Bibliomanie

Toti Scialoja. «Poesie con animali»
di , numero 57, giugno 2024, Saggi e Studi, DOI

Toti Scialoja. «Poesie con animali»
Come citare questo articolo:
Monica Longobardi, Toti Scialoja. «Poesie con animali», «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 5, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11270


Per Corrado Manaresi (1977-2024)

«si perdea la sentenza di Sibilla»

Sarà vero che a Cuma una lumaca consuma la giornata sull’amàca1?

Tra le tante città dell’Atlante di Toti Scialoja, popolate da comuni animali dalle stravaganti abitudini, Cuma compare un’unica volta. Il poeta però intitola un’intera silloge alla Sibilla cumana, Le sillabe della Sibilla (1988), e ai vaticini sibillini affidati a foglie che il vento scompiglia: «tutte le foglie vogliono / che la Sibilla sillabi2». Anzi, già dalla malinconica raccolta Scarse serpi (1983), si ha l’epifania della Sibilla:

Il fermaglio scintilla
se la Sibilla sibila:
«Quale alibi sobilla
e assilla ogni tua labile

sillaba?» Soffia un vento
nell’antro […]
(SS, p. 44 /50).


Non per caso si chiama «La Sibilla» una delle riviste che, fondata a Napoli, ispira i suoi giochi enigmistici all’antro della sacerdotessa di Apollo e ai suoi criptici responsi3. Sillabe sibilate che volteggiano al vento, formando figure sonore misteriose ogni volta diverse, formula alchemica della lingua poetica di Scialoja. «Ilari esorcismi4» chiama Scialoja le sue cantilene5, i suoi scioglilingua, i suoi abracadabra6, rituali contro le paure della vita, dal bambino all’adulto. Non si ricorda mai abbastanza, infatti, che l’enigma è connaturato alle unità costitutive delle parole (Silbenrätsel), dei nomi presagio del destino (l’onomanzia) e al potere mantrico delle sonorità che sostanzia le glossolalie, i carmina, le lingue sacre e ludiche, che contano su un non-senso incantatorio7. Insomma, la parola che cura e che scongiura8. «Versi del senso perso», dunque, non solo per un beato “vanverare”(«Oh, letizia del dementare, felicità del vanverare, delizia delle filastrocche in cui si parli con accurata simmetria del nascere, del morire», esclamava Manganelli9) ma come «si perdea la sentenza di Sibilla»10, oscurità e mistero che ricongiunge la poesia al sacro e il poeta a un negromante evocatore di larve11. Per me che mi sono occupata tutta la vita di lingue inventate12, di devinalh e rebus13, di traduzioni omofoniche14 e lingue segrete15, insomma (per volare basso) di vanvere e fànfole16, incontrare di nuovo Scialoja dopo gli anni ’90, quando proposi le sue poesie del senso perso a studenti del liceo, stupefatti e divertiti, è un’occasione d’oro, e tutto grazie ai suoi bizzarri animali.

La parola-melagrana e le Fànfole (« Io t’amo o pia cicala e un trillargento»)

La parola «come musica e come scintilla» – di cui parla Maraini nell’introduzione alle Fànfole – non è dunque dissimile dalla «parolamelagrana» di Scialoja che «contiene e fa germinare i semi sillabici e anagrammatici di tutte le altre17»

In questa prospettiva combinatoria, in questo scrigno di semi sillabici pronti a prendere vita e generare un senso diverso18, «L’ipotesi che tutto sia un bisticcio, / uno scambio di sillabe», per dirla con Montale, potrebbe sostanziare il nonsense che caratterizza la grammatica poetica di Scialoja19, e che lo apparenta a vari altri autori novecenteschi20. Esso spicca dai padri del genere, che Scialoja menziona, tra cui Lewis Carroll21 e Edward Lear, poeta e pittore22. D’altronde, come diceva Manganelli: «dove non c’è gioco di parole, equivoco, nonsense, doppio senso, omoteleuton, semplicemente non c’è la letteratura23» perché la letteratura parla di necessità per enigmi, per sciarade, per rebus dove il senso è occultato, ulteriore24. Ma molto del patrimonio linguistico e versificatorio di Scialoja è retaggio della tradizione poetica italiana dal Due -Trecento al Novecento25.
Parzialmente diversa negli esiti, ma vicinissima nelle premesse al nonsense di Scialoja, è la poesia metasemantica di Fosco Maraini, altro autore che ho amato, contagiando allievi di varie generazioni26, e che invita il lettore a farsi «azionista del poetificio27». Nell’ Introduzione alla Gnòsi delle Fànfole, Maraini parte dalla scintilla del suono28 e dalle sue suggestioni sensoriali29. Come Scialoja, quindi, Maraini fonda la sua poesia esonerata dal senso (comune) nella sua trasmissione aurale ( «la poesia metasemantica va piuttosto recitata o letta ad alta voce […] è legata al suono; al corpo, alla fisiologia, alle passioni della parola […] Bello sarebbe cantarla!», ivi, p. 20).
Si senta in proposito Scialoja:

Io credo che la poesia nasca per esser detta. Se non arriva ad essere pronunciata dalla voce resta in un campo di scrittura, come la musica che ha una sua fase di realtà nel pentagramma […], ma esiste soltanto quando tu la percepisci con l’orecchio. Alle origini la poesia si confondeva con il canto, era accompagnata da strumenti, proprio per arricchirne la sonorità, esaltare il momento della dizione nella sua fisicità; dando valore alla sillabazione coinvolgente il corpo dell’uomo, le corde vocali, i denti, la lingua, le labbra, la gola, nell’atto significante di emettere i suoni30.

Rari gli animali nella Gnòsi (« Io t’amo o pia cicala e un trillargento / ci spàffera nel cuor la tua canzona. / Canta cicala frìnfera nel vento: / E gnacche alla formica ammucchiarona!», (p. 59)31, ma coincidente con Scialoja la suggestione dei toponimi:

ecco Barrùmini e Sèdini […] ecco Alà, Lodè, Lula e Bitti, ecco l’isola dei Soffi, ecco Gonnosfanadiga […] Il servizio degli autobus fra Villaverde e Villamar ha fermate che si chiamano Escovedu, Baradili, Curcuris, Badessa e Lunamatrona; quello Tirso-Chilivani altre di nome Anela, Bultei, Buddusò… […] Da qui alla metasemantica il passo è minuscolo ( Maraini, 1994, p. 19).

Quanti «paesaggi di parole» (Morra, 2019) pronti per far pascolare gli animali di Scialoja!

«I pesci rossi / piccoli e grossi / son tutti rosi / dalla nevrosi» (VSP, p. 101)

La poesia nonsensica per cui Scialoja è noto, illustrata dai disegni dei suoi buffi animali, ha finito per comprimerlo in un giudizio riduttivo di poeta per l’infanzia, compromettendo a lungo il riconoscimento di un valore assoluto della sua poesia nel Novecento32. Da che abbiamo a disposizione tutta l’opera, però, si può fare un bilancio (in gran parte è stato tracciato in occasione del centenario della sua nascita, nel 2014) e valutare meglio gli umori, lo spirito, i temi e l’arte poetica che attraversano l’intera sua poesia, fino all’epilogo (1998). Inoltre, a questo straordinario pittore e poeta (già perché del suo «doppio talento», ha prevalso la pittura), in questi ultimi dieci anni si è dedicato bellissimi studi e monografie, come quelli di Alessandro Giammei e di Eloisa Morra33.
La produzione poetica per cui Scialoja continua ad essere conosciuto e universalmente apprezzato resta comunque quella comunemente designata come poesia per bambini («Poesie con animali»), grosso modo quella che proprio il volume ̶ Scialoja era in vita ̶ Versi del senso perso, del 1989, racchiudeva, includendo sei raccolte di poesie pubblicate dal 1971 al 1985. Poco nota, invece, meno studiata e criticamente dissodata, la cosiddetta seconda stagione delle poesie di Scialoja, quella che va da Scarse serpi (1983) alla fine (Scialoja, 2019), e cui si allude parlando di poesie adulte e della senilità34.
La cronologia interna alle singole raccolte e le interviste fatte a Scialoja impongono però dei distinguo tra queste due parti. Per esempio, in un’intervista del 1992, Scialoja nota proprio i segni di una metamorfosi, legati al “fossile guida” della presenza / assenza degli animali: « Pian piano sono scomparsi gli animaletti e sono apparsi dei paesaggi, dentro i quali io potevo entrare e dentro i quali il mio sentimento umano, la mia totalità poteva espandersi. Nel ’79 cominciai a scrivere delle poesie, raccolte in Paesaggi senza peso, che sono già poesie non più per l’infanzia», Tinterri, 2008. Raccolta ( 1979-80, VSP, pp. 207-241)35, poi confluita in La mela di Amleto del 1984 «che funge da cerniera tra lo Scialoja “comico” e quello più maturo e “pensoso” degli anni Ottanta e Novanta36». Tre lievi levrieri, a sua volta, ultimo incluso nei VSP, anche se già pubblicato nel 1985, origina dal recupero di poesie della stagione nonsensica risalenti agli anni 1971-1979. Altre dichiarazioni di Scialoja tratteggiano le faglie, le venature (già da La stanza la stizza l’astuzia, del 1976, che ancora titola «Poesie con animali»37) e i momenti alterni di questa parabola altalenante tra prima e seconda stagione poetica. Nella seconda metà degli anni Settanta, si possono rintracciare infatti alcune distinte cesure in quella che appare come una stagione luminosa e spensierata; per esempio, in una lettera a Nico Orengo del 1976, Scialoja confessa che scrivere le poesie di Ghiro ghiro tonto (1979, 36 poesie illustrate) gli è servito a lenire «un periodo orribile della mia esistenza (non ancora superato o forse mai più superabile)». Da ciò e da ulteriori disperate testimonianze, scaturisce un monito a guardare agli ameni versetti “per bambini” in controluce, scorgendovi invece in filigrana «un delirio minimo o ilare – un fischiettare nelle tenebre» (Morra, 2014, pp. 203-204)38. E ritorna, così, il concetto di nonsense come scongiuro: « Ci si può difendere con un sortilegio, con un miracolo di assidue assurdità […] è una visione tragica, lo so, ma ho sempre vissuto nella disperazione fin dall’infanzia»39. L’equivoco di fondo da spazzare via è dunque che la verve linguistica della “poesia per bambini”, con animaletti al seguito, origini da uno stato di grazia infantile, felice e sereno in quanto inconsapevole40. Persino gli animali, pur in questa maniera scanzonata, sembrano tradire un’ombra d’angoscia sin dal primo taccuino di poesie dedicato alle nipoti. Per esempio, il topo, considerato «alter ego di Scialoja», s’interroga dall’esordio sulla vita oltre la morte: « Topo, topo, / senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?» (TPT e VSP, p. 9). Un’angoscia senza via di fuga esprime «Oh, topo, topo! / Se corri in tondo / come una trottola / non fai del moto: / sei solo in trappola» (VSP, p.110). Altre domande esistenziali ( si parva licet… alla Caproni: «M’ero sperso. Annaspavo. / Cercavo uno sfogo. / Chiesi a uno. “Non sono,” / mi rispose, “del luogo”»41) esprime spaesato il tricheco frenando la sua insensata corsa sul triciclo: «Sai dirmi, da amico, dov’è che mi reco»? (TPT, VSP, p. 19), o quelle analoghe del bombo che, girando a vuoto, si sente un gonzo e si chiede: «perché ronzo?» (TPT, VSP, p. 34). Il grillo insonne inghiotte un tranquillante (TT, p. 27), e un uccello nero «si chiama merlo / senza saperlo» (TPT, VSP, p. 10), mentre l’insoddisfatta sarta tartaruga «non sogna che la fuga» (TPT, VSP, p.12)42 .

