonie.

Le Scuole Federzoni
In onore di Giovanni Federzoni e del suo contributo all’educazione e alla cultura, la Giunta Municipale del Comune di Bologna, sotto la presidenza del Sindaco Umberto Puppini, decise di dedicare nel 1925 un istituto scolastico cittadino al suo nome. La scelta ricadde sulla scuola dell’Arcoveggio, una struttura che ospitava oltre mille ragazzi della zona della Bolognina. Questa istituzione, ancora oggi attiva e funzionante, rappresenta un duraturo omaggio alla memoria e all’eredità di Federzoni. Il 10 aprile 1927, nella sala principale dell’istituto, fu inaugurato un busto in suo onore, un’opera artistica realizzata dallo scultore Attilio Selva. Questo busto in bronzo è sorretto da una stele di marmo con un’iscrizione che recita:
«A Giovanni Federzoni – per cinquant’anni Maestro insigne d’Italianità – Nato in Bologna nel MDCCCXLIX – Morto in Roma nel MCMXXIII – i discepoli memori – P. P. – MCMXXVII». Questa dedica testimonia il profondo rispetto e la gratitudine dei suoi allievi e colleghi. Tra gli allievi di Federzoni si distinse anche Mario Missiroli, che avrebbe poi ricoperto il ruolo di direttore del quotidiano Il Resto del Carlino.

Luigi Federzoni
Luigi Federzoni nacque a Bologna il 27 settembre 1878, figlio di Elisa Giovannini e Giovanni Federzoni. Luigi crebbe in un contesto che univa l’eredità culturale del padre con le radici imprenditoriali della famiglia. Il bisnonno Luigi aveva fondato una fortunata industria di concia di pellami in via della Grada a Bologna, sfruttando l’acqua del Canale di Reno per il lavaggio delle pelli. Successivamente, il nonno Giuseppe, riconoscendo la necessità di espandere l’attività, trasferì l’impresa in un’officina più adeguata, acquistando un gruppo di case in via Ripa di Reno, dove Luigi Federzoni nacque e crebbe. Nelle sue memorie private, scritte nell’ottobre 1943, Luigi Federzoni dipinse un quadro vivido della casa di famiglia. Egli descrisse una struttura singolare, caratterizzata da un’atmosfera intensa e industriosa, segnata dal lavoro quotidiano della conceria:

La casa in via Ripa di Reno era di una stranezza non mai vista. La prospettiva della larga strada in curva, tagliata in mezzo dal canale, era molto scenografica e luminosa. Un decoroso atrio, a cui si accedeva da un bel portone […], lasciava intravedere da una vetrata un ampio salone della conceria, dove sui banchi inclinati di marmo numerosi scuoiatori lavoravano con una sorta di scimitarra a due impugnature. Chiunque passasse dall’atrio per salire da noi era salutato subito dal duplice odore, che impregnava tutta la casa e che mi è rimasto nelle narici e forse negli abiti per tanti anni, del cuoio e del tannino necessario per conciarlo…Non saprei descrivervi quali fossero là il traffico, il chiasso e l’esalazione dei profumi, sopra tutto nelle ore del mattino, quando i carri delle pelli andavano e venivano. Godevamo poi, giorno e notte, di una specie di vaga melopea, un accordo indefinito di tre note in sordina, che mi è pure restato nell’orecchio per non so quanto tempo: era il rumore del mulino, mosso dalla presa d’acqua del canale, per la macinazione della “vallonea”, qualità di grossa ghianda, importata – credo – da Vallona, e contenente il tannino che serviva per la concia9.

Luigi Federzoni trascorse la sua infanzia in un ambiente liberale e cattolico. Nonostante frequentasse la parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo e andasse a messa nella basilica di San Petronio, la fede religiosa non fu inizialmente una componente dominante della sua personalità. Federzoni stesso ammise che «la fede cristiana non mise in me radici profonde, e perciò si inaridì presto. Rigermogliò, per un’invocazione spontanea al conforto e alla speranza, dopo la straziante morte di mia Sorella; ma era ancor gracile e oscillante. Risorse veramente in seguito allo schianto di un’altra terribile sventura, quella che ci tolse Raffaella»10.
Cresciuto come figlio unico, Federzoni visse un’infanzia serena, ma segnata dalla solitudine. Trovò rifugio nella ricca biblioteca paterna, sviluppando un profondo amore per la lettura. Le sue vacanze estive erano spesso divise tra soggiorni al mare, a Rimini o Pesaro, e periodi in campagna al Farneto in val di Zena, presso la proprietà «Osteriola» del nonno Agostino. La descrizione dei luoghi d’infanzia, tratteggiata nelle sue memorie inedite, evoca un paesaggio quasi eremitico, dove il silenzio e la solitudine amplificano la poesia del luogo. La distanza da Bologna e San Lazzaro, benché misurabile in pochi chilometri, si traduceva in una rimarchevole distanza emotiva, regalando a Federzoni un’insulare percezione del mondo, arricchita da un’intensa connessione spirituale con questi angoli di quiete rurale11:

Alla poesia del luogo contribuivano il silenzio e la solitudine. A valle la chiesetta de Farneto, con i pochi casolari dell’abitato, era distante e invisibile da quel punto isolato. La strada comunale, che si stringeva sotto lo strapiombo delle rupi, sull’altra sponda della Zena, finiva poco più a monte. Perciò vi passava appena qualche raro carrettiere, schioccando la frusta per farsi compagnia. Si era a undici chilometri da Bologna, a sei da San Lazzaro sulla via Emilia, e pareva di essere fuori dal mondo.

Il primo incontro diretto di Luigi Federzoni con la politica avvenne durante la campagna elettorale per la XVI legislatura del Regno d’Italia, nel maggio del 1886. In quell’occasione, il collegio elettorale di Bologna, tradizionalmente una roccaforte dei «moderati», divenne oggetto di contesa politica. Il partito radicale, cercando di conquistare questa posizione strategica, nominò come suo candidato Augusto Murri, un medico di grande fama, nonché filosofo, umanista, scrittore e oratore di talento.
Di fronte a questa sfida, i moderati del partito liberale, temendo una sconfitta, si rivolsero a Giuseppe Ruggi, un chirurgo primario dell’Ospedale Maggiore, particolarmente apprezzato in città per aver curato migliaia di persone. Ruggi, benché esitante, accettò la candidatura e chiese aiuto al suo amico Giovanni Federzoni.
Il medico bolognese, oltre a non brillare nell’arte oratoria, aveva una fobia per i discorsi pubblici e il pensiero di dover affrontare una difficile campagna elettorale lo terrorizzava. Ma Giovanni Federzoni lo convinse a tenere un solo discorso, purché convincente, in un locale chiuso, a Bologna. Per supportare questa campagna, Giovanni Federzoni coinvolse anche suo figlio Luigi, affidandogli il compito di copiare un lungo elenco di nomi e indirizzi. Luigi, insieme a sua madre, completò questo lavoro con professionalità e diligenza. In segno di gratitudine, suo padre lo invitò a Bologna per assistere al discorso di Ruggi. Alla fine, Ruggi fu eletto trionfalmente alla Camera dei deputati. Luigi Federzoni rifletté in seguito su questo episodio con un misto di gratitudine e ironia, riconoscendo il ruolo di Ruggi nel suo iniziale coinvolgimento nelle lotte politiche, un «jattura» che segnò l’inizio del suo percorso nella vita politica italiana:

L’unico ragazzetto presente ero io, ciò mi insuperbì ancora oltre misura […] Confesso che l’audizione non fu un gran divertimento per me: le cose di cui Ruggì trattava mi interessavano pochissimo, e presto il fervore e la curiosità si tramutarono in sonnolenza, ma i frequenti battimano mi tennero desto, anche perché mi sentivo in obbligo di associarmi ogni volta ad essi rumorosamente. Alla fine, balzai anch’io in piedi ad acclamare, unendomi alle grida di “Evviva il nostro deputato!” Tutti lodavano il magnifico discorso. Il Babbo era raggiante.
Nella domenica seguente Ruggi andò trionfante alla Camera.
Debbo dunque alla cara memoria di Beppe Ruggi gratitudine perenne per quei benefici del suo affetto e della sua maestria; non so se gliene debba per essere stato da lui casualmente iniziato alle lotte politiche. Proprio: a cagion sua mi capitò quella jattura12.


