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Relitti bentivoleschi: i bassorilievi di Palazzo dalla Tuata
di , numero 57, giugno 2024, Saggi e Studi, DOI

Relitti bentivoleschi: i bassorilievi di Palazzo dalla Tuata
Come citare questo articolo:
Fabio Martelli, Relitti bentivoleschi: i bassorilievi di Palazzo dalla Tuata, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 12, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11337

Sorge a Bologna in Via Galliera il Palazzo Dalla Tuata, ora Bellei, un edificio di sobria eleganza eretto nei primi anni del ‘500.
Esso in qualche modo soccombe nell’attenzione del viaggiatore che percorre questa via a fronte della grandiosità dell’attiguo Palazzo Montanari o alle architetture raffinatissime del quasi antistante palazzo del Monte.
Se da oltre un secolo gli studiosi si sono occupati di questo edificio non è dunque per le caratteristiche intrinseche della sua architettura, ma per la presenza nel portico della facciata di due capitelli che una lunga tradizione ha plausibilmente voluto identificare con due reperti provenienti dall’antico Palazzo dei Bentivoglio, quasi completamente distrutto nel 1507 e poi infine cancellato nel corso dell’anno successivo1.
Fu questa una perdita rilevante per la cultura italiana anche se con ogni probabilità le definizioni iperboliche circa il suo fasto e la sua bellezza intessute dai contemporanei (e non solo bolognesi) non paiono del tutto credibili2.
Di quello che comunque era uno straordinario scrigno di capolavori pittorici, scultorei ed architettonici quasi nulla è rimasto, anzi sorprende come in Bologna, in termini di riuso, tanto poco sia rimasto della Magna Domus dei Bentivoglio (eccezion fatta naturalmente per le scuderie antistanti il palazzo).
Pare infatti che, nonostante la violenza del saccheggio nei palazzi e nelle case dei bolognesi non sia possibile reperire, ad oggi, materiali riconducibili a quella costruzione e così ben si comprende lo straordinario interesse suscitato dai due reperti afferenti alla dimora di Giovanni II.
Scopo di queste pagine è aggiungere qualche elemento di riflessione alla vasta e sapiente letteratura già dedicata a questi due ultimi lacerti del naufragio delle glorie bentivolesche.
Credo si debba cominciare con una sintetica descrizione dei due capitelli sebbene essi siano per l’appunto ben noti.
L’attenzione è attratta subito dal capitello di sinistra: esso in realtà appare come una lesena posta in posizione sommitale su di un pilastro angolare dell’edificio da cui differisce innanzi tutto per la natura del materiale lapideo, un travertino di eccellente qualità di forma rettangolare.
Quasi al centro di esso, in una posizione lievemente eccentrica rispetto alla superficie complessiva del pezzo lapideo, spicca una imago clipeata di Giovanni II Bentivoglio. Ai lati di esso, una raffinata decorazione fitomorfica che probabilmente in origine occupava una superficie assai maggiore dal momento che i lati corti della lesena rettangolare appaiono chiaramente rifilati in una fase posteriore, probabilmente allo scopo di una migliore collocazione nel pilastro del Palazzo Dalla Tuata. Giovanni II è effigiato di profilo con il volto rivolto all’altro capitello in esame.
E così lo sguardo del Signore di Bologna sembra incontrarsi con quello di Ottaviano Augusto il cui profilo, volto invece a sinistra, appare contornato da grandi aquile di vigorosa fattura, accompagnate da vasi traboccanti di frutta, di gusto classicheggiante, e da piccoli scudi araldici per la più parte divenuti illeggibili per il deterioramento del materiale lapideo.
Si tratta infatti in questo caso di un modesto calcare che, come vedremo, si è forse rivelato funzionale alle intenzioni stilistiche dell’artista che ha eseguito questo capitello.
Non vi è motivo per dubitare della tradizione e degli autorevoli ed unanimi pareri espressi dagli studiosi contemporanei circa l’origine dei due capitelli e tuttavia è opportuno confrontarli in modo da sottolinearne le differenze3.
La grande lesena è stata realizzata in un eccellente travertino, pietra dura, non semplice da scolpire ma di grande pregio e, tra l’altro, assai poco frequente nella Bologna dell’epoca.
Al contrario, come si è visto, l’altro capitello è realizzato in calcare, un materiale assai meno pregiato, molto frequente nella città e assai più tenero del travertino.