Parodie di testi e immagini: «T’amo, o pio bue!»

Se la filastrocca, la frottola, «le inanità soavi» (VSP, p. 210) sono «per chiunque possieda l’orecchio, la capacità innata e preziosamente gratuita di godere […] del piacere della poesia» (Raboni, TT, pp. VIII-IX), sono pure venate da profondi turbamenti di cui occorre essere consapevoli. Così, la lettura che le sue poesie autorizzano è tutt’altro che semplice o banale. È il caso, per esempio, dei rimandi più o meno dissimulati ad una rosa di poeti del canone scolastico, da una parte, e di quello di noti illustratori, per quanto concerne le figure degli animali, che lasciano intravvedere una profondità, uno spessore e una complessità di germinazione della poesia di Scialoja, che è matrice, vuoi della poesia cosiddetta per l’infanzia, che di quella della dimensione adulta e della senilità (Morra, 2023, pp. 170-172). Alessandro Giammei, che ha vagliato a fondo la biblioteca di Scialoja, riannoda mirabilmente i fili di questo dialogo fitto e ininterrotto con le letture predilette che in quella biblioteca si sono sedimentate, svelando un palinsesto fittissimo di parodie inavvertibili dal lettore comune. Subito dopo la lettura ingenua del bambino, infatti, il «pio bue» denuncia agevolmente Il bove carducciano, o, parodia del medesimo, «L’albatro a cui tendevi / un piccolo caimano» maschera il verde melograno e la pargoletta mano di Pianto antico (Giammei, 2014, p. 95). Con maggior difficoltà, nelle cantilenanti iterazioni bruca bruca bruca, lepre lepre lepre (VSP, p. 138 e 169)43 si dovrà stanare «La neve fiocca, fiocca, fiocca» (lenta, lenta, lenta) di Pascoli (Orfano), amatissimo da Scialoja e mandato a memoria da generazioni di scolari della vecchia pedagogia (Giammei, 2014, pp. 96-97). Leopardi, il più parodiato44: «“Sempre caro mi fu quest’erto corno” / pensa il rinoceronte / senza nessuno intorno», (ivi, p. 89), sino ai «Trecento topi grigi / schierati alle Termopili» che risalirebbero in qualche modo ai Rodipane e Leccafondi dei Paralipomeni della Batracomiomachia (ivi, p. 90). Una parodia si riconosce, per esempio, in: « La lontra in lontananza è color d’erba / che viene e va ̶ ma non vedo a che serva / una lontra attraente a gran distanza / tremolante per troppa lontrananza» (VSP, p. 200) che tributa il suo omaggio a Dante, Purgatorio XI, 115-116 ( «La vostra nominanza è color d’erba, / che viene e va, e quei la discolora»45).
La poesia di Scialoja, lo abbiamo anticipato, dalle prime sue strofette di bambino, alla ripresa della stagione poetica con le poesiole scritte per il nipote James Demby46 e poi per le nipotine Barbara e Alice (si veda avanti), è comunemente associata ad animali, sillabati, rimati47 e illustrati. Tra molti riferimenti alle lettere, alle sillabe che generano gli animali in Scialoja, non ho ancora trovato quello che invece a me verrebbe subito in mente. Scialoja è legato al mondo dell’infanzia (della sua infanzia). Ricca la sua biblioteca di Enciclopedie sugli animali e libri per ragazzi (Renato Fucini, Il ciuco di Melesecche e il «Corriere dei Piccoli», Giammei, 2014, pp. 111-112; da Antonio Rubino a Trilussa)48. Se questo, e la sua precocissima passione per il disegno49, giustifica sia gli animali comuni che quelli esotici, viene in mente anche, nel mondo della scuola per l’infanzia, quegli Alfabeti o abbecedari illustrati appesi alle pareti (A come … Ape, R come… Rinoceronte, Z come… Zebra o Zanzara), Alfabeti degli animali e sillabari50, gli strumenti che allora (ed anche ai tempi della mia infanzia), costituivano l’Abc dell’istruzione. Il sillabario e, ancora una volta, le sillabe51
Per lo più ignorata, in ogni modo, nella pratica scolastica che usualmente scevera il testo dall’immagine, la filologia stessa di quest’ultima componente essenziale del binomio del limerick e di Scialoja. Oltre agli amati autori di nonsense già citati, i cui testi sono popolati di illustrazioni di animali, Scialoja contrae un debito cospicuo con uno dei più grandi illustratori satirici dell’Ottocento, Grandville e i suoi animali vestiti: «sono corvi chirurghi, gatti altolocati, alligatori plutocrati, galli à la page e così via» (Scènes de la vie privée et publique des animaux)52. Per fare solo alcuni esempi, la postura ripiegata in una nicchia della cornacchia, con mani intrecciate sotto alle ginocchia («La cornacchia sonnecchia nella nicchia / della torraccia vecchia», VSP, p. 137), omaggio al noto passero leopardiano, è quella di un lupo solitario di Grandville (Giammei, 2014, pp. 195-196). L’orso che non ha rimorso di Amato topino caro è esemplato sull’orso (stesse brache e bretelle), che curvo traina una carrozzina in Grandville (ivi, p. 197). Analoga matrice per l’istrice, attrice illustre («recita parti tristi / con occhi lustri lustri / inchiostrati di bistri» (TPT [fig. 14], TT, p. 12), sempre mutuata da Grandville in una scena teatrale affollata di animali vestiti (Giammei, 2014, p. 198), mentre in Scialoja è ritratta sola sul palco (ivi, p. 199). Le illustrazioni, quindi – lo vedremo qua sotto con le sue “femmes” svestite ̶ sono una fonte complementare e spesso molto pregnante per l’interpretazione del testo scialojano.

«Questa lepre senza brache». Le scandalose “veneri” di Tre per un topo

A proposito di valore suggestivo delle immagini, veramente sorprendente è che il libriccino «a uso familiare» dedicato alle nipotine Barbara e Alice, il 25 agosto del 1969, vero prototipo della sua poesia per bambini53, mostri figure molto sensuali delle femmine antropomorfizzate degli animali. Traggo queste osservazioni da Tre per un topo ( il topo è Toti, «piccolo topino americano», come lo chiamava la nonna)54. Rispetto al testo delle poesiole, infatti, le immagini accentuano e esibiscono espressioni e pose non precisamente consone allo stereotipo del candore infantile55 e che nelle raccolte successive si mostrano in versione più pudica. Spesso, infatti, si presentano in lingerie o in mise succinta, come la zanzara frequentatrice dei bar di Zanzibar56 che ha un décolleté velato da trasparenze, ma pronunciato, shorts azzurri come il busto, zampe-calze? verdi, e tacchi a spillo, posa equivoca, appoggiata a uno sgabello, con l’altra mano sul fianco, ventre roseo (ricorda Marlene Dietrich in L’angelo azzurro) [fig. 28]57. Altre vestono un babydoll: l’anatra che s’inchina, ampio décolleté con ruche, calza stivaletti rosa con tacco [fig. 30]. La lepre che copre di baci e dice mi piaci al Toti-topo (VSP, p. 20) ha occhi a mandorla verdi con lunghe ciglia, babydoll rosa a pois, corpo di donna e scarpine in tinta con pompon [fig. 33]58. Le faine che fan moine a Faenza posano in gonnellino (uno smerlato e uno sfrangiato, tipo tribale) [fig. 41]. La lucciola che chiama Toti tutta la notte, occhi e bocca alonati di luce-rosa, stellina tra i capelli, scollo generoso (rosei capezzoli!) [fig. 52]59. Dotata di un certo fascino obliquo è quella mosca che ronza a Monza, a Mosca, a Londra […] «e persino a San Pietro»: pettoruta, con vitino … di vespa e tacchi alti, ma in abiti clericali, tonaca attillata e cappello “saturno”, occhiali da aviatore e valigia con adesivi Roma, London, Monza, Paris, Vienna60. In senso generale, molto folta è la compagine degli insetti61.
Sorprende sul podio la zanzara62, con la consonante tra le meno comuni in italiano.
Ma Toti Scialoja spende parole “alate” per la sua beniamina, quel « tormentino da nulla che ronzando ci teneva desti nelle notti d’estate della nostra infanzia»; « è l’insetto che somiglia a questa bella parola » scrive Scialoja63. Oltre alla zanzara di Zanzibar, peripatetica (va a zonzo) frequentatrice di bar (ma quale bar? Quello che apre i suoi battenti nei “bassifondi” di Zanzi-bar!), apostrofata, infatti, come “zuzzerellona” («Andando sempre a zonzo si diventa zuzzurelloni e si finisce in un bar», dice Scialoja, Ottieri, 2014, p. 39) e vestita alla Marlene, in Tre per un topo si legge di un approccio quasi amoroso e peritoso con le bizzose zanzare di Zara e di Venezia (stessa razza, eredità della Serenissima?): «se ti azzardi ad usare poca grazia […] ti azzannano quando le carezzi» (TT, 131).
Ampliando la panoramica sulle zanzare, “veneri vulgivaghe” nel suo canzoniere, spiccate note sensuali si leggono pure in silhouette parlando di letti sfatti in notti passate con zanzare vampire, ovvero signore notturne un po’ vamp: la zanzara dalle zampe azzurre (sarà endemica nelle Azzorre?) va a zonzo nella notte con un partner, cui chiede, sbattendo civettuola gli occhi grinzi: «Mi permetti un zinzino che ti pinzi?» («Con la zanzara dalle zampe azzurre / vado a zonzo, la notte, nelle Azzorre» VSP, p. 90). A proposito di grinze, va detto senza infingimenti che «C’è una razza azzurrina di zanzare / che ha le grinze paonazze nel sedere» (ivi, p. 99). Di colore verde e viola, è la zanzara in Venezuela, quando è sotto le lenzuola (ivi, p. 105). Se di giorno si possono perdere le staffe, in sogno la zanzara magicamente le acquista e, da amazzone, invita il sognatore a un volo a due: «Salta in groppa!»: «e tenera è la notte a Teneriffa» (è bene non far gaffe, chiedendo la tariffa) (ivi, p.195). Da un’equivoca tariffa ( «è quella antica») nella tenera notte canaria (ma senza cani) o canarina (ma senza uccellini canori), si passa a una vera professionista: «La zelante zanzara dell’Alsazia, se all’alba s’alza sazia mi ringrazia» (ivi, p. 253). La zanzara, quand’è sbronza, vola a zig zag per la Brianza, e senza la sua tunica d’organza d’ordinanza: che indecenza! (ivi, p. 42). Ne vogliamo aggiungere un’altra? Qui si sa di quale sete soffra questa ennesima zanzara…: « “Buona zera!” mi dice la zanzara / strofinando le zampe allo zerbino, / “ho tanta zete!” e, zaffete! Mi azzanna / come zitella che scocchi un bacino.» (ivi, p. 72). Molto civettuole sono altre bestiole di Scialoja. Corteggiano a tutto spiano anche l’esercito di pulci che passano in treno merci64: «quando grido: “Arrivederci!” / fanno tutte gli occhi dolci» (VSP, p. 109). D’altronde: «sarò culo e camicia» è l’avance della pulce del Pincio che dichiara «Mi avvinci!» alla sua vittima designata (ivi, p. 195). Un po’ obliqua la situazione tra una cimice emaciata in un cinema a Micene e lo spettatore che si dilegua abbottonandosi la camicia (ivi, p. 105). La farfalla con un’ala gialla e una celeste si specchia con vanità: busto smilzo inguainato in un corsetto nero attillato e scollatissimo (TT, p. 86) alla Zizi Jeanmaire. Che dire di queste bellezze in bicicletta: «Due oche di Ostenda / in guanti e mutande / pedalano in tandem»? (TT, p. 32). E la mucca di Lucca (TT, p. 74), con babydoll viola smerlato? Pazienza la parrucca (la vuole la rima), ma quella linguaccia ammiccante? Una lepre senza brache (VSP, p. 138 e 169), la vespa svestita nella vasca, finita la festa (un bagordo mondano finito in tragedia?, ivi, p. 114). «La vecchia volpe / piena di colpe»65, che, lavandosi le polpe, indossa un reggiseno “a bersaglio” e, per finire, quell’accorciare le distanze delle « Quattro grasse troie turche / in un trogolo a Istanbul / grufolando mele annurche / poi mi dettero del tru » (VSP, p. 101)66. Honni soit qui mal y pense!67

«Un topo a Como». Topi e toponimi.