Grazie alla votazione conseguita negli esami di licenza liceale, Federzoni vinse una borsa di studio offerta dal «Collegio Comelli», antica e prestigiosa istituzione bolognese. Un sostegno che si renderà particolarmente utile: nel 1894 la conceria andò incontro ad un dissesto economico che distrusse il patrimonio della famiglia Federzoni. L’azienda, non avendo riserve e dovendo perciò contare sul credito, non sopravvisse alla crisi finanziaria che imperversava in quel momento. Il bilancio presentava un deficit di circa duecentomila lire, somma notevole per quell’epoca.
Alla crisi dell’azienda di famiglia si sommò l’improvviso problema dell’abitazione di famiglia: il piano regolatore di Bologna impose il vincolo di esproprio sui fabbricati in via Ripa di Reno in vista della progettata apertura di una larga strada moderna, che diventerà, quarant’anni dopo, via Roma e dopo il 1949 via Guglielmo Marconi. Grazie a questo vincolo, i fabbricati potevano essere acquistati dal Comune ad un prezzo risultante dalla media dei proventi degli ultimi anni. Tuttavia, a causa della crisi economica, il valore delle case e della conceria si era deprezzato e la famiglia Federzoni fu costretta a stipulare un’ipoteca, che finì con l’assorbire il prezzo minimo attribuito alle case.
Per far fronte alla situazione, l’officina di concia fu data in affitto ad una ditta marchigiana, che nominò lo zio di Luigi, Emilio Federzoni, come dirigente.
Ammiratore, come il padre, di Giosuè Carducci (lo definirà «il primo, dopo il Risorgimento, ad esortare gli Italiani a liberarsi dai vizi e dalle miserie derivanti da tanti secoli di servaggio»13), Luigi Federzoni si laureò nel 1900 in lettere presso l’Università di Bologna sotto la guida dello stesso Carducci con una tesi sul commediografo banchiere, Giovanni Giraud.
Influenzato, fin dalla giovinezza, da Alfredo Oriani, compagno di scuola e amico personale del padre, Federzoni divenne uno dei suoi «scolari da caffè14»: con lo scrittore romagnolo, infatti, i giovani amavano trascorrere lunghe serate al Caffè San Pietro al pianterreno di Palazzo Ottani Gardi in via Indipendenza, ascoltando «i suoi vertiginosi commenti ai fatti del giorno, con incursioni sorprendenti nei territori dell’arte, della storia, della filosofia»15.
L’influenza combinata di queste figure intellettuali contribuì significativamente a plasmare la visione politica e culturale di Federzoni, guidandolo nel suo percorso verso il ruolo di politico nazionalista.
Dal 1897 Federzoni iniziò a scrivere su giornali goliardici e umoristici bolognesi come «Il Tesoro», «Bologna che dorme» e «L’Italia ride».
Questa esperienza, pur essendo di natura leggera, si rivelò formativa, aiutando Federzoni a liberarsi da uno stile di scrittura «inamidato e faticoso», contribuendo allo sviluppo della sua capacità espressiva: «Quella mia collaborazione a base di innocue prese in giro e di assideranti freddure – scriverà nelle sue memorie inedite – era stata una cosa assai frivola, ma mi aveva giovato, sciogliendomi la mano coll’obbligarmi ad abbandonare lo stile inamidato e faticoso entro il quale erano morti stecchiti i miei esordi letterari»16.
Nonostante le origini carducciane, Federzoni, in questo periodo, si orientò verso uno stile più vicino a quello dannunziano. Temendo di deludere il padre e il maestro Carducci, scelse di scrivere i suoi articoli sotto lo pseudonimo anagrammatico di «Giulio De Frenzi». Con questo nome firmò anche alcuni romanzi: Il corruttore, Il lucignolo dell’ideale (opera dedicata a Oriani), L’allegra verità, I candidati all’immortalità, nonché alcune commedie teatrali come L’ultima istitutrice, La morale di Casanova e Saturnali. Federzoni si dedicò anche alla critica letteraria, curando nel 1909 una rubrica intitolata I libri inutili sulla Rivista di Roma. In questa rubrica, analizzava e commentava le opere degli autori più popolari del momento, tra cui Ojetti, Beltramelli, Cicognani, Zuccoli, Benelli, Brocchi e D’Ambra, partecipando attivamente al dibattito culturale e letterario del suo tempo.
Dopo aver conseguito la laurea, Luigi Federzoni si trasferì a Roma per specializzarsi in Storia dell’Arte alla Sapienza con il professor Adolfo Venturi. Roma rappresentava per Federzoni non solo un centro di eccellenza accademica, ma anche un luogo ricco di nuove sfide e opportunità. Federzoni descrisse la sua scelta di trasferirsi a Roma come una ricerca di orizzonti più ampi e un tentativo di superare le limitazioni del «mondo» bolognese, che sentiva stretto e soffocante: «A Roma avrei potuto trovare un’altra strada, e quella della storia dell’arte mi pareva convenirmi. Inoltre, nella ristretta cerchia del minimo “mondo” bolognese mi sembrava di soffocare: ambivo di sprovincializzarmi, e non comprendevo che appunto ciò era il colmo del mio provincialismo»17. Tuttavia, le sue aspettative accademiche furono presto deluse. Si aspettava di studiare i capolavori di artisti come Botticelli, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio e Tiepolo ma il professor Venturi si occupava prevalentemente di arte medievale e bizantina, trascurando i grandi maestri del rinascimento.
Di fronte a questa delusione e divergendo dalla richiesta paterna, Federzoni decise di dedicarsi pienamente al giornalismo. Iniziò a collaborare con il giornale satirico Capitan Fracassa, dove poté esprimere la sua vena polemica e ironica.
Alla fine del 1901 Federzoni divenne redattore stabile per Il Travaso, un giornale politico satirico. Successivamente collaborò con Il Resto del Carlino e nel 1903 fu assunto come articolista dal Giornale d’Italia, quotidiano romano di tendenza conservatrice. Nel 1904 tornò a Bologna, per occuparsi della sezione artistica e letteraria del Carlino, ma vi restò solo pochi mesi. Giunto primo fra i concorrenti alla Biennale di Venezia, vinse un premio internazionale della critica d’arte.
All’inizio del 1905, Luigi Federzoni fece ritorno al Resto del Carlino, assumendo la prestigiosa posizione di redattore-capo. A soli 26 anni, il raggiungimento di un ruolo così influente, in uno dei principali quotidiani italiani dell’epoca, era un’impresa notevole. Il Resto del Carlino, storico giornale bolognese, godeva all’epoca di una vasta diffusione a livello nazionale, rendendo la posizione di Federzoni ancora più rilevante nel panorama dell’informazione italiana. Tuttavia, nonostante la prestigiosa nomina e l’importanza del giornale, la permanenza di Federzoni in questa posizione fu breve, solo sei mesi.
Nelle sue memorie inedite, Federzoni attribuì questa decisione alla sua avversione per la massoneria, un tratto distintivo del suo carattere che avrebbe influenzato il suo percorso negli anni a venire: «A Bologna non mi ci potevo vedere […] Particolarmente mi spiaceva l’ambiente del giornale: ero l’unico, là dentro, forse con gli uscieri, che non fosse iscritto alla loggia massonica»18. Federzoni decise quindi di ritornare a Roma, collaborando con Il Giornale d’Italia. Nel contesto del dibattito politico italiano di inizio XX secolo, la figura di Federzoni emerse per le sue acute osservazioni critiche nei confronti delle relazioni italo-austriache. Il suo lavoro giornalistico si concretizzò in due importanti indagini: la prima, nel 1909, focalizzata sull’identità italiana del lago di Garda e la seconda, nel 1910, sulla questione della Dalmazia.