Il manufatto con l’immagine di Giovanni II pare aver conosciuto numerose traversie: nonostante la rifilatura dei lati corti che potrebbe aver cancellato ulteriori tracce di danneggiamenti, quanto resta dell’ornamentazione fitomorfica presenta piccole sbrecciature che paiono essere riconducibili ad una violenta separazione della lesena dal suo contesto originario.
Soprattutto però colpisce il trattamento subito dal volto di Giovanni II: numerosi colpi di martellina muratoria hanno infatti bersagliato, cancellandolo completamente, il naso del Signore di Bologna e il suo labbro superiore, una scheggiatura vistosa appare sul processo zigomatico.
E’ evidente, visto lo stato di conservazione perfetto del resto del profilo, che si trattò di un’operazione deliberata, volta a mutilare l’immagine di Giovanni e senza dubbio riconducibile al saccheggio del palazzo: la mancata completa erasione del profilo del Bentivoglio è probabilmente da considerarsi una scelta riconducibile a fattori contingenti o simbolici.
Come si è detto il travertino è un materiale assai duro e dunque lo sforzo necessario per eradere completamente il volto doveva essere assai impegnativo specie osservando che la lesena faceva parte di un più ampio fregio posto molto in alto e ciò potrebbe aver consentito di conservare il resto del medaglione.
Questa mutilazione potrebbe però corrispondere ad una scelta più squisitamente simbolica: non dobbiamo infatti dimenticare che fin dalla tarda antichità e poi nella storia bizantina, ma anche nel medioevo occidentale, la mutilazione del naso veniva praticata a molti imperatori deposti; quella terribile ablazione doveva assicurare che non potessero sedersi nuovamente sul trono.
Si può dunque ipotizzare che, almeno in una prima fase, i saccheggiatori abbiano ritenuto decisamente più umiliante far subire al volto del loro antico Signore questa mutilazione, quasi una sorta di rito apotropaico ad annullare la possibilità di un ritorno di Giovanni II al governo di Bologna.
Questi elementi confermano l’appartenenza della lesena al grande edificio bentivolesco, ma ciò non significa che anche l’altro capitello non provenga dalla Magna Domus.
Di certo colpisce che essa sia realizzato in materiale assai meno pregiato, ma si può ipotizzare che esso abbia corrisposto alle esigenze artistiche dell’autore del capitello.
Quest’ultimo, infatti, appare caratterizzato da una trattazione del calcare organizzata su più piani differenziati: superfici a bassorilievo, come l’immagine di Augusto, altre ad alto rilievo, come i vasi con i loro trionfi di frutta, ed ancora figure quasi a tutto tondo, come nel caso delle teste e degli artigli delle quattro aquile che ornano il capitello.
Si tratta comunque di una forte differenziazione rispetto alla contigua lesena; in quest’ultima la delicatezza dei raffinati ornamenti fitomorfici crea un piano di riposo che, pur costituito da un susseguirsi di linee curve e increspature, aiuta a concentrare lo sguardo sul solo volto di Giovanni II.
Al contrario nel capitello in calcare l’osservatore coglie solo in una seconda fase il visto del primo imperatore poiché tutta l’attenzione è concentrata appunto sulle quattro aquile poste in posizione angolare. Queste ultime, poi, presentano una trattazione tanto vivace, mossa, ricca di superfici curve di spessore variabile da indurre quasi a cogliere in esse una sorta di anticipazione di atmosfere barocche; e dunque anche sul piano stilistico i due esemplari sono fortemente distanti tra loro.
L’imago clipeata di Giovanni II corrisponde infatti ad una ricerca dell’armonia quattrocentesca con evidenti ispirazioni a modelli estensi ma soprattutto gonzagheschi4.
L’altro capitello invece ci propone una composizione estremamente affollata, quasi connotata da un horror vacui tanto che anche gli spazi minimali vengono riempiti da piccoli bassorilievi mentre appunto le aquile quasi si sporgono al di fuori del capitello. Per una trattazione simile della materia era necessaria una pietra non eccessivamente dura, lontana per l’appunto dal travertino che offre invece proprio per questa sua natura contorni netti, quasi taglienti, ben riconoscibili per l’appunto nella lesena.
Che quella del calcare sia stata una scelta consapevole o piuttosto l’utilizzazione di ciò che il committente aveva messo a disposizione, è certo comunque che l’artista del capitello con l’effige di Augusto sfruttò appieno la morbidezza di questo materiale per proporre una cifra stilistica opposta a quella della lesena5.
Ciò tuttavia non inficia in alcun modo la possibilità che anche questo secondo capitello provenga dal Palazzo dei Bentivoglio; certo colpisce in termini dubitativi l’assenza di ogni sfregio o mutilazione di questo reperto.