Molti di questi animali, come si è visto, risiedono in città68:

Nei “paesaggi” scialojani il luogo indicato nei versi – il nome di una città, di un fiume, di un lago – non rinvia mai ad una località reale e ad immagini concrete ad essa legate; il nome è flatus vocis, occasione di gioco, materia fonica con cui gingillarsi attraverso allitterazioni, assonanze, spezzature, rime interne69

Eppure, tra i casi fortuiti, maggioritari, talvolta una certa coerenza si ricrea tra animali e toponimi, anche se al traino sonoro. Per esempio, sia le oche che le ostriche non sorprendono ad Ostenda (VSP, p. 45), città portuale dove di ostriche si lastrica ogni strada (ivi, p. 165)70. Ma il bel lido di Ostenda, è la nafta a lastricarlo, mentre l’ostrica si raggriccia rapida al contatto con la goccia di limone (ivi, p. 227), perché ostriche per merenda si offrono (come in Bel-Ami) «stendendosi sul lastrico nelle strade di Ostenda» (ivi, p. 247). Analoga coerenza lega la gallina a Padova di Tre per un topo, data la notorietà della razza delle galline padovane. Plausibile pure il percorso di Ghiro ghiro tonto: «da Rovereto a Trento / […] / da Rimini a Viserba / […] da Bevagna a Foligno». Geograficamente coerente la gita dei moscerini da Pescia ad Altopascio (VSP, p. 75).

In questo pullulare di sillabe e di animali in viaggio71 o in villeggiatura in un Atlante poetico vasto e bizzarro, dicevamo, tantissimi gli insetti.
Alla compagine di peccaminose zanzare vista sopra, si aggiunge quella povera zanzara senza zeta che langue a Zara (VSP, p. 41): menomata della sua anima consonantica, nonché del suo tipico zzzZZZzzzzzZZZ, trascina la sua esistenza, e «non si azzarda a succhiar sangue».
Se la zanzara dello Zambia zompa su una zampa, significa che fiuta la presenza di uno zampi / rone nella stanza (ivi, p. 42). Una vera attrazione turistica: A Veracruz, sette zanzare di pura razza azteca si ammirano in una teca. Sono un po’ vizze, ma valgono il gruzzolo! («Una volta spesi un gruzzolo / per andare a Veracruz», ivi, p. 43).
Se Scialoja ci racconta le storie delle singole zanzare disperse in zone esotiche, spesso trova la maniera di cantare le gesta collettive di simili animaletti (ancora insetti e vermi), minuscoli singolarmente, ma in numero esorbitante: «Undicimila cimici / traversano la Cina / col camicino bruno», sulla Grande Muraglia, VSP, p. 73 (ricordano l’esercito di terracotta di Xi’an). Per la serie «haccene più di millanta», mille lombrichi versano mille lacrime nel Lambro, ivi, p. 192. Fuori Ladispoli, una Lady tiene al guinzaglio sei millepiedi discoli: 6X1000…(ivi, p. 26). Molto cerimoniosi quei mille bachi in fila a Basilea che compassati dicon «Passi lei!» (ivi, 141)72. Ma Basilea è pure terra alfabetica elettiva di un basilisco in esilio, ormai tanto esile da stare in bilico sul basilico… (ivi, p. 164).
Vanno a sciami i moscerini ad Altopascio (VSP, p. 48), ma se piove a scroscio, sciamano a comprarsi l’ombrello e le calosce (mica scemi). Scemi, invece, i moscerini che vanno a sciami da Pescia ad Altopascio evidentemente senza ombrello «e piove a scroscio / la gita va a finire a scatafascio» (ivi, p. 75). Vanno in folla le farfalle, dove? Fuori Farfa, a far follie (ivi, p. 34); una farfalla euforica, calata sull’euforbia a Sant’Eufemia (ivi, p. 197). Folla malinconica di farfalle a Follonica (ivi, p. 191). La pioggia di maggio sfollò le farfalle a Fiuggi (ivi, p. 112). Evidentemente, Fiuggi è un luogo dove la pioggia vien giù (ivi, p. 215) e pullula di animaletti: le farfalle sfollate di cui sopra, uno scarafaggio a passeggio ( in un fuggi fuggi generale, ivi, p. 46. Oso? In un Fiuggi, Fiuggi generale) o uno scarafaggio che sbuca da un pertugio. Quando? Ma dopo la pioggia di maggio! (ivi, p. 149). Due scarafaggi luridi e lerci, invece, vanno a Lerici in treno merci (ivi, p. 255). Sempre di maggio a Fiuggi terme… «Sul ramo dorme / l’idea di un verme» (VSP, p. 254). In “termini termali”, è allarme: tarme, in torme, accorrono ad Abano Terme (ivi, p. 82) e a Parma, una tarma mangia una sciarpa nell’armadio (ivi, p. 30). Tornando alle nostre bestioline amanti dei luoghi dati agli spettacoli: oltre alla cimice emaciata in un cinema a Micene (ivi, p. 105), «Nel teatro di Acapulco / ogni pulce occupa un palco» (ivi, p. 161). La libellula del lago di Zug (ivi, p. 109) fa concorrenza alla zanzara, quanto a zeta: è zitella e gira a zig zag (chissà come mai la libellula non pulluli a Belluno, dove potrebbe impunemente chiedere: « che fai di bellulo?» (ivi, p. 162). E poi ancora, la cetonia in Estonia (ivi, p. 20); la lucciola di Casamicciola (ivi, p. 58); la vespa intorno al selz a Metz (ivi, p. 85). Una “poesia balbuziente”: « La vespa di Spa / spavento mi fa» (ivi, p. 87). Per finire, al lombrico di Brunico, all’imbrunire, non resta che lombrire (ivi, p. 111), allineandosi, quanto a licenze poetiche paronomastiche, alle troie che danno del tru e alla lontrananza della lontra, o a quel tonno che, a Otranto, risponde educato agli auguri con un «Oltrettonto!» («Monto sul tram ad Otranto e chi ti incontro? Un tonno!», ivi, p. 166).

«Quando la talpa vuol ballare il tango»… i topi ballano!

Abbiamo visto quanto le frottole di Toti consistano nella pura sonorità, nella disciplina della rima «questo ordigno insensato, il cui compito è appunto ricordarci quanto è insensata la poesia»73. Il «legame musaico» («Bello sarebbe cantarla!», diceva Maraini). L’attività di Scialoja scenografo nel teatro e il balletto è nota74. La propensione tersicorea della sua poesia ( «Quando la talpa vuol ballare il tango / il salone si svuota, ed io rimango» VSP, p. 43; TT, p. 40) è marcata da animali ritratti in peccaminose danze (pure la languida anguilla, oltre a scivolare nel fango, balla il tango salivando …)75, anche sulle copertine dei suoi libri (passo di danza della talpa, con collana di perle verdi e sciarpa rossa di chiffon, per TT, e la talpa con collana di perle e body scosciato da ballo, avvinghiata al suo cavaliere, per la nuova edizione di VSP)76. Trovo, resto incantata e partecipo questa nota collaborazione « Roman Vlad musica i testi di Toti Scialoja, in forma di varie danze»77:

1. Il tricheco e la foca ballano un valzer lento Tre chicchi di moca. 2 La vespa balla una Siciliana La vespa di Spa. 3. La vespa balla un Valzer rapido La vespa di Spa. 4. Passeggiata dell’orso al ritmo di una Danza rumena Quando un orso passeggia lungo il Corso. 5. Il Galoppo del lupo Il lupo peloso del Peloponneso. 6. Salterello dello squalo Per saltar di palo in frasca. 7. Il Tango della talpa Quando la talpa vuol ballare il tango. 8. La Polka della zanzara senza zeta La zanzara senza zeta. 9. La Gagliarda della zanzara di Zara Vive a Zara, anzi vi langue. 10. Il Can-Can delle pulci Se sferri due calci alle pulci. 11. Il Minuetto della mucca in parrucca La mucca di Lucca. 12. La Tarantella del sorcio Quando il sorcio. 13. Il fox –trot della scimmia La Scimmia di Signa. 14. La biscia di Brescia danza una Mazurca polacca in ritmo bulgaro Una biscia, a Brescia, lascia. 15. La danza scozzese della vespa, del topo bianco, del cammello e del dromedario Ah! La vespa com’è pesta! Era vispa, non fu lesta. 16. La zanzara dello Zambia zompa al ritmo di una danza cosacca La zanzara dello Zambia. 17. La Sarabanda della starna stanca Stanca stasera cala la starna. 18. La Gavotta della starna sulla Marna Sulla Marna c’è una starna. 19. La Polacca del Condor Ho un condor per condomino. 20. La Padovana del corvo di Orvieto. Ho visto un corvo sorvolare Orvieto. 21. La Pavana del cervo di Cerveteri C’era un cervo a Cerveteri. 22. La Danza liscia della biscia Se all’alba l’erba è viscida. 23. La Hora della civetta. Una civetta di Civitavecchia. 24. La carpa suona sull’arpa la Corrente e la Bourrèe C’è una carpa. 25. La lepre trasforma una marcia ungherese in una Giga inglese Questa lepre esperta arpista. 26. Il Bolero con la zanzara delle Azzorre Con la zanzara dalle zampe azzurre. 27. Il Tango-Habanera dei cani del Kenia Tra i cani del Kenia. 28. La Ciaccona della ruspa sopra il rospo Sento una ruspa che raspa la valle…29. La Rumba del gufo goffo Giocando a golf. 30 La Rumba del gufo goffo (versione alternativa). 31. La Loure dell’ibis Tramonta il sol, sull’infuocato disco. 32. La Musette del pesce rosso Il pesce rosso. 33. La Samba della pantera Se già mezza pantera. 34 La Samba-Maxixe delle tigri pigre Trentatre tigri pigre. 35. La Polka-Valzer del demonio Entrai nel Duomo. 36. Il Gapak dello squalo a scuola Goi, goi, se lo squalo va alla scuola 37. Lo Scimmy del gatto e del gattopardo Uno due tre quattro. 38. Il Cake-Walk del boa Sui baobab fuori Bombay. 39. Il Trepak dei canguri Quarant’un canguri. 40. L’ One-Step del gambero” Quando il gambero di Tangeri. 41. La Controdanza dei topo e dei pipistrelli Sento tonfi tonfi tonfi. 42. La Danza russa dei moscerini Se ad Altopascio piove a scroscio i moscerini. 43. L’Allemanda del pollo Un pollo su un pulman. 44. Passacaglia per la morte di un tafano Quest’oggi fa un anno. 45 La Corrente delle oche Due oche di Ostenda 46. La “più che lenta” del coniglio A Conegliano, per sbaglio, un coniglio m’esce di bocca al primo sbadiglio. 47. La Furlana della zanzara Una fanfara, in fondo alla pineta. 48. La Habanera delle zanzare di Veracruz. Una volta spesi un gruzzolo. 49. La Seguidilla delle balene Durante la stagione balneare. 50. La Mazurka della chiocciola Chiotta chiotta. 51. Il Rigaudon delle rondini Passa una rondine. 52. La Csardas della iena, dell’oca, dei bassotti, dell’ass[i] uolo e della lepre La luna piena, a Siena.