Il nazionalismo e la lotta alla Massoneria
La passione per la politica si manifestò in Federzoni in modo particolarmente evidente quando divenne uno dei principali organizzatori del primo congresso nazionalista tenutosi a Firenze nel dicembre del 1910. Al termine del convegno, Federzoni fu nominato membro del Consiglio centrale e della giunta esecutiva dell’Associazione Nazionale Italiana (ANI).
Nel marzo 1911 fondò il settimanale L’Idea nazionale insieme ai nazionalisti Enrico Corradini, Roberto Forges Davanzati, Francesco Coppola e Maurizio Maraviglia. In aggiunta al lavoro giornalistico, Federzoni divenne anche uno dei dirigenti dell’Associazione monarchica Re e Patria.
Federzoni si avvicinò anche ai circoli cattolici, con i quali condivideva la comune avversione per la massoneria. Fu infatti promotore di una violenta campagna contro la massoneria, che iniziò sulle pagine de L’Idea Nazionale il 17 aprile 191319. Il leader nazionalista riteneva che la massoneria fosse una minaccia per la Nazione, in particolare per la coesione e la lealtà delle forze armate italiane, dove si stimava fossero presenti circa 4.000 massoni. Federzoni temeva che la gerarchia interna alle logge massoniche potesse interferire con la catena di comando militare, creando situazioni in cui un subalterno potesse avere un grado pari o superiore a quello di un ufficiale all’interno della struttura massonica. Federzoni evidenziò anche il contrasto tra i valori nazionali e quelli massonici, che erano di natura universalista e cosmopolita.
Tra aprile e giugno 1913, Federzoni pubblicò sette articoli su L’Idea Nazionale, in cui denunciava l’influenza della massoneria all’interno delle forze armate italiane e la sua incompatibilità con i valori nazionali. La sua campagna ebbe un riscontro significativo quando il generale Gustavo Fara, eroe dell’impresa libica e membro della loggia massonica «Figli di Garibaldi» del Grande Oriente d’Italia, presentò le sue dimissioni dalla massoneria.
Federzoni ribadì l’importanza di queste dimissioni, affermando che l’esercito doveva essere al di sopra delle divisioni politiche e religiose, essendo un’istituzione puramente nazionale. Egli affermò che tra gli ufficiali non avrebbero dovuto esistere differenze di sentimento o diffidenze di pensiero, enfatizzando l’importanza dell’unità e della coesione all’interno delle forze armate:
«La notizia delle dimissioni del generale Fara da membro della Massoneria ha forse per la prima volta richiamato l’attenzione pubblica italiana sull’importantissima questione dell’appartenenza notoria di molti nostri ufficiali di terra e di mare a quella associazione. L’Esercito non deve essere né clericale né anticlericale, dev’essere nazionale. Fra gli ufficiali che hanno l’onore di vestirne la divisa, non devono esistere differenze di sentimento e diffidenze di pensiero»20.
Sostenitore della guerra di Libia, durante la quale fu corrispondente a Tripoli e a Rodi, in occasione delle elezioni del 1913, Federzoni sentì che era giunto il momento di scendere attivamente in politica e presentò la propria candidatura per il primo collegio di Roma. Grazie al decisivo appoggio dell’elettorato cattolico (con il quale condivideva l’ostilità verso i massoni, gli anticlericali, i democratici e i socialisti), Federzoni vinse contro Scipione Borghese, rappresentante del liberalismo e sostenuto dal Giornale d’Italia.
Convinto interventista, Federzoni si offrì volontario nella Grande Guerra, prestando servizio prima come sottotenente di artiglieria e successivamente come tenente nell’unità bombardieri. La sua condotta in battaglia gli valse una medaglia d’argento per il valore dimostrato sul fronte del Carso e due croci al valore militare per la campagna sul Piave. Nel dicembre del 1917, contribuì alla costituzione del Fascio parlamentare per la difesa nazionale e, l’anno successivo, fu membro della rappresentanza italiana al congresso di Roma, che vedeva riunite le nazionalità soggette al giogo dell’Impero asburgico. Al termine della Grande Guerra, nel 1918, si unì in matrimonio con Luisa Melotti Ferri. Come affermato dallo stesso Federzoni fu un incontro che gli permise di superare tutte le sue timidezze e timori e di aprirsi ad un rapporto felice, fatto di condivisione e cooperazione21:

Il celibe per vocazione, colui che non aveva ancora fiducia nel proprio avvenire né negli aiuti della Provvidenza era – come vi dissi “duro a morire”, e le occasioni di nuovi incontri furono rare. Ci vollero tre anni e mezzo, ma quando mi potei togliere quella spina conobbi finalmente l’unica, la vera, la suprema felicità di questa vita: la felicità che può compensare di tutte le prove e consolare di tutti i dolori.

Da questo matrimonio nacquero le figlie Annalena, Elena e Maria Giovanna

Nel biennio 1919-1921, Federzoni si oppose ai governi guidati dai liberali Francesco Saverio Nitti e Giovanni Giolitti, accusandoli di aver tradito gli ideali nazionali e di aver ceduto alle pressioni delle potenze vincitrici. Federzoni criticò, in particolare, la mancata annessione di Fiume, la rinuncia al mandato sulla Turchia e la firma del Trattato di Rapallo con la Jugoslavia.
Rieletto deputato dalla XXV alla XXVII legislatura, Federzoni fu membro della commissione parlamentare per l’Estero e le Colonie e successivamente della commissione per l’Interno. Nel marzo del 1922, fu eletto vicepresidente della Camera, consolidando ulteriormente la sua posizione di rilievo nel panorama politico italiano.