Questo stato “ballabile” della vita, lo vedremo, a un certo punto s’inceppa, rallenta il suo ritmo78 per stagnare nei giorni della fine. «Quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale», Scialoja immagina forse il suo viaggio nell’aldilà, constatando che: «Nell’Inferno manca l’aria la polca si balla di furia / il valzer si esegue al contrario sul parquet del Purgatorio / in Paradiso non si danza ci si sorride a distanza» («Ballabili», Scialoja, 2019, p. 522, 14 gennaio 1998)79. Il congedo dalle immagini, dagli animali e dagli animali in città era avvenuto ben prima.

«Nel territorio della non consolazione passano animali strani bizzarri variamente colorati »

A seguito del dileguarsi delle illustrazioni, una rarefazione del binomio creativo animale-città si nota progressivamente, e, rispetto a quando «Il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva», da Scarse serpi, in particolare, comincia pure ad avanzare l’incombere del pensiero della fine80. Giovanni Raboni, nella Prefazione alle poesie di Scialoja81, assimila ancora “esattamente” la tecnica di Scarse serpi all’uso delle parole che Scialoja aveva fatto «durante la sua precedente incarnazione, quando era o fingeva di essere un poeta “per bambini”» (Scialoja, 2019, p. 7). Ma mitiga questa affermazione, e opportunamente, con l’ammissione dell’ingresso di «una sottile, adulta malinconia», una luce crepuscolare che lascerebbe però immutata la « gioiosa vitalità delle sue macchinazioni lessicali» (ivi, p. 8). Parla quindi di paradiso perduto e di «un lungo viaggio nella mestizia, nello sgomento, nell’amarezza» (ibidem). Metamorfosi che si consolida con Le sillabe della Sibilla, e si sigilla ne I violini del Diluvio (1991). Quanto a Scarse serpi:

Nelle sette sezioni di questa sorta di poemetto in ottave, Scialoja riscrive i miti dell’antichità classica (Miti timorati), fa rivivere giardini malmessi con altalene cigolanti, vialetti di ghiaia, fontane vuote e orchestrine (Il Giardino degli Sguardi), descrive malinconici paesaggi marini e città polverose avvolte da macerie ed erbacce (Paesaggi sul peggio), esplora i labirinti del dolore, della solitudine e dell’eros (L’alibi nel labirinto, Eros e scarse rose, Respiro di serpi, Lento specchio d’acque spente) in Ottieri, 2014, p. 154.

Ecco, proprio in virtù di questa china, da qui in avanti, a parer mio, si ha la sensazione di ascoltare una musica, forse magari la medesima musica, ma che «si esegue al contrario». Cala una «luce malcontenta» (LSS, p. 42 /152), i cromatismi s’incupiscono e con essi svapora anche ogni «gioiosa vitalità». I marcatori di un’evidente e progressiva agonia sono proprio gli scarsi (strani bizzarri) animali e i loro «paesaggi di parole». Cercheremo di seguire questo filo d’Arianna per addentrarci nel «territorio della non consolazione».
Scarse serpi si apre con una buia nuvolaglia su un mare scuro, presagio di un naufragio (SS, p. 9 / 15). Le città accampate nei «Paesaggi sul peggio» appaiono martoriate, in uno stato luttuoso bellico o post-bellico: «Chi non rammenta Mantova / smantellata? Macerie», dove, al passo del viandante, fuggono i ragni «sotto spruzzi / di orina» (ivi, p. 34 / 40). Parma rima con sperma: «Nel dormitorio a Parma / si addensa la penombra / puzzo di piedi e sperma / ogni bocca è una tomba» (ivi, p. 35 / 41). In una Taranto al tramonto, arde un cielo amaranto, «nasce dal mare un rantolo» e l’anima si fa «moribonda tarantola» (ivi, p. 37 / 43)82. Taranto quasi un Tartaro. Al tramonto si staglia un’altra immagine marina di morte «con animali»: « ristagna / il mare tra gli scogli / un bambino in vestaglia / dondola granchi morti» (ivi, p. 28 / 34). Gli altri rari animali appaiono connessi a paesaggi macabri e oltretombali: il cane che «ringhia / proteso al rogo ̶ drago / senz’ali e tutto lingua» (ivi, p. 14/ 20); il cane che fruga tibie nella tepida Tebaide (ivi, p. 30 / 36). Corvi bassi tra cippi foscoliani: «All’ombra dei cipressi / sulle sponde di Cipro» (ivi, p. 36 / 42). «Due corna mirabili / imbrattate di minio» di quello che s’immagina come un minotauro sulla porta del suo labirinto (ivi, p. 41 / 47). Due sciacalli al guinzaglio tra i portici di Modena spuntano nella memoria da un incipit montaliano: «La speranza di rive / derti non m’abbandona» (ivi, p. 60 / 66)83. Un cefalo che guizza «dal grigio stige» e « ricade con sfacelo» (ivi, p. 79 / 85)84 . Si aprono contesti mitici degradati: La Sfinge che «alza la frangia / della coda ed espone / il suo sfintere d’ambra» (ivi, p. 51 / 57); Calipso che deposita «i suoi slip sulla sponda / del letto» (ivi, p. 57 / 63)85 e biblici Davìd e Betsabea (SS, p. 10 / 16); «una figlia di Lot» (ivi, p. 11 /17).86e rimembranze dantesche di un eros che fu («Nessun maggior dolore / che ricordare il tempo / felice—scarse rose» (ivi, p. 66 / 72)87; il versetto biblico già pronunciato dagli avari in Purgatorio: «Adhaesit pavimento / anima mea» (ivi, p. 43 / 49)88.
Scarse serpi, scarse rose-scarso eros89, scarse città, scarsi (strani bizzarri) animali.

«Anubi, il Cane Dio»

Le sillabe della Sibilla (1988), a sua volta, scandisce le sue sezioni su segmenti dei versi leopardiani: « Te, La natura, Il brutto, Poter che, Ascoso, A comun danno, Impera, E l’infinita vanità».
Sulle prime, il ritmo serrato e anagrammato delle sillabe pare quello della sua «precedente incarnazione», ma, per usare i medesimi marcatori, il binomio creativo animali-città, dopo la sezione d’esordio, si allenta per poi arenarsi. Ancora vi si trovano pipistrelli di Persia («Ci siamo spersi in Persia», LSS, p. 11 / 121), una Verona avara di aironi, ma cripticamente prodiga di corvi («VERONA NEVERMORE», ivi, p. 14 / 124)90. Poco più91. Ma già dalla sezione «La natura» (pp. 21-34 / 131-143, «Madre / natura è scura in volto», p. 28 / 138), le città s’interrompono e cedono a spazi non urbani ( il giardino, il lago, lo stagno); le voci della vita giungono ovattate da lontano: «Con l’afa arriva il tonfo / del sasso nello stagno / ̶ un ciangottio e un trionfo / di risatine al bagno // delle oche – le voci / bambine dietro il fitto / delle canne» (ivi, p. 33/ 143). Si rarefanno ancor più i comuni animali, spesso non ritratti, ma appena percepiti: «un serpe // invisibile a un palmo / dal mio respiro» (ivi, p. 40 / 150); una tarantola rintanata (ivi, p. 41 / 151); avvertiti dai tonfi («i tonfi furtivi / dei topi», ivi, p. 32 / 142; il «tonfo / di un cefalo di piombo», p. 42 /152)92. Subentrano animali della cultura letteraria, fiabesca, allegorica e cultuale: un veltro (ivi, p. 71 / 181) e un serpe schiacciato dal piede di un dura Signora (ivi, p. 74 / 184); la Dama e l’unicorno (ivi, p. 75 / 185); Anubi, il Cane Dio, che si scongiura scandendo (sillabando?) la frase-amuleto «Ibis redibis / – non ̶ morieris in bello» (ivi, p. 76 /186); Falada, il cavallo parlante deLa piccola guardiana d’oche (ivi, p. 79/ 189).
Insieme a questa metamorfosi ctonia degli animali, si riafferma l’omaggio agli autori classici del canone scolastico, anche della cultura latina, nuovi Lari e Penati di una terra desolata93. «Un Dio ti sta di fronte / se ti sente e ti vede / ridere dolcemente / – se ti tocca col piede. // Su di me cala il buio» (ivi, p. 47/ 157)94; «Nec possum tecum vivere / nec sine te – stamani / lo grido sulle rive / dove vagano i cani» (ivi, p. 60 / 170), ripresa ovidiana. Vari altri rimandi a personaggi della cultura di scuola che «subiscono il medesimo processo di “straniamento” e “de-sublimazione” ironica»95: le umidi Eumenidi (ivi, p. 82 / 192), Giugurta in ciabatte (ivi, p. 83 /193), i personaggi shakespeariani: Desdemona (ivi, p. 84/ 194), la trafelata Ofelia (ivi, p. 85 / 195), il mantello melmoso di Amleto (ivi, p. 86 / 196). Il rimando al leopardiano «Le grida delle figlie / del cocchiere […] E Teresa? Che lagrime / le traversano il volto?» (ivi, p. 105 / 215)96. L’altera Medea (ivi, p. 112 / 222 e 113 / 223). Nell’«infinita vanità», infine: «Sommessamente chiesi / alla luce di luglio / d’essere morto» (ivi, p. 109/ 219).

«Canta – o mio cane – canta – non latrare»

Il cane è l’animale che vanta più varianti nel canzoniere di Toti Scialoja: alano, bassotto, bracco, levriero, mastino (TT, p. 141), nella poesia giocosa, cui si aggiungono «un vecchio / volpino color sabbia / ed abbaiò parecchio» ( SS, p. 76 / 82) , Anubi97 e il veltro in LSS.
I violini del Diluvio, 1991 (poesie dal 1986-88)98si apre proprio con la sezione «Malinconie canine» (pp. 9-19 / 251-261), incipit della poesia «Malinconie canine / sulle sdraie sperdute / di fine estate – spine / mi si sono aggrappate. // Che prezzo ha più una pena / che si inventa ogni volta? / Fiuto lezzo di iena / a ogni svolta di vento» (VD, p. 12 / 254). Nella sezione si evoca una figura «con animali» che attinge, a mio avviso, ad un’altra fiaba dei Grimm, La vecchia guardiana d’oche alla fonte:

Quando accade ch’io chieda
alla guardiana d’oche
dove porti la strada
ostruita d’ortiche

si tira su con fioche
mani brandelli madidi
della veste ̶ lumache
le attraversano i piedi (ivi, p. 18 / 260).


Ancora un cane (l’invocazione ha a modello l’Iliade)99, e a chiusura della sezione «L’idea del Diluvio»100(pp. 21-33): «Canta – o mio cane – canta – non latrare / la luna è là – è alta – non hai altra / parvenza trascendente da bramare / oltre l’anima tua – che ti fu tolta» (ivi, p. 33 / 275).
La sezione successiva («Il prestidigitatore di Parigi», pp. 35-53 / 277- 295)101 è aperta da «i gridi delle rondini di Siena», uditi da lontano, vagando «come un cieco di scena» (ivi, p. 37 / 279). Altri gridi di rondini risuonano più avanti, fra eco foscoliane (i Sepolcri): «all’alba intendi il grido delle rondini / di che lacrime grondi e di che sangue» (ivi, p. 51 / 293). Nel vicino explicit, un’altra visione di morte:

Dall’altra sponda implorano
̶ allargano le braccia—
negano a gesti – cadono
in ginocchio o di faccia.

È incongruo lo scompiglio
̶ la scena cruda—il pianto
assordante – non vogliono
morire—questo è il punto (ivi, p. 53 / 295).


L’incipit della contigua sezione:«Chiarore di carcere», pp. 55-75 / 297-317), dove carcere rima con l’invocazione virgiliana «parce // sepulto» (ivi, p. 57/ 299). Ancora qualche animale di fronte alla morte102. L’ultimo verso dell’ultima poesia scritta da Scialoja (22 febbraio 1998; morirà il primo marzo) chiude vita e arte poetica: «ogni prima scintilla spenta soffiata lontanissimo» (Scialoja, 2019, p. 536).

Opere citate in forma abbreviata

– Opere di Toti Scialoja

LSS = Toti Scialoja, Le sillabe della Sibilla. 1983-1985, Milano, Libri Scheiwiller, 1988.

Scialoja, 2019 = Toti Scialoja, Poesie 1979-1998, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 2019 (2002).

SS = Toti Scialoja, Scarse serpi, Milano, Guanda, 1983.

TPT = Toti Scialoja Tre per un topo, Macerata, Quodlibet, 2019 (2014).

TT = Toti Scialoja, Quando la talpa vuol ballare il tango. Poesie con animali, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1997.

VD = Toti Scialoja, I violini del Diluvio, Milano, Mondadori, 1991.

VSP = Toti Scialoja, Versi del senso perso, Milano, A. Mondadori, 1989.

– Opere critiche

Giammei, 2014 = Alessandro Giammei, Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja. Topi, toponimi, tropi, cronotopi, Milano, Edizioni del Verri, 2014.

Manganelli, 1994 = Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, a cura di Paola Italia, Milano, Adelphi, 1994.

Maraini, 1994 = Fosco Maraini, Gnòsi delle Fànfole, Prefazione di Maro Marcellini, Milano, Baldini & Castoldi, 1994.

Menechella, 2002 = Grazia Menechella, Il felice vanverare. Ironia e parodia nell’opera narrativa di Giorgio Manganelli, Ravenna, Longo, 2002.

Morra, 2014 = Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja, Macerata, Quodlibet, 2014.

Morra, 2019 = Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte, a cura di Eloisa Morra, Roma, Carocci, 2019.

Morra, 2023 = Scialoja A-Z, a cura di Eloisa Morra, Milano, Electa, 2023. Ottieri, 2014 = Alessandra Ottieri, «Infanzia infera». Il mondo poetico-pittorico di Toti Scialoja, Tesi di dottorato, a.a. 2012 /2013, [25 /06 / 2014].

Tinterri, 2008 = Alessandro Tinterri, Scialoja, il topino e i nonsense per il nipotino James, «Il Secolo XIX», 21 agosto 1992 Poesia e pittura: un equilibrio dinamico. Toti Scialoja, intervista a cura di Alessandro Tinterri, «Cosmopolis», 3, 1, 2008.