La marcia su Roma e l’ascesa del fascismo
La figura di Federzoni assunse un’importanza politica cruciale nelle fasi immediatamente precedenti l’ascesa del fascismo.
L’8 ottobre 1922, poche settimane prima della marcia su Roma, Federzoni chiarì in un discorso pubblico al Teatro Lirico di Milano la posizione dei nazionalisti: essi non avrebbero contrastato l’ascesa dei fascisti, a patto che questi ultimi avessero salvaguardato la monarchia e la fede cattolica del popolo italiano, ristabilendo la legalità e il primato della sovranità dello Stato.
Nel contesto di queste manovre politiche, Federzoni aderì all’iniziativa del prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli, che proponeva un governo con Giolitti alla Presidenza del Consiglio e Mussolini in una posizione di rilievo. Durante un incontro a Milano con Mussolini, quest’ultimo espose a Federzoni la sua preferenza per un esecutivo guidato da Vittorio Emanuele Orlando, esprimendo rispetto e ammirazione per lui. Nello stesso periodo Federzoni e il diplomatico nazionalista Gelasio Caetani, si avvicinarono alla Banca Commerciale con l’intento di ottenere un finanziamento. Questa mossa era motivata dalla previsione di uno stato d’assedio che avrebbe potuto essere dichiarato dal Re. In tale scenario, i nazionalisti avrebbero preso le distanze dagli squadristi fascisti. Il leader nazionalista Paolucci, che ricopriva il ruolo di comandante generale dei «Sempre pronti per la patria e per il re», coordinò l’afflusso a Roma delle legioni più vicine delle Camicie azzurre, armate dalle autorità militari. Una decisione presa in accordo con Enrico Corradini e lo stesso Federzoni, con l’obiettivo di far partecipare queste forze alla difesa di Roma nel caso di un’insurrezione violenta da parte dei fascisti. Paolucci sottolineò il loro impegno a schierarsi a difesa del Capo dello Stato, indipendentemente dalle decisioni il Sovrano avrebbe preso. Se il Re avesse accettato di nominare Mussolini al potere, i nazionalisti avrebbero seguito la sua decisione; se, invece, avesse dichiarato lo stato d’assedio, si sarebbero uniti alla forza pubblica: «Noi dovevamo schierarci a difesa del Capo dello Stato. Se questi avesse accettato di chiamare Mussolini al potere noi avremmo seguito; se avesse dichiarato lo stato d’assedio noi ci saremmo uniti alla forza pubblica»22 dirà in seguito Paolucci.
La strategia nazionalista mirava a persuadere Mussolini ad accettare un compromesso politico: la nomina di Salandra, esponente di destra, alla presidenza del consiglio, al posto del dimissionario Facta. Federzoni comunicò questa proposta al Re nella notte tra il 27 e il 28 ottobre.
Nelle prime ore del 28 ottobre, Federzoni fu svegliato da una telefonata urgente del ministro Riccio. Quest’ultimo lo convocava immediatamente al Viminale, dove il Consiglio dei ministri era riunito in sessione permanente. Accompagnato dall’amico R. Forges-Davanzati, Federzoni si trovò di fronte a una situazione di tensione palpabile.
In quel momento, il Presidente del Consiglio Luigi Facta era appena rientrato al Viminale dalla sua seconda visita al Quirinale, dopo che il Re aveva rifiutato di firmare il decreto per lo stato d’assedio. Nonostante la risposta negativa del Sovrano, gli ordini ai comandi militari erano già stati dati, e il paese era sull’orlo di un potenziale conflitto interno. Per scongiurare una guerra civile, Facta, in presenza dei ministri Carlo Schazner e Marcello Soleri, chiese a Federzoni di comunicare a Mussolini il mutamento delle circostanze. Le linee telefoniche ordinarie erano state interrotte. Tuttavia, il ministro Taddei autorizzò Federzoni a utilizzare le speciali linee di stato, permettendo così a lui e a Forges-Davanzati di contattare direttamente Mussolini.
Verso le 8 del mattino ebbe luogo una drammatica conversazione telefonica tra Luigi Federzoni e Mussolini. Secondo quanto risulterebbe dalla relazione stenografica23, Federzoni, dopo essersi confrontato con il quadrunviro fascista e monarchico De Vecchi, comunicò al quartier generale di Mussolini, la redazione del Popolo d’Italia di Milano, una notizia importante: il re Vittorio Emanuele III minacciava di abdicare e andare in esilio se la crisi politica avesse preso una piega violenta e sanguinosa. Federzoni descrisse la situazione di stallo causata dall’impossibilità del Re di consultarsi con i capi fascisti, esprimendo il timore che, se la situazione fosse peggiorata, il Re avrebbe potuto lasciare il paese. Sottolineò l’importanza di permettere al Re di agire in «condizioni di visibile libertà», senza subire pressioni esterne: «Qui la situazione è paralizzata dal fatto che il Re non può conferire con nessuno dei capi fascisti… e corriamo il pericolo…che aggravandosi la situazione di fatto il Re se ne vada… Non perdiamo la testa! Perché il Re non prenda delle determinazioni che senza dubbio aggraverebbero la situazione incalcolabilmente, bisogna che egli possa agire e subito in condizioni di visibile libertà, cioè che non esista una pressione… insomma… esteriore»24.
Mussolini, dal canto suo, replicò di non poter venire a Roma «perché l’azione a Milano è in corso». Suggerì di «sentire lì dove sai, al comando supremo. Io accetterò tutte quelle soluzioni che il comando supremo crederà di adottare… Bada che il movimento è serio in tutta Italia». Federzoni, assumendo ancora una volta il ruolo di mediatore, rispose enfatizzando la necessità di non distruggere il «punto di appoggio» per non compromettere tutto. Mussolini ribadì che si sarebbe rimesso alle decisioni dei comandanti militari, ma insistette affinché la crisi si orientasse «verso destra», implicando la formazione di un governo fascista: «Di’ che Mussolini si rimette a quello che decideranno i comandanti… Ma bada che la crisi si orizzonti verso destra, verso destra, verso destra… Un governo di fascisti». La conversazione si concluse con Federzoni che si impegnò a realizzare quanto desiderato da Mussolini.
Alle ore 9.45 fu Federzoni ad anticipare a Mussolini la decisione del Sovrano di invitarlo a Roma per le consultazioni al Quirinale. Durante la conversazione, Federzoni tentò di convincere Mussolini a rallentare, se non fermare, l’azione fascista. Espresse il proprio ruolo di intermediario tra Mussolini e Antonio Salandra, sottolineando il suo intento di agire nel migliore interesse dell’Italia: «Guarda che io non parlo che in nome mio» disse il leader nazionalista «io non sono che un collegamento fra voi e Salandra e cerco di far intendere la verità della situazione qui da dove ti parlo… io ti parlo un linguaggio che deve parlare un uomo di destra… non chiedo niente- cerco solo di fare il mio dovere di italiano».
Il generale Cittadini, primo aiutante del Re, dopo aver saputo che Federzoni aveva comunicato direttamente con Mussolini, lo incaricò di far sapere al capo del fascismo che entro la giornata sarebbe arrivato il telegramma d’invito per le consultazioni al Quirinale e contemporaneamente di «pregarlo» di affrettare la sua discesa a Roma. Federzoni propose poi direttamente a Mussolini la soluzione che prevedeva Salandra come Presidente del Consiglio, enfatizzando la necessità di un approccio responsabile ed equilibrato: «Non si tratta di mutilare la vittoria ma di affermarci con senso di responsabilità, di equilibrio e di forza, questo a nome di De Vecchi, Ciano ed altri, e anche noi che siamo qui presenti»25. Ma, incoraggiato dal consigliere e quadrunviro Michele Bianchi, Mussolini rifiutò con decisione questa proposta, intravedendo ormai la possibilità di ottenere egli stesso l’incarico di formare un governo: «Io non ho intenzione di andare al Governo con Salandra… Piuttosto avrei preferito con altri… Piuttosto che andare con un Ministero Salandra, avrei preferito molto volentieri un Gabinetto Giolitti»26 disse a Federzoni. Poche ore dopo giunse il telegramma del generale Cittadini con l’incarico a Mussolini di formare il nuovo governo. Il duce poté così partire da Milano in vagone letto con il direttissimo n. 17 delle 20:30 del 29 ottobre alla volta di Roma, dove giunse alle 11:30 del 30 ottobre.
Ministro delle Colonie ottobre 1922 e giugno 1924
Con la nomina di Mussolini a Presidente del Consiglio, Luigi Federzoni, in riconoscimento del sostegno fornito dai nazionalisti alla cosiddetta «rivoluzione» fascista, fu incaricato di guidare il Ministero delle Colonie. In questa veste, Federzoni si dedicò alla gestione della situazione in Tripolitania che presentava sfide significative in termini di amministrazione e politica coloniale. In un periodo in cui il fascismo non aveva ancora focalizzato la propria attenzione sulle questioni coloniali, obiettivo di Federzoni fu il consolidamento del dominio italiano in Libia attraverso la riconquista della Cirenaica e Tripolitania. Parte della Tripolitania era stata strappata ai ribelli fin dall’ottobre del 1922, mentre la Cirenaica era ancora sotto il controllo dei Senussi. Sotto l’amministrazione del conte Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania, vennero recuperate aree strategiche, tra cui Misurata, la Ghibla e la Gefara.

Fusione Ani e Pnf
La fusione tra il Partito Nazionale Fascista (PNF) e l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) fu un evento importante nel consolidamento del potere fascista in Italia, e Luigi Federzoni ebbe un ruolo di primo piano in questo processo.
Il leader nazionalista aveva iniziato a discutere questo tema con un articolo sull’Idea nazionale del 17 novembre 1921 in cui asseriva che il fascismo, arricchito dal pensiero nazionalista, avrebbe potuto guadagnare una maggiore solidità politica.
Dopo la caduta della pregiudiziale monarchica e la condanna esplicita della massoneria, Federzoni vide scomparire gli ostacoli alla fusione dei due partiti. In una lettera del 22 dicembre 1922, esprimeva la sua totale fiducia e devozione a Mussolini, affermando che anche i nazionalisti inizialmente scettici sulla fusione erano pienamente mussoliniani, riconoscendo la lealtà e gli intenti innovatori di Mussolini. Federzoni ribadì l’adesione all’idea dell’unificazione dei due partiti come un atto conforme all’interesse superiore della Nazione, sottolineando l’ammirazione e la venerazione che i giovani nazionalisti provavano per Mussolini27:

Caro Presidente,

a seguito della conversazione avvenuta ieri con te intorno alle relazioni fra il partito fascista e il nazionalista, tengo a riconfermarti nella maniera più categorica, a nome di tutti i miei amici, la fedeltà più devota e più obbediente alla causa che tu splendidamente impersoni.
Anche quei nazionalisti che per un motivo o per un altro furono finora meno proclivi al concetto della fusione, furono e sono illimitatamente mussoliniani, perché – mentre ammirano il rigore prodigioso della tua tempra – hanno compreso la purezza del tuo lealismo e dei tuoi intendimenti innovatori […] Se tu credi ormai conforme al superiore interesse della Nazione l’unificazione dei due partiti, noi siamo comunque ai tuoi ordini.


Tuttavia, la fusione tra PNF e ANI non fu un processo immediato e incontrò resistenze interne, riflettendo la divisione all’interno dell’Associazione Nazionalista Italiana tra i sostenitori della completa fusione (“fusionisti”) e quelli favorevoli a una forma di federazione tra i due partiti (“federazionisti”).
Nella riunione del 12 gennaio il Gran Consiglio del Fascismo riaffermò la leale devozione alla Monarchia e decretò l’istituzione di una commissione mista composta da dirigenti di entrambi i partiti, sotto la presidenza di Mussolini. Questa commissione, di cui Luigi Federzoni era membro, fu incaricata di definire i dettagli relativi ai rapporti tra i due partiti e le modalità della loro fusione. Tra il gennaio e il febbraio del 1923, la commissione lavorò alla definizione di questi rapporti e alla preparazione della fusione. Il 24 febbraio, Federzoni annunciò ufficialmente al Giornale d’Italia che il processo di unificazione era entrato nella sua fase conclusiva, facendo riferimento al voto antimassonico del Gran Consiglio fascista come un passo decisivo verso la fusione.
Nelle sue memorie, Federzoni giustificherà la fusione definendola un’opportunità per esercitare una «influenza moderatrice, educatrice ed epuratrice» sul fascismo28.

Crisi Matteotti
Il rapimento e l’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924, scatenò una grave crisi politica all’interno del regime fascista.
In risposta a questa situazione, il 14 giugno 1924 i ministri Luigi Federzoni, Aldo Oviglio, Alberto De Stefani e Giovanni Gentile, misero a disposizione i loro portafogli.
In una lettera indirizzata a Mussolini, Federzoni sottolineò l’urgente necessità di una conciliazione nazionale, suggerendo che un rimpasto di governo avrebbe facilitato una maggiore collaborazione e superato le difficoltà causate dalla crisi Matteotti. La lettera esprimeva una “illimitata fiducia” e “devota disciplina” verso Mussolini, pur indicando un chiaro desiderio di cambiamento nella politica interna:

Illustre Presidente, la situazione determinatasi in questi ultimi giorni fa sentire urgente – a parer nostro -, nell’interesse del Paese, la necessità di realizzare prontamente attraverso la stessa composizione del Governo quella conciliazione nazionale che V. E. aveva auspicato con Suo discorso dell’8 giugno. Una più vasta collaborazione pacificatrice, secondo noi, può oggi permettere a V. E. di superare le difficoltà di questo periodo, per proseguire la Sua grande opera di ricostruzione con concorso fidente di tutte le forze sane del Paese. Nel mettere, pertanto, a disposizione di V. E. i nostri portafogli, intendiamo di compiere un nuovo atto di illimitata fiducia e di devota disciplina verso il nostro Capo e, insieme, di adempiere il nostro dovere verso la Nazione29.

I ministri, successivamente, si recarono da Mussolini per comunicargli personalmente la loro posizione, affermando che non avrebbero continuato a far parte del governo senza un cambiamento significativo nella politica interna. Le dimissioni non furono accettate dal Capo del Governo che replicò:

Andare fino in fondo? Sta bene; ma fino a chi? Fino a Mussolini? Questo no. La mia testa pesa. Ho trecentomila baionette dietro di me. Una tegola ci è caduta sul capo; d’altra parte, tutti i governi rivoluzionari hanno subito episodi simili a questo. Ciò che importa è restar calmi al nostro posto, senza cedere al gioco degli oppositori, che consiste nel tentare di logorare le posizioni periferiche per isolare e colpire meglio il bersaglio maggiore… Se si delineasse una nuova situazione, vi sacrificherei, sapendo che tale sarebbe il vostro desiderio. Oggi, non credo. Comunque vedremo30.

Ministro Dell’Interno
In seguito all’omicidio Matteotti e alla conseguente crisi politica, Mussolini adottò una strategia volta a placare l’opinione pubblica e rassicurare la Corona. Il 17 giugno 1924, Mussolini affidò il Ministero dell’Interno, che fino ad allora aveva gestito ad interim, a Luigi Federzoni. Questa scelta era motivata da diverse considerazioni: Federzoni era visto come un uomo d’ordine, non era iscritto al Partito Nazionale Fascista, godeva del sostegno della monarchia ed era inoltre stimato dalla Santa Sede. Federzoni rifletté su questa nomina in un suo memoriale inedito, interpretando tale incarico come un tentativo di Mussolini di offrire una risposta alle crescenti preoccupazioni suscitate dalla violenza dello squadrismo fascista. Secondo Federzoni, con la sua nomina Mussolini intendeva placare gli animi dei sostenitori moderati del fascismo che avevano salutato l’ascesa al potere del Duce e appoggiato le prime azioni del governo:

La mia nomina doveva servire, nell’intenzione di Mussolini, come sedativo per le preoccupazioni e i dubbi che, in seguito alle persistente violenza dello squadrismo deteriore, turbavano un larghissimo alone dei filo fascisti che in perfetta buonafede e con disinteressata cordialità avevano accolto l’avvento del fascismo al potere e appoggiato l’opera iniziale del Duce […] Mussolini si è raffigurato che io possedessi autorità e capacità sufficienti per prendermi sulle spalle, in un momento così difficile, la pesante responsabilità che egli doveva pure addossare a qualcuno. Ma né io né alcun altro poteva desiderare allora di caricarsi d’un tal fardello, tant’è vero che per imporlo occorse (caso forse senza precedenti, certamente unico nella cronistoria del fascismo) una designazione del Consiglio dei ministri31.

Parallelamente, Roberto Farinacci, rappresentante dell’ala più estremista del Partito Fascista, venne nominato segretario del partito. Questa duplice mossa di Mussolini rappresentava una politica del “bastone e della carota”: da un lato, una linea più normalizzatrice e moderata con Federzoni agli Interni, dall’altro, un approccio più estremista e demagogico con Farinacci alla guida del partito. Tra Federzoni e Farinacci, così differenti per cultura e temperamento, nacque una lunga e intensa rivalità, spesso non ostacolata e talvolta addirittura incoraggiata da Mussolini stesso. Questo contrasto tra i due uomini divenne una caratteristica distintiva del ventennio fascista come attestato dallo stesso Federzoni:

Si impegnò allora fra Farinacci e me una lotta al coltello, la quale fu anche lotta di mentalità e di due tendenze. Essa esplose, talvolta, in tempestosi diverbi (ne rammento uno clamorosissimo, a Palazzo Chigi, in presenza di Mussolini, a proposito degli attacchi della stampa antifascista allo stesso Farinacci, che calunniosamente egli asseriva ispirati da me), e culminò in una serie di dimostrazioni organizzate per le vie di varie città della Venezia da ex nazionalisti, al grido di “vogliamo Farinacci ministro dell’Interno”32.

Inoltre, come sottosegretario agli Interni, Mussolini incaricò Dino Grandi, una mossa che Federzoni interpretò come un tentativo di sorveglianza. Tuttavia, nonostante questa iniziale diffidenza, tra Federzoni e Grandi, entrambi originari di Bologna, si sviluppò un profondo legame di amicizia. Da Ministro dell’Interno, Luigi Federzoni si trovò a fronteggiare un periodo di forte tensione e violenza. Il paese era segnato da continui atti di violenza e illegalità perpetrati da parte dei ras di provincia nei confronti degli antifascisti. Numerose erano le violazioni di domicilio, i saccheggi di studi professionali, le distruzioni di tipografie di giornali, e gli omicidi.
Federzoni si impegnò in un tentativo di pacificazione e normalizzazione. Questo compito, come egli stesso riconobbe nelle sue memorie, si rivelò arduo: «Reprimere e, in quanto materialmente si poteva, prevenire tali violenze fu compito arduo e delicato che per tutto quel tempo assorbì e quasi esaurì le energie mie e dei miei valenti collaboratori del Ministero e delle province»33.
Il 19 giugno all’indomani del suo insediamento come Ministro dell’Interno, Federzoni prese misure immediate per cercare di stabilizzare la situazione. Tra le sue prime azioni, vi fu l’invio di due telegrammi ai prefetti, con istruzioni specifiche per il mantenimento dell’ordine pubblico: il primo telegramma richiedeva di vigilare sugli elementi squadristi «per impedire modo assoluto che essi con atti violenti od impulsivi abbiano a turbare comunque ordine pubblico od a provocare incidenti»34. Il secondo telegramma sottolineava l’importanza di evitare manifestazioni a favore del governo, considerate potenzialmente inopportune e provocatorie. Federzoni insisteva sull’evitare qualsiasi evento che potesse dare luogo a contromanifestazioni o incidenti, insistendo nel «fare comprendere ai dirigenti come esse manifestazioni possano essere inopportune quando mancando unanimità consensi sia da temersi diano occasione a contromanifestazioni o ad incidenti a seguito di movimenti di reazione»35.
Durante il Consiglio dei ministri dell’8 luglio, Federzoni presentò una relazione sulla situazione dell’ordine pubblico in Italia, evidenziando una «crescente e pericolosa tensione, fra le masse fasciste e gli elementi sovversivi, la cui attività segna una certa ripresa»36.
Federzoni sottolineò inoltre il ruolo delle polemiche e delle notizie false o tendenziose nella stampa, che contribuivano, a suo dire, ad esacerbare tale tensione e a manipolare l’opinione pubblica: «a determinare e ad esasperare tale tensione contribuiscono le polemiche in temperanti e le notizie false o tendenziose, con le quali parte della stampa eccita e fuorvia le correnti della opinione pubblica»37. In risposta a questa situazione, Mussolini propose l’applicazione di un regolamento sulla stampa, già approvato il 12 luglio 1923, come mezzo per controllare gli «eccessi della stampa di opposizione» e, contemporaneamente, moderare le «esuberanze polemiche dei fascisti»38.
Secondo quanto riportato dallo storico Renzo De Felice, solo Sarrocchi si mostrò non del tutto convinto della opportunità di alcune norme; tuttavia, fu Federzoni a rassicurarlo che il decreto sarebbe stato «applicato con la massima imparzialità e che raccomandazioni in tale senso saranno fatte ai prefetti»; Dopo questa affermazione, la proposta fu approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri.
Federzoni si impegnò ad aiutare il giornalista popolare Donati ad emigrare, fornendolo di un passaporto. Grazie a questo compromesso, Donati poté recarsi a Parigi nel 1925. Questo gesto provocò polemiche soprattutto tra gli antifascisti. Filippo Turati, leader del socialismo italiano descrisse Luigi Albertini, noto giornalista e direttore del Corriere della Sera, «furibondo per l’esodo di Donati con passaporto e relative trattative con Federzoni». Albertini avrebbe definito questa accordo tra un esponente antifascista e un rappresentante del governo fascista come «un precedente grave»39.