Note

  1. «Batte la fiacca, a Cuma, una lumaca; / consuma la giornata sull’amàca» (TPT e VSP, p. 15).
  2. «Il sole basso sveglia / il brillio di una spilla / tutte le foglie vogliono / che la Sibilla sillabi» (LSS, p. 59 / 169). La doppia numerazione rimanda all’edizione originale e alla successiva raccolta in volume (Scialoja, 2019).
  3. La Sibilla. Rivista di enigmistica classica
  4. « Ilari esorcismi di una volta – le istantanee litanie, i minimi tic mistici di una vocazione nonsensica che mi ha frequentato a lungo: dagli inizi degli anni 60 al 1979, appunto» (Nota all’edizione di Tre lievi levrieri, VSP, p. 273).
  5. Si veda il rito scaramantico del girotondo, nella parodia: «Ghiro ghiro tonto / mi sbrigo e non son pronto / da Rovereto a Trento / la ruga sotto il mento / […] il campo pieno d’erba / da Rimini a Viserba / gora gora torba / il ghiro odia la purga / da Bevagna a Foligno / si lagna il ghiro e io ghigno» (VSP, p. 151). Analoghi ritmi incantatori presentano le filastrocche con ripetizione triplice, dedicate alla lepre (ivi, p. 138 e p. 169), e quelle simili a conte infantili: «Uno due tre quattro / passa un gatto quatto quatto / quattro tre due uno / era un gatto di nessuno» (TPT, VSP, p. 22), per cui si veda avanti.
  6. «Elemento primo del gioco è la parola [… ] Organizzata melodicamente nelle ninne-nanne, armonicamente nelle conte e nelle filastrocche. Ecco le Nursery Rhymes, il grande poema sillabico, assonantico, allitterativo, paronomasico, e perenne dell’infanzia. Ancora la parola è per il bambino enigma», Toti Scialoja, Infanzia e nonsense, voglia dell’intangibile, in Animalie, disegni con animali e poesie; testi di Paola Pallottino…[et al.]; a cura di Andrea Rauch, Casalecchio di Reno, Grafis, 1991, pp. 179-180, citato da p. 179.
  7. Monica Longobardi, «Ignotosque deos ignoto carmine adorat»: qualche osservazione sullo scongiuro, «Annali della Facoltà di Siena», 20, 1999, pp. 41-76. Questo studio recluta varie forme di testi del cosiddetto folklore verbale, che hanno funzione magico-terapeutica come quelli di Marcello Empirico, scongiuri in cui glossolalia, xenolalia e altri carmina (SICYCVMA CVCVMA VCVMA CVMA VMA MA A; ARGIDAM MARGIDAM STVRGIDAM, Albula glandulaoffrono un compendio di quanto attiene alla parola e alla gestualità dello scongiuro. Vi si comprendono conte, filastrocche e ninne nanne (Cocchiara). Tutte forme del discorso caratterizzate da una spiccata e complessa organizzazione fonica.
  8. Effetto di mantra, per esempio, esercitano le formule permutative, anagrammatiche e metagrammatiche della sezione «La mela di Amleto» (VSP, pp. 175-187): «Che fai malato Amleto con una mela in mano / che fai mela di Amleto nella mano malata / che fai molesto Amleto matto della tua mela / che fai mela di Amleto destinata al letame / che fai letale Amleto masticandola male / che fai mela di Amleto per metà malandata / che fai melato Amleto con una mela in meno?» (ivi, p. 177), come se la soluzione del dubbio amletico scaturisse dalla rotazione delle facce di un rompicapo quale il cubo di Rubik. Filastrocche metagrammatiche che ricordano le conte infantili sono, per esempio, nella sezione «Pane coltello e piatto» (1973-74, ivi, pp. 117-131).
  9. Menechella, 2002, p. 7 (esergo da Il presepio). «Giorgio Manganelli (1922-1990) è stato tra i primi estimatori della poesia di Scialoja, cui lo accomunavano numerose passioni letterarie – dai petrarchisti al nonsense vittoriano, sino a Stevenson e Poe», Morra, 2023, pp. 136-137, citato da p. 136.
  10. «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Dante, Paradiso XXXIII, 64-66).
  11. A proposito di «Le parole inventate» in letteratura (D’Annunzio), Manganelli, 1994, p. 165 diceva: «la rima è una struttura talmente assurda che ci fa capire quanto poco abbia a che fare con il problema del significato la struttura linguistica […] la rima ci ricorda che le parole sono in primo luogo suono e che questo suono costruisce, allucina, crea, disegna nell’aria delle immagini […] oniriche, sono fantasmi. Ecco, lo scrittore è un negromante proprio nel senso originario, è un evocatore di morti, di larve». Monica Longobardi, Educazione all’obscuritas: applicazioni didattiche, in Obscuritas. Retorica e Poetica dell’oscuro, Atti XXIX Convegno Interuniversitario Bressanone, 12-15 luglio 2001, a cura di G. Lachin e F. Zambon, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 2004, pp. 633-661.
  12. Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti, Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie, Bologna, Zanichelli, 1994.
  13. Monica Longobardi, Cerverí e l’enigma del nome, in Studi di Filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, a cura di P.G. Beltrami, et al., Pisa, Pacini, 2006, vol. II, pp. 899-919. Si dimostra la tesi che Cerverí de Girona e Guillem de Cervera siano di fatto la stessa persona, sulla base della soluzione di un enigma onomastico ( tra logogrifo e sciarada) contenuto ne Lo vers del serv. Della stessa, si veda Jonglerie onomastica: trasformismi ed enigmi nella tradizione romanza e arturiana, ICOS (Congresso Internazionale di Scienze Onomastiche) XXII, Pisa, 28 agosto -3 settembre 2005, «Il nome nel testo», Rivista internazionale di onomastica letteraria, 8, 2006, pp. 479-492. E ancora, “Rebuffier” (o rebussier?): alcuni esempi di “equiuoques de la peincture a la parole”, «La Parola del Testo», 13, I, 2009, pp. 163-204 (sui rebus di Piccardia).
  14. Monica Longobardi, “La langue résonne avant de raisonner”. La traduzione omofonica, «Il gallo silvestre» 14, 2001, pp. 139-148; e, della stessa, Sillabe della Sibilla, «Italiano & Oltre» 16, 2001 /1 pp. 17-23 (emulazione e glosse ai termini “oscuri”, da parte di allievi del liceo, di Aga magéra difúra, lingua inventata da Landolfi).
  15. Monica Longobardi, Parlar coperto: le scritture segrete e il poliziesco oulipiano. Idee per la scuola, in Il giallo italiano come nuovo romanzo sociale, a cura di M. Sangiorgi, L. Telò, Ravenna, Longo, 2004, pp. 49-81.
  16. Monica Longobardi, Vanvere. Parodie, giochi letterari, invenzioni di parole, Roma, Carocci, 2011.
  17. Ottieri, 2014, Tesi di dottorato, p. 98 e «Il segreto della poesia scialojana, insomma, risiede interamente nella musicalità guizzante delle sillabe: la sua è “parola-melagrana” che “contiene e fa germinare i semi sillabici e anagrammatici di tutte le altre”, facendo scaturire quello che Giulia Niccolai ha definito un “trompe l’oreille”», p. 122.
  18. Scialoja afferma: «nelle sillabe di una parola vi sono nozioni, suggerimenti, allusioni che sfuggono al nostro io cosciente, ma che oscuramente operano, creando risvegli e apparizioni. Una sorta di inconscio linguistico. O meglio direi che in poesia le sillabe aprono alla parola uno spazio nella coscienza, ponendosi come quantità sonore. Poesia sarà allora organizzazione sillabica che instaura un luogo, labirinto, giardino, paradiso – inferno se volete», Ottieri, 2014, pp. 43-44.
  19. Luca Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, in «Nominativi fritti e mappamondi». Il ‘nonsense’ nella letteratura italiana. Atti del Convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C.Chiummo, Roma, Salerno, 2009, pp. 307-324, anche al link e Morra, 2023, pp. 100-102.
  20. Andrea Afribo,Tracce di nonsense nella poesia del Novecento. Alessandro Giammei, Nonsense-verse Made in Italy, «Il Verri», 60, 2016 «Comico e poesia», pp. 31-43.
  21. Morra, 2023, pp. 163-164.
  22. « È questo, dunque, il primo fondamentale elemento di contatto tra il poeta romano e il suo “maestro” Edward Lear (anch’egli pittore, oltre che poeta, specializzato proprio nella raffigurazione del mondo animale), autore di celeberrimi limericks – forma poetica mista di versi e disegni – il cui successo, nella seconda metà dell’Ottocento, servì a decretare il definitivo ingresso del “genere”, già presente nella tradizione letteraria inglese, nell’ambito della poesia umoristica europea. […] quando avevo non più di sei anni, cominciai a leggere i nonsense inglesi di Edward Lear. Divenni un fanatico. Amavo alla follia sia i testi che le illustrazioni», Ottieri, 2014, p. 107. Morra, 2023, pp. 118-120.
  23. Menechella, 2002, pp. 11-12 (da Discorso dell’ombra e dello stemma).
  24. «Invece di limitarsi ad essere degli scioglilingua, delle filastrocche, dei nonsense, le poesie di Scialoja si animano ogni volta di un senso, anzi di un di più di senso, che asseconda le più imprevedibili inclinazioni delle parole e dei suoni, sfrutta i più segreti spessori di un nome o di un aggettivo, si infila a sorpresa nell’intercapedine fra due sillabe», Giovanni Raboni (TT), Prefazione, p. IX.
  25. Per le parodie dantesche nella poesia di Scialoja, si veda avanti Giammei, 2014. Per l’Otto-Novecento: «Ho cominciato a scrivere poesia verso i dieci anni. Erano strofette comicogrottesche, per lo più concentrate sugli animali. Sono stato pascoliano, crepuscolare, a diciott’anni ero innamorato di Ungaretti, a venti fui ipnotizzato da Mallarmé», Ottieri, 2014, p. 6. Per l’influenza di Pascoli, si veda Morra, 2023, pp. 174-176.
  26. Monica Longobardi, Il chialo, la sbèrbola e il labirinto, «Italiano & Oltre» 10, 1995 /5, pp. 262-266 (esperimento didattico di simulazione del glossario fantastico del Lonfo e repliche poetiche).
  27. «Nella poesia metasemantica il lettore deve contribuire con un massiccio intervento personale. [ …] il lettore non diviene solo azionista del poetificio, ma entra subito a far parte del consiglio di gestione e deve lui, anche, provvedere alla produzione del brivido lirico», Maraini, 1994, p. 16.
  28. «proponi dei suoni ed attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari del tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi […] è dunque la parola come musica e come scintilla», ivi, pp. 15-16.
  29. «Di valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell’ombra e del profumo delle parole? Elencherei parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce, oppure parole polverose e bigie […] parole a pallini e salate, parole massicce, fredde, nerastre […]», ivi, pp. 16-17. Proseguendo: «nel caso mio il fatto di essere cresciuto parlando lingue diverse, e d’averne poi imparate delle altre, alcune di cui peregrine assai, mi ha reso cosciente sin da piccolo della parola come oggetto, cosa, fastello di suoni, polline di sogni. La parola era un giocattolo, un fuoco d’artifizio […] La parola poteva venir rigirata, rivoltata come un guanto, annodata come uno spago […] Piano piano imparai ad amare le parole col gusto che il musicista ha per i suoni e i timbri, il pittore per i colori e gli impasti […] La parola era infine un tesoro e una bomba. Ma soprattutto era una caramella, qualcosa da rigirare tra la lingua con voluttà», ivi, p. 17. Del resto, Manganelli così si esprimeva in Qualche licenza poetica contro la chiarezza: «questa fatica dell’esser chiaro a me pare un agire a contraggenio del linguaggio, e propriamente consiste nel tentare di tarpare la volatile vitalità delle parole […] il linguaggio è serpentesca forma, animale lubrico», Manganelli, 1994, p. 40.
  30. Elena Carletti, «Da un agire nell’ignoto»: registrazioni, impressioni, foto-grafie tra pittura e poesia, in Morra, 2019, pp. 15-31, citato da p.18.
  31. «Il lonfo», p. 23, è reputato un animale; «E gnacche alla formica…» è ripresa e rovesciamento della morale della nota favola (contro l’«ammucchiarona»), con avvio parodico de Il bove (anche Scialoja ne fa una parodia: «T’amo, o pio bue! / Anzi ne amo due», TPT e VSP, p. 15).
  32. «Nonostante un’attività poetica dispiegatasi in un lungo arco di anni (1961-1998), non si può dire che alla figura di Scialoja poeta abbia arriso una fama pari a quella che ha conosciuto il pittore, nonostante l’apprezzamento di critici-scrittori di eccezione: da Antonio Porta a Giorgio Manganelli e a Giovanni Raboni, che ha additato in lui “il talento poetico più originale e compiuto rivelatosi in Italia nel corso degli anni Settanta e Ottanta”», Luca Serianni (in Morra, 2023, p. 100). Giovanni Raboni, nella Prefazione alle poesie “adulte”, parla di «ghettizzante categoria della produzione “scherzosa” o “giocosa”. Categoria che la seriosità accademica un tempo dominante […] tende a considerare, chissà perché, intrinsecamente e quasi fatalmente “minore”», Scialoja, 2019, p. 6.