La notte di San Bartolomeo di Firenze
Tra il 3 e il 4 ottobre un altro gravissimo episodio di sangue colpì l’Italia: la cosiddetta “Notte di San Bartolomeo di Firenze”: squadristi toscani perpetrarono attacchi brutali contro alcuni noti antifascisti fiorentini, uccidendo, tra gli altri, l’avvocato Gustavo Consolo e l’ex deputato socialista Gaetano Pilati, ritenuti compilatori del giornale antifascista Non Mollare!. Questo evento fu in seguito rievocato nella letteratura e nel cinema, con l’opera di Vasco Pratolini Cronache di poveri amanti e il film omonimo di Carlo Lizzani.
La reazione di Mussolini fu di grande allarme. Temendo un altro scandalo simile al caso Matteotti, convocò rapidamente il Gran Consiglio, che si riunì la sera del 5 ottobre. Nel frattempo, Federzoni inviò un ispettore di Polizia di Stato a Firenze. Questi scoprì che non erano state condotte indagini serie: la città era stata lasciata in balia delle squadre fasciste, le quali, oltre ad aggredire gli antifascisti, devastavano abitazioni, studi professionali, negozi, e minacciavano persino di assaltare le carceri e la prefettura.
La situazione a Firenze era tale che gli squadristi, completamente fuori controllo, arrivarono a pianificare l’assassinio di uno dei loro membri che si era rifiutato di uccidere il deputato socialista Gino Baldesi. Nonostante una diffusa rete di omertà e intimidazione, furono avviate tre inchieste. Grazie all’insistenza di Federzoni, il prefetto di Firenze, da lui descritto come «debole e forse compiacente»40, e il questore vennero rimossi dai loro incarichi. Inoltre, 51 fascisti furono espulsi, e alla guida della federazione provinciale e del fascio cittadino furono nominati esponenti dell’ala moderata del partito. Tullio Tamburini, leader del fascio fiorentino e principale ispiratore delle violenze, fu allontanato da Firenze e mandato in Libia.
Durante il suo mandato come Ministro dell’Interno, Federzoni fu protagonista attivo nella trasformazione in senso autoritario di ciò che rimaneva delle istituzioni liberali. Tra le sue iniziative più note, spiccano la costituzione del Governatorato di Roma, istituito con il Regio Decreto-legge del 28 ottobre 1925, e dell’Alto Commissariato di Napoli, la creazione della figura del podestà e della consulta comunale, riforme parte di un più ampio processo di centralizzazione del potere e di controllo diretto sulle città d’Italia che ridussero l’autonomia e la democrazia locale.
Federzoni promosse anche la fondazione dell’Opera Nazionale Balilla, un’organizzazione giovanile del regime fascista volta a indottrinare i giovani italiani con gli ideali fascisti, e dell’Opera Nazionale per la Protezione e Assistenza della Maternità e dell’Infanzia, volta a promuovere l’assistenza materna e infantile in linea con gli ideali demografici e sociali del fascismo. Sul fronte legislativo, Federzoni fu responsabile dell’adozione di leggi che limitavano significativamente le libertà costituzionali e democratiche. Tra queste, vi erano provvedimenti restrittivi sulla libertà di stampa, riforme della legge elettorale. Partecipò anche alla stesura di leggi relative al diritto di associazione e all’epurazione dell’amministrazione pubblica, oltre a leggi che ampliavano le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo.
Inoltre, Federzoni fu parte del governo quando furono emanate leggi come quella del 24 dicembre 1925, che introdusse sanzioni particolari per chi attentasse alla vita del Capo del Governo, e quella del 25 novembre 1926, che rafforzò ulteriormente il potere esecutivo. Misure che segnarono il tramonto definitivo dello Stato liberale italiano.

Dimissioni dagli Interni e ritorno alle Colonie
La consapevolezza di non riuscire a placare le violenze dell’estremismo fascista influì sulla decisione di Federzoni di abbandonare il Ministero dell’Interno. Il gerarca bolognese sfogò tutta la sua frustrazione nel memoriale scritto in sua difesa nel luglio 1944 sottolineando la

grande difficoltà […] di farmi obbedire dai miei dipendenti, quando dovevano contenere o reprimere le violenze degli estremisti. Ogni volta che costoro aggredivano con minacce o percosse qualcuno degli uomini dell’opposizione, conoscere la verità intorno al fatto e ottenere che gli autori di esso fossero arrestati e che si procedesse anche in confronto degli eventuali istigatori o mandanti era un’impresa disperata. In provincia il federale era presente, attivo e arrogante, il ministro poteva soltanto telefonare. La protezione dell’incolumità personale dei capi dell’antifascismo […] diventò per me uno dei problemi più ardui e angosciosi […] non potevo interamente fidarmi della maggior parte dei funzionari, ormai convinti che il partito fosse più forte del ministero dell’Interno […] l’azione preventiva e repressiva delle prefetture e questure generalmente fu molto fiacca. Constatai che nessuno mi dava più retta. La mia funzione, o, meglio, la mia illusione di “normalizzatore” era finita41.

Dopo l’attentato di Violet Gibson a Mussolini, Federzoni propose le sue dimissioni in una lettera del 16 aprile 1926:

Presidente, io ho compiuto il mio ciclo. Nunc dimitte servum tuum, ossia un servitore dello Stato e del Fascismo. Eliminato Farinacci, l’interesse massimo del Regime è ricomporre totalmente nella politica interna l’unità e l’armonia. Trova un «Cavallero» per il Viminale, e riprendi il portafogli dell’Interno. Ciò metterebbe fine, una volta per sempre, all’inevitabile trascinarsi delle chiacchiere provinciali contro il Viminale, riconducendo la politica interna, attraverso l’opera di un diretto esecutore, sotto l’autorità insostituibile e indiscutibile del Capo. Altrimenti, nomina un ministro, che non sia – come me – logorato da quasi quattro anni di governo. Presidente, io resto più che mai ai tuoi ordini. Puoi darmi, anche fuori del Governo, qualche altra cosa da fare, per mostrare che mi stimi e che io rimango legato, legatissimo a te. Non sono un ambizioso. Ebbi troppo; e n’avrò d’avanzo per tutta la vita, come la vita non mi basterà per dimostrarti la mia riconoscenza affettuosa e la mia devozione. I tentativi dissennati di questi giorni, risuscitando l’assurdo pretesto di un’antitesi fra Fascismo intransigente e Viminale «normalizzatore», sfruttano un equivoco pericoloso per l’opera dei bravi camerati che hai chiamato alla direzione del Partito. Tutto ciò che oggi è sintomo può essere domani una minaccia. Bisogna togliere l’impressione che il Ministero dell’Interno abbia vinto il Partito. E ciò non può farsi se non nel tuo nome e col Viminale alle tue dirette dipendenze. Tu intenderai tutta la sincerità e tutta la serietà di questa mia lettera, e vorrai scusarne la chiarezza forse ruvida e troppo confidenziale42.

Confermando la sua decisione, il 4 novembre Federzoni rassegnò nuovamente le dimissioni, questa volta irrevocabili, che furono accettate da Mussolini, il quale assunse ad interim il Ministero dell’Interno, destinando nuovamente Federzoni al Ministero delle Colonie dove rimase fino al dicembre del 1928.
Nel novembre 1928, Federzoni fu nominato senatore e nel 1932 ricevette l’insigne del collare dell’ordine supremo della santissima Annunziata.

Federzoni e la politica culturale del regime
Nel 1929, Federzoni successe a Tommaso Tittoni come presidente del Senato, una istituzione ormai in decadenza e priva di un concreto peso politico nell’architettura del regime fascista. Ricoprì tale carica dal 1930 al 1939. Nello stesso periodo, ebbe un ruolo cruciale nella definizione della politica culturale del regime. Presiedette alcune delle più prestigiose istituzioni culturali fasciste, tra cui l’Istituto di studi romani, l’Istituto fascista dell’Africa italiana, il Comitato per l’Edizione nazionale di Giosuè Carducci, l’Accademia d’Italia e l’Istituto della Enciclopedia italiana.
Come osservato da Marinella Ferrarotto43, sotto il fascismo la cultura serviva a fornire una veste ideologica, almeno apparentemente “decorosa”, al regime, che si era imposto privilegiando l’azione, spesso violenta, alla teoria, ma che aveva bisogno di una legittimazione politica per costruire e mantenere il consenso. Il regime, politicizzando la cultura, ne fece uno strumento di manipolazione e di propaganda, ma al tempo stesso le conferì un’importanza politica di rilievo, in quanto il fascismo sentiva l’esigenza di dotarsi di un apparato ideologico ancora pressoché inesistente. La cultura, dunque, “culturalizzava” il regime, creando la figura dell’intellettuale militante.
Nel 1930 Federzoni si adoperò per salvare la casa editrice Zanichelli, in gravi difficoltà finanziarie. Su incarico di Mussolini, mediò con Isaia Levi, ricco industriale torinese, che accettò di acquistare la maggioranza delle azioni e di assumere la presidenza della prestigiosa casa editrice bolognese, alla quale Federzoni si sentiva legato, come il padre. Per questo gesto, Levi fu nominato senatore nel 1933. Federzoni interverrà nuovamente presso il ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri, quando, dopo le leggi razziali, si dovette rimpiazzare Levi alla guida della Zanichelli.
Nel 1931 il leader nazionalista divenne direttore della Nuova Antologia, rivista che il fascismo incaricò di ospitare scritti che interpretassero ed esaltassero la politica e il programma di educazione patriottica e formazione spirituale della “nuova Italia”44. La rivista richiedeva un direttore che avesse vasti interessi culturali, sicura esperienza politica e giornalistica e provata fede fascista. Federzoni rispondeva a questi requisiti e svolse le sue funzioni con diligenza, leggendo tutti gli articoli in attesa di pubblicazione, di carattere politico o letterario45. Federzoni godette anche di una certa autonomia nella scelta dei lavori da pubblicare e nelle eventuali censure o modifiche da sollecitare agli autori, pur dovendo sottoporre le materie più delicate al parere di Mussolini e del ministero della Cultura popolare.
Nel 1938 Federzoni assunse la presidenza dell’Accademia d’Italia. Nata nel 1926 per creare un ponte tra il potere politico e l’alta cultura italiana, l’Accademia fu uno strumento fondamentale della politica culturale del regime e dell’opera di fascistizzazione delle istituzioni culturali. Essa, oltre a voler attrarre verso il fascismo gli scettici, ebbe il duplice scopo di elaborare una linea culturale e di svolgere una funzione propagandistica finalizzata a modellare la coscienza delle masse 46. Durante la presidenza di Federzoni, l’Accademia subì una forte politicizzazione e fu in ampia parte collegata alle esigenze del regime di ordine politico, divenendo l’istituzione culturale di maggior prestigio del fascismo, grazie anche all’adesione di personaggi illustri. Federzoni fu l’unico presidente di questa istituzione ad essere sia un importante rappresentante della cultura che un uomo politico di primo piano, concretizzando in questo modo quell’unificazione ideale tra cultura e politica che da tempo perseguiva Mussolini47. Federzoni non fu particolarmente entusiasta del nuovo incarico all’Accademia d’Italia, stando a quanto attesta il suo memoriale difensivo

In verità mi credevo inadatto a quel nuovo compito, e principalmente ero stanco e sfiduciato per tutto ciò che vedevo intorno. Mi preoccupava l’oscura fase in cui era entrata la vita del Paese. La parabola di Mussolini aveva toccato l’acme nel 1929, con la Conciliazione. Sotto l’influsso malefico del contagio hitleriano, il processo involutivo si accelerava. La soluzione più desiderabile per me sarebbe stata il mio ritiro a vita privata; sennonché questo non corrispondeva alle vedute di Mussolini, che, ripetendo il suo vecchio giuoco, tendeva nello stesso tempo a mettermi fuori della politica militante e a trattenermi nell’orbita ufficiale del regime 48.

Il presidente dell’Accademia d’Italia diresse anche la collana “Grandi italiani” della Utet.

Federzoni e la caduta del regime
Federzoni fu contrario all’emanazione delle leggi razziali del 1938. In Gran consiglio si pronunciò contrario, insieme a Balbo, De Bono, De Stefani e Acerbo. Pur essendo riservatamente avverso all’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, Federzoni fece intensa opera di propaganda a favore dello sforzo bellico, in particolare riguardo alle rivendicazioni territoriali italiane dei confronti della Francia e della Jugoslavia. A partire dall’autunno del ’42, secondo le di testimonianze Alberto Pirelli 49 e Ivanoe Bonomi50, il nome di Federzoni circolò insieme a quelli di Ciano e di Grandi, quale possibile successore di Mussolini.
Nel 1943, convinto della disfatta imminente e della necessità di un cambio di governo, Federzoni si avvicinò al Capo di S.M. Ambrosio e al ministro della Real casa Acquarone. Collaborò con Dino Grandi alla stesura dell’ordine del giorno che decretò la caduta del fascismo il 25 luglio 1943. In Gran consiglio sostenne la mozione Grandi, denunciando, con un severo e memorabile discorso, il «falso mito della guerra fascista» e la frattura insanabile tra il Paese e il Fascismo51:

Con l’ordine del giorno Grandi si vuole far finire l’ormai intollerabile equivoco delle masse vestite in camicia nera. Si è insistito talmente tanto per tre anni nel dire che questa è una guerra fascista, che il partito è andato pubblicando le statistiche dei suoi caduti e feriti, come se anche i morti per interessare dovessero avere la tessera. Ora il falso mito della guerra fascista ha accelerato il distacco tra paese e il fascismo e molti italiani hanno pensato che soltanto coloro che si suppone abbiano voluto questa guerra abbiano il dovere di farla.
Mussolini ha dichiarato che nessuna guerra mai è stata popolare. Ciò non è affatto vero. Popolare fu la prima guerra d’Africa, nonostante la sobillazione demagogica che culminò nelle infami calunnie lanciate contro il nostro Esercito da quell’Enrico Ferri che tu, o Duce, volesti fare Senatore. Popolarissima fu la guerra di Libia, primo slancio della volontà italiana di là dal suo mare: di tale guerra tu serbi forse un ricordo impreciso, perché allora eri dall’altra parte della barricata, provocando le manifestazioni di piazza e incitasti le donne a impedire le partenze dei treni militari sdraiandosi sui binari […] Il regime in ventun anni è riuscito in quasi tutto […] ma è fallito in uno dei punti essenziali: mentre con la propaganda spingeva continuamente alla guerra, a qualsiasi guerra, esso non ha provveduto alla preparazione spirituale e materiale della nazione e non poteva provvedervi, perché tale preparazione presupponeva come prima necessaria condizione l’unità degli animi. Per contro, la politica del partito, principalmente negli ultimi otto o dieci anni, ha mirato sopra tutto a dividere gli Italiani. Esempio tipico, la stolta campagna antiborghese.