  33. Giammei, 2014; Morra, 2014, 2019 e 2023.
  34. Paolo di Nicola, Vecchiaia o vecchiezza: stile tardo di Toti Scialoja?, «L’ospite ingrato», 10, 2021, luglio-dicembre, pp. 323-342.
  35. Roma, Litografia Bruni, 1981: «Dove sono le nevi», «In mezzo ai rovi a Ninive», «Sono in Asia ed Asia sia», «In quel di Assisi l’estasi», «Chi mai grida in Crimea», «Edere fanno ressa», «Passeggiammo per Fiuggi», «Dove il fiume fa una curva», «C’è un nibbio nel cielo di Gubbio», «Sto premuto alla rete», «Lungo il greto dell’Arno», «In mezzo alla Meremma», «Miele nella tua bocca», «Il raggiro più amaro», «Andava alla deriva», «Sere, ma quali sere», «Mi farò per l’autunno», «Il melo che scrollo nel sogno», «A Ostenda se una tenda», «Sul lago Trasimeno», «Mi arrischio contro voglia», «Se ci sentiamo invasi», «È mesto il mare a Mestre», «Sull’orlo del cratere», «L’ippodromo Parioli», «Piazza Cola di Rienzo», «Sordo Lago di Garda», «La cerea ragazzetta», «D’inverno venne a Vienna», «Notti beate a Tebe», «Basta sbarcare ad Itaca», «Dentro l’ombra dell’edera», «Domenica ma al buio»,«Paesaggi senza peso».
  36. «Fatta eccezione per La mela di Amleto (che funge da cerniera tra lo Scialoja “comico” e quello più maturo e “pensoso” degli anni Ottanta e Novanta), tutte le raccolte sopra citate (anche Tre lievi levrieri che, pubblicata dopo La mela, riunisce inediti degli anni 1971-79) contengono illustrazioni che accompagnano le singole poesie e fanno tutt’uno con esse», Ottieri, 2014, p. 104. La mela d’Amleto (1974-1980).
  37. «Ne avevo alcune ed erano un po’ meno infantili: c’era un’acidità maggiore, un’intelligenza un po’ crudele. Così nacque questo libro che si chiamava La stanza la stizza l’astuzia», Tinterri, 2008. «In effetti La stanza ha davvero un tono diverso dai libri precedenti, con i versi per nulla adatti ai bambini come «Quattro grosse troie turche / in un trogolo a Istanbul» o «I pesci rossi […] / son tutti rosi / dalla nevrosi», Giammei, 2014, p. 186. Se ne veda l’interpretazione di Antonio Porta, qui riportata alla nota.
  38. «Io non conosco tutte le infanzie, conosco solo la mia infanzia. Quello che ricordo di allora è uno stato d’animo dentro il quale vivo ancora. L’infanzia è una cosa molto seria. Il mio ricordo è un periodo di solitudine assoluta, di sospetto, di ‘mito’ continuo. Il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinto e la morte non esisteva. Questa infinità, questa perpetuità mi sgomentava e affascinava allo stesso tempo. Sapevo di essere un bambino, assumevo il ruolo con amarezza, o con dolcezza se era il caso, ma ero pur sempre io, non ero né “bambino” né altro. La mia infanzia di allora è immersa in una sensazione di unicità. La mia infanzia sono io», Ottieri, 2014, p. 37.
  39. «In un’intervista di qualche anno prima (1989) l’autore aveva reso, sugli stessi argomenti, dichiarazioni ancora più dure: “ Essere artista ha voluto dire non solo scrivere e dipingere, ma un modo di ripulsa alla vita, questa tortura di ombra e luce, questo nulla interrogante, prevaricante, impossibile da reggere. La vita è sempre stata una incomprensibile negazione, per me; tanto più lo è ora che sono vecchio. Ci si può difendere con un sortilegio, con un miracolo di assidue assurdità, di evanescenze. La pittura è un modo di esorcizzare questa orribile corsa alla distruzione, alla cancellazione” [ … ] “è una visione tragica, lo so, ma ho sempre vissuto nella disperazione fin dall’infanzia”», Federico Francucci, Rumori delle immagini che passano (a dispetto di Duchamp). Uno sguardo sulla poesia ultima di Scialoja, in Morra, 2019, pp. 112-134, in particolare, pp. 113-114.
  40. «L’infanzia di cui parla Scialoja non è luogo edenico, spazio della fantasia innocente, del riso, del gioco, della spensieratezza, bensì “infernale regno delle apparizioni. Terrificante durata, incalcolata permanenza”, insieme paradiso e inferno mescolati in un presente assoluto», Ottieri, 2014, p. 130.
  41. Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989, p. 340 («Bisogno di guida»).
  42. Per queste osservazioni, si veda Elena Carletti, in Morra, 2019, pp. 26-27.
  43. «Questa lepre senza brache / mentre bruca bruca bruca / fa pipì dentro una buca / perché è lepre lepre lepre» (VSP, p. 138); «La lepre in fretta bruca bruca bruca/ la lepre a un tratto si cala le brache / il vento soffia in aria una festuca / la lepre fa la piscia in una buca / la festuca discende e la ricopre / bruca in fretta la lepre lepre lepre»» (ivi, p. 169).
  44. «Calano a mille sugli ermi colli / della Maremma i merli folli / per far merenda coi vermi molli», Giammei, 2014, p. 90. « Il sabato del vigliacco» (VSP, p. 201).
  45. Altro dantismo («Purgatorio I che d’Annunzio riprende in I pastori») è quel magnifico «A mezzogiorno, nella luce piena, / sui tavolini del Caffè Ruschena, / conobbi il tremolar dell’amarena», VSP, p. 245; si veda Giammei, 2014, pp. 98-99.
  46. «Quando, nel 1961, ho cominciato a scrivere poesie per il mio nipotino che stava a Roma […] non potevo concepire che i versi non fossero accompagnati da un disegno», Ottieri, 2014, p. 36. Per la deludente esperienza parigina, il valore dei versi quali consolazione dalla solitudine, l’isolamento, e la nostalgia di «questi ciottoli che sono le parole della lingua italiana», Morra, 2014, pp. 139ss.; Giammei, 2014, pp. 122-123. . «Queste poesie si fondavano sulla parola italiana, che mi piaceva molto sillabare, sentire nel peso che ha la parola rispetto a quella francese», Tinterri, 2008.
  47. « Erano le parole che mi portavano l’animaletto ed era l’animaletto che portava con sé la storia, perché la rima voleva questo», Ottieri, 2014, p. 42.
  48. «Da Trilussa, Toti mutua innanzitutto la selva di animali da cui trarre ispirazione […] se quelli da cortile […] scompaiono dai nonsense, costante rimarrà la presenza del tipico bestiario della tradizione romana (le oche, la lupa) e degli animaletti piccolo-borghesi (pulci, blatte, zanzare, pidocchi, ragni), che devono il loro ingresso nel campo del favolismo poetico all’inventiva del gran romano», Morra, 2014, pp. 25-26.
  49. «Non gli resta che tirare fuori il suo album da disegno (lo porta sempre con sé, insieme ai quaderni di scuola) [… ] ecco, in pochi colpi di pennino, un leone, un gatto, un topo e un serpente», Morra, 2014, p. 15.
  50. «E naturalmente gli animali. Quelli domestici e quelli feroci, quelli del cortile e quelli della foresta, i mammiferi e gli uccelli, colti nel loro ambiente naturale oppure molto spesso “umanizzati”, secondo l’antica tradizione delle favole che sarà poi ripresa e sviluppata dai fumetti e dai cartoni animati», L’Abc degli animali. Gli animali negli antichi sillabari illustrati.Maurizio Festanti, Gli antichi sillabari della Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, 2018.
  51. La divisione in sillabe, combinata con la cesura del verso, sembra ispirare poesie a tmesi / a rime ipermetre quali «L’ippopota disse: “Mo’ / nella mota ho il mio popò!”», TPT, VSP, p. 10); «Dentro l’antro / sento un ranto / lo nell’ombra, / è la lontra / che si roto / la al mio fianco / e mi mormo / ra: “Dottore! / Bell’incontro”», VSP, p. 65 o «Sotto un ace / ro il rinoce / benché lace / ro e di pece / dorme in pace. / Sotto un noce / ch’è di fronte / ronfa il ronte», ivi, p. 161. Ancora molti esempi, tra cui: mosce / rini, ivi, p. 48; Appennino tosco- / emiliano, ivi, p. 52; veteri / nari, ivi, p. 61; pipi /strelli, ivi, p. 146; Sessa / Aurunca, ivi, p. 168; tras / colora, ivi, p. 231 e molte altre anche nella versificazione successiva (Scialoja, 2019, per es.: ele / mosina e ele / ganza, LSS, p. 52 / 162).
  52. Le osservazioni che riguardano Grandville sono tratte dal capitolo«Toti, Grandville e gli animali vestiti», Giammei, 2014, pp. 193-209, cit. da p. 194, che si legge anche al link . Inoltre, si legga «Motivi e figure. Viaggio nei libri nonsense», Morra, 2014, cap. IV, in particolare pp. 170 ss.
  53. «Un love-gift: Tre per un topo», Morra, 2014, pp. 152 ss.
  54. Il volume della Quodlibet non ha numerazione, mentre Eloisa Morra dice di esaminare il manoscritto che definisce «Composto da 117 pagine accuratamente numerate», Morra, 2014, p. 153. Perciò, la numerazione delle illustrazioni, tra quadre, è mia.
  55. Di fatto, secondo Scialoja: « Il bambino è invece acutissimo, malizioso, angosciato», Morra, 2014, p. 144. Lo stile provocante risale alle lettere inviate par avion a James Demby dal 1961. In una vediamo una gatta con cuffietta che, seduta alla toeletta, si annoda una cravatta, il corpo procace di donna, in body e giarrettiera («Un po’ sciatta è la mia gatta», Giammei, 2014, p. 183, fig. 7).
  56. «Una zanzara di Zanzibàr / andava a zonzo, entrò in un bar » (TPT e VSP, p. 17).
  57. A proposito di versioni grafiche più pudiche e normali, in raccolte successive, al posto di questa zanzara-Marlene, abbinata alla medesima poesia, in TT, p. 18 si ha una mesta zanzara viola che si tiene una zampa sulla testa, afflitta dal «mal di mar».
  58. Invece, la lepre amorosa nel disegno in TT, p. 11 morfologicamente è un semplice animaletto.
  59. Tra le veneri di TPT [non illustrata], molto prude quell’acciuga di Lecce che, se il mare si prosciuga, scioglie le treccie (sic) perché resta nuda…
  60. Tra le destinazioni sulla valigia, manca Mosca. È l’illustrazione 24 di TPT a tutta pagina. In TT, p. 13, la medesima mosca viaggiatrice ha il corpo tozzo e villoso dell’animale comune.
  61. Molti gli insetti anche nel Pascoli (ape, bombo, cicala, grillo, lucciole, formica),  Saverio Simeone, Gli animali nella poesia di Giovanni Pascoli, Cesena, Società editrice “Il Ponte Vecchio”, 2016.
  62. Una vespa! Che spavento (1969-1974). Prima parte: «La zanzara senza zeta (1969-71) », VSP, pp. 39-67.
  63. «Più avanti, sempre a proposito della parola “zanzara”, Scialoja scrive: “Zanzara è parola fragile, incorporea, attraversata dalla luce. Perché le parole hanno densità, colori, nervature: sono figure in loro stesse. In effetti, la parola zanzara somiglia all’insetto cui fa allusione e con cui convive nella nostra mente, o meglio è l’insetto che somiglia a questa bella parola. La parola è certo più straziante ed enigmatica di quel tormentino da nulla che ronzando ci teneva desti nelle notti d’estate della nostra infanzia.” (ivi, p. 224)», Ottieri, 2014, p. 40, nota 116.
  64. Vedi pure «Due scarafaggi sul treno merci», VSP, p. 255. «Ricordo la gioia legata alla domenica in cui arrivava il “Corriere dei piccoli”. Adoravo le poesiole: «Fortunello mesto dice: “sono un povero infelice. Cari amici, arrivederci parto con il treno merci”», Tinterri, 2008.
  65. «Da una lettera al nipote James Demby, 1961», Morra, 2023, p. 204 e Morra, 2014, pp. 144-145.
  66. « – Scrive Paolo Mauri – “gli animali da cortile e da stalla non sono presi molto in considerazione” (galline e maiali, ad esempio, sono assenti)», Ottieri, 2014, p. 113. Manca la gallina in Scialoja? In Tre per un topo, c’è una gallina che pare in procinto di rifarsi una vita: «La mia gallina a Padova / da che è rimasta vedova / razzola e poi si spazzola / con spazzole di setola». Comunque, L’alba di Pascoli potrebbe fare da protesi: «Raspava una gallina sopra il ciglio / d’un fosso. Po s’alzò, scosse la brina, / scodinzolando, con uno sbadiglio». E che dire di «Un pollo su un pullman / in viaggio per Baden / avvolto in un loden / si sente nell’Eden; / sua moglie, col rimmel, / gli fuma le Camel» (VSP, p. 55)? I maiali sono assenti? E quelle «Quattro grasse troie turche»?
  67. Antonio Porta, invece, interpreta in modo ancora più forte (e osceno) questo gioco linguistico del tru: «lo sento come un bellissimo insulto [… ] gli hanno dato del “porco”», La stizza nella stanza, in Animalie, 1991, pp. 181-182, cit da p. 182. Nel medesimo passo della Prefazione a La stanza la stizza l’astuzia (anche in VSP, pp. 268-272), del resto, immaginava l’esercito di pulci in treno merci, che fanno tutte gli occhi dolci «come all’interno di un’immensa “casa chiusa”» (VSP, p. 271). Toti Scialoja, La stanza, la stizza, l’astuzia. Poesie con animali, prefazione di Antonio Porta, Roma, Cooperativa scrittori, 1976.