Per il suo contributo alla caduta del regime, Federzoni fu condannato a morte in contumacia per alto tradimento dal tribunale fascista repubblicano al processo di Verona. Per sfuggire alla cattura si nascose, grazie all’intercessione del cardinale Montini, presso il Pontificio Collegio S. Giosafat a Roma.
Nel 1945, quale membro e gerarca del governo fascista, fu imputato insieme a Bottai, Rossoni e Acerbo, con l’accusa di «aver concorso ad annullare le garanzie costituzionali, a di struggere le libertà popolari, a creare il regime fascista, a compromettere e tradire le sorti del paese conducendolo all’attuale catastrofe»52. Per questo fu condannato all’ergastolo in contumacia dall’Alta Corte di giustizia anche se la pena fu ridotta a trent’anni a seguito dell’amnistia concessa nel giugno 1946. Nel 1946 si rifugiò in Brasile sotto falso nome. Durante il suo esilio in Brasile, Federzoni trovò inizialmente rifugio nelle comunità salesiane. Successivamente, a partire dal luglio del 1946, fu accolto da Francesco Malgeri, ex direttore del Messaggero, a San Paolo. Malgeri fu di grande supporto durante i due anni di latitanza di Federzoni, fornendogli l’opportunità di lavorare come consulente editoriale per l’Istituto Progresso Editoriale, da lui istituito e gestito. Inoltre, Federzoni contribuì, sotto pseudonimo, al giornale Estado de San Paulo.
Nel 1947 fu amnistiato. Nel febbraio del 1948, Federzoni si spostò a Buenos Aires, dove fu accolto da un istituto salesiano.
Tornò in Europa nel 1948, stabilendosi in Portogallo dove, grazie al sostegno del primo ministro António de Oliveira Salazar, dell’ambasciatore Carneiro Pacheco e padre Costanzi insegnò Storia dell’umanesimo presso l’università di Coimbra e, successivamente, Letteratura italiana presso l’università di Lisbona. Fece ritorno in Italia solo nel 1951, circondato dagli affetti familiari a Roma. Qui Federzoni si dedicò allo studio della storia, facendo parte del Comitato di divulgazione storica dell’Unione monarchica italiana e rimanendo in stretto contatto con Umberto II di Savoia con il quale ebbe una fitta e amichevole corrispondenza. Si spense a Roma il 24 gennaio 1967, poco prima di pubblicare il suo libro di memorie Italia di ieri per la storia di domani.

Note

  1. A. Evangelisti, G. F. allievo di Carducci in Federzoni, Raccoglimenti e ricordi, Bologna 1935, cit. p.280.
  2. Ivi, p.281.
  3. G. L. Passerini, Per la memoria di un dantologo artista, in Federzoni, Raccoglimenti e ricordi, cit., p. 291.
  4. Ibidem
  5. Giovanni Federzoni, La Divina Commedia di Dante Alighieri commentata per le scuole e per gli studiosi da Giovanni Federzoni, Cappelli Editore, Bologna 1919, cit., pp.2 – 4.
  6. G. Federzoni, Raccoglimenti e ricordi, cit., p.85.
  7. Ivi, cit., p. 398.
  8. Alberto dall’olio, L’opera di Giovanni Federzoni per le colonie scolastiche, in G. Federzoni, Raccoglimenti e ricordi cit., p. 270.
  9. L. Federzoni, Memorie inutili della famiglia Federzoni (per uso interno), datt., pp. 93, cit., p. 10. Desidero ringraziare il nipote di Luigi Federzoni, Professor Federigo Argentieri, per avermi permesso di consultare questo prezioso e inedito volume di memorie.
  10. Ivi, cit., p. 32.
  11. Ivi, cit., p. 36.
  12. Ivi, cit., pp. 46 – 47.
  13. Luigi Federzoni, Bologna carducciana, Cappelli, Bologna 1961, cit., p. 59.
  14. Albertina Vittoria, Dal carduccianesimo all’Accademia d’ltalia: Federzoni e la cultura italiana, in Federzoni e la storia della destra italiana nella prima metà del Novecento, a cura di b. Coccia, U. Gentiloni Silveri, Bologna, Il Mulino, 2001 p. 120.
  15. Ivi, cit., p. 179.
  16. Memorie inutili, cit., p.73.
  17. Ivi, cit., p. 72.
  18. Ivi, cit., p. 79.
  19. G. De Frenzi, La massoneria nell’esercito, in «L’Idea Nazionale», 17 aprile 1913.
  20. L. Federzoni, Paradossi di ieri, Milano, Mondadori, 1926.
  21. L. Federzoni, Memorie inutili, cit., p.95.
  22. R. Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, Cappelli, Bologna 1952, p. 296.
  23. Federzoni manifestò forti riserve nei confronti delle intercettazioni telefoniche diffuse da Efrem Ferraris, ex capo di gabinetto del ministro Taddei, nel suo libro La marcia su Roma vista dal Viminale. Federzoni ammise la possibile veridicità delle intercettazioni, ma negò che fossero state effettuate da lui. In una bozza di lettera indirizzata a Ferdinando Sciacca, Federzoni suggerì che le telefonate gli furono erroneamente attribuite a causa della somiglianza dell’accento di colui che era realmente al telefono, Dino Grandi, che poteva essere stato scambiato per il suo. Carte Sciacca, minuta manoscritta.
  24. E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 107-109.
  25. Ivi, pp. 119-120.
  26. Ibidem
  27. Anthony Majanlahti, Amedeo Osti Guerrazzi, Roma divisa 1919-1925, Il Saggiatore, 2010, p. 216 e Emilio Gentile, 25 luglio 1943, Laterza, Bari 2018, p. 66.
  28. L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, p. 87.
  29. Mimmo Franzinelli, Il filosofo in camicia nera, Mondadori, 2021, cit., p. 72.
  30. L. Federzoni, Italia di ieri, cit., p. 90.
  31. Ivi, cit., p. 89.
  32. Carte Sciacca, Memoriale difensivo (Luglio 1944), manoscritto datato in calce 18 luglio 1944, p.17.
    Desidero ringraziare il nipote di Luigi Federzoni, dottor Giovanni Sciacca, il quale nel giugno del 2021 mi ha permesso di consultare privatamente questa documentazione da lui generosamente donata in copia all’Archivio Storico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.
  33. Federzoni, Italia di ieri, p. 100.
  34. Renzo De Felice, Mussolini e il fascismo. La conquista del potere 1921-1925 Vol. II Einaudi 1966, p. 651.
  35. Ibidem.
  36. Ibidem.
  37. Ibidem.
  38. Ivi, p.658.
  39. Alberto Mazzuca, Luciano Foglietta, Mussolini e Nenni amici nemici, Bologna, Minerva editore, 2015, p. 286.
  40. Memoriale difensivo, cit., p. 29.
  41. Ivi, cit., pp. 28-30.
  42. Gentile, 25 luglio 1943, cit., pp. 67 – 68.
  43. M. Ferrarotto, L’Accademia d’Italia. Intellettuali e politica durante il fascismo, Napoli 1977.
  44. P. Carucci, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma 1980, p. 294.
  45. A. Baldini, Lettere a Luigi Federzoni per la «Nuova Antologia» (1931-1942), in appendice lettere di L. Federzoni, a cura di M. Bruscia – A. Vittoria, introduzioni di A. Vittoria e di F. Contorbia, Fano, Metauro Edizioni, 2017.
  46. Ferrarotto, p. 11.
  47. S. Casmirri, Uomini e volti del fascismo.
  48. Memoriale difensivo, cit., pp. 58-59.
  49. Alberto Pirelli, Taccuini 1922-1943 (a cura di D. Barbone, prefazione di E. Ortona), Bologna, Il Mulino, 1984, p. 381.
  50. I. Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943 10 giugno 1944), Milano, Garzanti, 1947, p. 33.
  51. Francesco Pellegrini, L’ultima seduta del Gran consiglio del fascismo, Clueb, Bologna 2021 cit., p.184.
  52. Albertina Vittoria, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, in Studi Storici, 1995, Anno 36, No. 3, Fascismo, antifascismo, democrazia. A cinquant’anni dal 25 aprile, pp. 729-760.

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