  68. «Sono in ogni caso i toponimi […] a costituire l’ingrediente più irrinunciabile della poesia di Scialoja, capaci essi stessi di accendere spesso il gioco paronomastico», Morra, 2023, p. 132. Corrispondenze tra zoologia e geografia traccia Anatole Pierre Fuksas, Locus in fabula, «Trame di letteratura comparata», Rivista del Dipartimento di Linguistica e Letterature Comparate dell’Università di Cassino, 2, 2001, pp. 163-170.
  69. Ottieri, 2014, p. 93. «I luoghi in cui si muovono gli “attanti” delle storielle scialojane sono tratti dall’atlante geografico, sbucano dalla memoria dell’autore, dai ricordi di scuola o di viaggio: nomi di nazioni, città, paesi, piccole località, scelti dal poeta solo per il loro potere evocativo, per la loro particolare sonorità e dunque per salvaguardare il gioco fonico e ritmico dei versi» (ivi, p. 115).
  70. «Nessuno si offenda / se dico che a Ostenda [… ] Se dico che l’ostrica / non solo si mastica: / con essa si lastrica / l’intera città» (TT, p. 121).
  71. «Il mondo che tratteggiano è un mondo tutto linguistico, frutto di agglutinazioni, concrezioni, annominazioni, scomposizioni, poliptoti, paronomasie che hanno origine sempre dal nome di uno degli animali […] dei Versi del senso perso (ma presenti anche, in altra veste, in molte poesie “serie”), da un toponimo, o come nella linea “seria”, da un oggetto o uno stato d’animo», Laura Lucia Rossi, Il senso ritrovato. Il lettore “fiduciato” e il recupero della comunicazione letteraria nella poesia di Toti Scialoja, in Morra, 2019, pp. 79-95, cit. da p. 86.
  72. Il disegno in TT, p. 97 vede due bachi che, con le braccia, fanno segno all’altro di passare.
  73. Manganelli, 1994, p. 209 («Parole sbriciolate»). «“Toti ci diceva pensate una parola e scrivetela […] Una volta, ricordo, scrivemmo “mosca”. Bene, diceva Toti, ora pensate a tutte le parole che fanno rima con mosca o che le somigliano, e scrivetele: fosca, losca, lisca, pesca. Da questa lunga lista di parole Toti sceglieva poi quelle che “suonavano” meglio al suo orecchio e le ricomponeva, cercando una plausibilità di situazione anche nello smarrimento del senso comune”», Morra, 2014, p. 156.
  74. «Parte integrante della sua ricerca fu il lavoro per il teatro, al quale si dedicò collaborando con scrittori, musicisti, registi e coreografi d’avanguardia (Vito Pandolfi, Aurel Milloss, Roman Vlad). Tra i suoi allestimenti si ricordano L’opera dello straccione di John Gay (1943, proibita dalle autorità fasciste); i balletti Marsia di Luigi Dallapiccola (1948) e Il principe di legno di Béla Bartók (1950); Traumdeutung di Edoardo Sanguineti (1964), Il Ratto di Proserpina di Pier Maria Rosso di San Secondo (1986)»,Quodlibet.it. Morra, 2023, pp. 153-156. Quanto ai programmi televisivi per bambini, Chiara Mari, «Una favolosa percezione dello spazio e del tempo». Scialoja scenografo: il dialogo con Ziliotto e Calvino, in Morra, 2019, pp. 45-66. «Ho anche insegnato scenografia per trent’anni all’Accademia di Belle Arti ed ho insegnato questo. Lo spazio scenografico è lo spazio tout court, è lo spazio dell’arte, della pittura che poi diventa scenografia, che non perde nulla ma si arricchisce di un senso ulteriore, di una funzione ulteriore che è quella di far apparire il tempo del dramma», Tinterri, 2008.
  75. «Quanto è languida l’anguilla / mentre scivola nel fango, / la saliva le scintilla / come quando balla il tango» (TPT, VSP, p.13). Il tango ritorna nella seconda parte del suo canzoniere, anche se con tutt’altro spirito: «t‘alzi dal letto socchiudi la porta / perch’io mi addentri con passi di tango», Scialoja, 2019, p. 236; fango e tango rimano nuovamente: «Ai piedi della croce / il gelo ha indurito il fango / ̶ di tacco e con un fil di voce / accenno un passo di tango» (VD, p. 31 / 273).
  76. Einaudi, 2009 e 2017. Quanto a talpe ballerine: «C’è una talpa in una stanza / balla scalza fino all’alba» (TPT).
  77. Ballando con Toti ,Morra, 2023, pp. 275-276.
  78. «via via mi sono accorto che la metrica sempre usata non è più sufficiente. Non mi bastano più il settenario, né l’ottonario: l’endecasillabo non è abbastanza prolungato. Ho bisogno di altri ritmi, più distesi. Non voglio però uscire dalla metrica. Io non amo i versi liberi: quelli sì che sono davvero un nonsense», Ottieri, 2014, p. 169.
  79. Evidentemente peccaminoso è il ballo, se l’esegue, in chiesa (e senza calze!) il daemonium: «Entrai nel Duomo: / ritto su un uovo / vidi il daemonium / danzare al suono / di un vecchio armonium / senza le calze / la polca e il valzer» (TT, p. 77). E «In mezzo alla calca / si balla la polca, / la pulce che salta / non turba le danze: / sprofonda nel dolce / tra i culi e le pance» (VSP, p. 142).
  80. «Nell’ottobre del 1982 Scialoja invia a Giovanni Raboni, conosciuto da poco, il dattiloscritto di Scarse serpi per promuoverne la pubblicazione presso Garzanti. Nella lettera di accompagnamento al testo vi sono segnali evidenti del mutato stato d’animo del poeta: “Sono quasi convinto che queste poesie siano il meglio di quanto ho scritto fino a oggi. Non è un pensiero che mi rallegra.” «Perfettamente consapevole di essere entrato in una nuova stagione della propria esistenza di uomo e di poeta, in una cruciale fase di transizione non priva di turbamenti e di sentimenti angosciosi, Scialoja vive con “spavento” la propria metamorfosi poetica; percepisce la profondità del cambiamento in atto e lo avverte come qualcosa di radicale e ineluttabile», Ottieri, 2014, p. 153.
  81. Prima nell’edizione del 2002 (Poesie. 1961-1998), poi passata all’edizione del 2019, che comprende varie sillogi già pubblicate, da Scarse serpi sino al postumo Cielo coperto, per cui citerò entrambe le numerazioni, dalle raccolte individuali (SS, LSS, VD etc) e dal volume del 2019.
  82. La matrice giocosa delle due città, Taranto e Mantova, e della tarantola (che genera Terontola), si riconosce già in TPT: «Se viaggia dormendo la vecchia tarantola / e sibila e rantola da Taranto a Mantova / il controllore la scuote, la brontola, / finch’essa, alterata, discende a Terontola» (VSP, p. 19).
  83. Per il commento di Montale: «Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagniuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: Che cani sono questi? E il vecchio secco e orgoglioso: Non sono cani, sono sciacalli».
  84. «Grigio stige» è il funereo colore dello stagno al tramonto in cui – nell’ultima poesia della raccolta (forse la più malinconica) – un cefalo s’innalza “senza stile / ricade con sfacelo” (e non è difficile intravedere nella caduta “rovinosa” del pesce nell’acqua dello stagno una metafora della crisi esistenziale e poetica nella quale Scialoja temeva di stare precipitando)», Ottieri, 2014, p. 160.
  85. «Anche personaggi della mitologia greca e della storia antica – “riciclati” in contesti che non hanno più nulla di tragicamente solenne – subiscono il medesimo processo di “straniamento” e “de-sublimazione” ironica […] in Scarse serpi: […] mentre Calipso, reduce da un amplesso erotico per nulla romantico, dimentica gli slip sulla sponda del letto («quasi un lapsus / dopo una pausa») e con gesto poco elegante alita sulla collana per lucidarla («affida all’alito / la collana di opali», ivi, p. 63), Ottieri, 2014, p. 148.
  86. Davìd e Betsabea (SS, p. 10 / 16); «una figlia di Lot» (ivi, p. 11 /17).
  87. «Nessun maggior dolore / che ricordare il tempo / felice – scarse rose / alla luce di un lampo. / Uno specchio incoraggia / le rose a lume spento / – or le bagna la pioggia / in sogno e move il vento. 1-3 Nessun … felice: Dante, Inf. V, 124-5; 6 a lume spento: Purg. III, 132.; 7-8 or … vento: ivi, 130.»Treccani.it(scheda di G. Cavalli, ma Dante, Inf. V, 121-122).
  88. Inoltre, «Il naufragio dell’Ulisse dantesco è invece ripreso in due quartine, nelle quali Scialoja mette in atto il consueto processo di de-sublimazione ironica del mito antico, la cui essenza tragica (contenuta in versi d’intonazione aulica: “colò a picco / in un turbine di vento”, “tardo pervenne il tuono”, ecc.) è come svuotata, “alleggerita” dalla presenza del verso incipitario che si richiama ad una nota canzoncina per l’infanzia (“C’era una volta un piccolo / naviglio”)», Ottieri, 2014, p. 155. Morra, 2023, p. 212.
  89. Eros e rose, superfluo dirlo, sono l’uno anagramma dell’altro. «In Eros e scarse rose si susseguono immagini di estati lontane trascorse al mare, inevitabilmente associate al ricordo della donna amata, colta in atteggiamenti anti-sublimi, intimi, mollemente sensuali, tra letti sfatti, calze sfilate, odori forti di corpi e oggetti», Ottieri, 2014, p. 159.
  90. è la parola meccanicamente ripetuta dal corvo, The raven, di Poe. Scialoja eseguì una versione personale di questa poesia, in cui si distinse traducendo in modo ogni volta diverso il ritornello “nevermore” (“Nera bara!”, “Verbo amaro!”, “Niente amore!”, “Marmo greve!”, “Verme raro!”, “Neve e aurora!”, “Sempre sera!”, “Breve bora!”, “Eppur si muore!”, “Nero umore!”, “Mero orrore!”), per cui si veda Morra, 2023, pp. 49-50 e 269-271.
  91. In America «un lentissimo treno / gremito di gabbiani / transita all’orizzonte» (ivi, p. 16 / 126); i gridi orrendi delle rondini in un Chianti / Pianti (ivi, p. 19 / 129).
  92. Altre immagini di animali: «Volano attorno ladre / vespe con ira svelta» (ivi, p. 28 / 138;) la capra alla catena (ivi, p. 38 / 148); il cavallo (ivi, 39 / 149); la farfalla (ivi, 43/ 153).
  93. «Scialoja si scrollava definitivamente di dosso il cliché di autore “per bambini” o “giocoso”, trasformandosi in “clown dolente”, in “funambolo che soffre la vertigine”. “L’eleganza, la raffinatezza è la stessa” – scriveva Orengo nell’’89 – “ma il gioco è fortemente cambiato”. Nelle Sillabe il poeta fa i conti “con le sue malinconie e i suoi fantasmi” attraverso un fitto dialogo con i poeti amati. Qui, sottilissimamente, l’autore dialoga con i suoi poeti, Leopardi, Shakespeare, Rimbaud, Montale, Eliot. Cogliere i loro echi nelle note delicate, negli accordi limpidi e strani di questi mottetti, è uno dei piaceri che il maestro sa comunicare», Ottieri, 2014, p. 161.
  94. (Catullo, c. 51): «Ille mi par esse deo videtur, / Ille, si fas est, superare divos,/ qui sedens adversus identidem te / spectat et audit // dulce ridentem, misero quod omnis / eripit sensus mihi […] ».
  95. «Anche personaggi della mitologia greca e della storia antica – “riciclati” in contesti che non hanno più nulla di tragicamente solenne – subiscono il medesimo processo di “straniamento” e “de-sublimazione” ironica. Nelle Sillabe: le Eumenidi, protagoniste dell’omonima tragedia di Eschilo, “hanno mani / minime ma sudate” (POE, p. 192) e Giugurta, lo spietato re di Numidia, fatto prigioniero da Mario e gettato nel Carcere Mamertino, è mostrato impietosamente “Sulla porta / del carcere in ciabatte” (ivi, p. 193)», Ottieri, 2014, p. 148.
  96. Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi, Morra, 2023, pp. 121-123.
  97. «Il buio muso di Anubi» ricompare in Rapide e lente amnesie (Scialoja, 2019, p. 361); l’alano che fa visita alla casa della «cara morta», (ivi, p. 373); i cani-anni de Le costellazioni (ivi, p. 462); il cane-costellazione, («Il cane l’orsa maggiore il cane minore l’auriga», ivi, p. 466).
  98. Tra le due raccolte, c’è Estate ventosa (1985-1987), pp. 227-247, dove non si annoverano animali. Dolore e morte sono presenza costante, anche come «supremo scolorare del sembiante» leopardiano, p. 234.
  99. Morra, 2023, pp. 20-22 («Antichità», di Alessandro Fo).
  100. Altri animali sparsi: «lo sguardo di preghiera / di nostra madre lepre» (VD, p. 23 /265); «e un cigno / che impennandosi sbarra / con sdegno le ali arcigne» ( ivi, p. 25 / 267); «la folaga sorvola / il lago e insegue l’eco» (ivi, p. 26 / 268); di nuovo «la ghigliottina all’alba / decapita la lepre» (ivi, p. 30 / 272).
  101. « ̶ Mi levo e mostro una carogna / di gatto appesa a un mio bottone.» (VD, p. 38 / 280); «ai gridi / delle civette» (ivi, p. 42 / 284); «una torbida / sfinge alata» (ivi, p. 43 /285); «-di un immobile pesce bianco / mi offese la giravolta brusca» (ivi, p. 44 / 286); sparvieri (ivi, p. 47 / 289).
  102. « […] Nel cavo della tua mano custodisci un piccolo rospo / […] il rospo resta accucciato con grigie membrane sugli occhi / sospetti si dia per morto ma è assai nota codesta astuzia / sentirsi morti e finger d’esserlo nel cavo di una mano», Scialoja, 2019, p. 475.

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