E tuttavia neppure questa argomentazione è sufficiente a proporre un’origine alternativa per questo manufatto. Al contrario si deve osservare che esso contiene elementi significativamente riconducibili ai Bentivoglio, il che rende estremamente plausibile il collegamento con la Domus Magna.
Le aquile infatti sono simbologia classica, imperiale per eccellenza, ricollegabile dunque all’immagine di Augusto, ma al tempo stesso erano una delle più importanti prerogative araldiche dei Bentivoglio che ottennero inizialmente da Federico III imperatore il diritto di inquartare nel loro emblema un’aquila mentre Massimiliano I concesse il privilegio di dipingere di nero l’aquila, ciò che rimase in tutta l’araldica dei Bentivoglio.
In ogni caso, al di là della loro comune provenienza dal Palazzo dei Bentivoglio, una volta trasferiti al Palazzo Dalla Tuata, i due reperti furono uniti in un sintagma di raffinata allusività ideologica in chiave politica.
E’ infatti evidente che si crea nel portico di Via Galliera una sorta di dialogo ineffabile tra il Signore di Bologna e il Divo Augusto.
I due personaggi si osservano tra loro, fermi in una sorta di atemporale fissità e tale collegamento coincide con l’ideologia di governo di Giovanni II che ebbe proprio in Augusto un modello non certo evocativo solo di un’attenzione erudita alla tradizione classica6. L’exemplum augusteo si presentò infatti particolarmente pregnante per Giovanni II come speculum principis.
Giovanni I e Anton Galeazzo avevano pagato con la vita le pressioni esterne e gli odii cittadini.
E Francesca Roversi Monaco ha ricostruito sapientemente i delicati equilibri che favorirono l’ascesa al potere di Annibale I e ne sancirono poi l’uccisione7, ma molto cambiò con l’arrivo da Firenze di Sante che si rivelò assai più accorto dei propri antenati: a lui si devono quei Capitoli d’intesa con il potere pontificio che diedero vita a quella che efficacemente Angela De Benedictis ha definito “Repubblica per contratto”8.
Di fatto Sante seppe conservare il sostegno delle famiglie senatorie tradizionalmente filo bentivolesche e fu capace anche di frenare le velleità di riscossa di quanti in Senato erano avversi al suo casato. Fu attento però anche alla rilevanza del concetto di Libertas repubblicana caro al popolo bolognese9.
Queste linee guida furono riprese dal cugino Giovanni II, figlio di Annibale: egli aveva rapidamente appreso l’arte di governo dallo scaltrito Sante che aveva avuto in Cosimo il Vecchio il principale sostenitore della sua partenza per Bologna, dove avrebbe dovuto assumere la guida del partito bentivolesco.
A Giovanni II questo stesso archetipo parve riconoscibile nella politica augustea.
Per i letterati di corte molti erano i punti coincidenti nell’attività di governo dei due: come Augusto, si diceva, Giovanni aveva trovato una città ancora costituita da modesti edifici spesso in legno e l’aveva trasformata in una splendida struttura rinascimentale. Al pari di Cesare Ottaviano, poi, egli si era preso cura nelle fasi di crisi economica dei bisogni alimentari popolari10.
E portava come Augusto il titolo di Princeps, ma esso indicava semplicemente la Presidenza del Senato che l’oligarchia dominante gli aveva concesso, presentandolo come tutore delle istituzioni repubblicane della città.
Gli scritti di un autore decisamente filo bentivolesco, Giovanni Garzoni, mostrano l’evoluzione delle forme ideologiche del governo di Giovanni.
Se come ha osservato Alessandra Mantovani esistono frammenti di opere nelle quali il Garzoni insiste sulla centralità della Libertas come fondamento di uno stato felice o si scaglia contro ad ogni forma di tirannide, è del pari vero che egli andò perciò ad inaugurare un genere letterario quasi assente nella cultura umanistica bolognese, quello della institutio principis che pure era topos classico in ogni corte d’Italia11.
Il Garzoni in almeno due trattati, indirizzati entrambi a Giovanni II, si propone l’arduo compito di erudire il Principe sull’Arte di governo e con ciò contribuire alla felicità generale dei cittadini.
Dopo aver risolto l’annoso interrogativo circa l’opportunità di dire la verità al Principe sulla natura del potere, il Garzoni si spinge a supplicare Giovanni II di voler governare secondo una costituzione mista.
Il clima politico è decisamente mutato: questi due testi sono scritti dopo il 1488 quando cioè la Grande Congiura ha portato ad una feroce repressione da parte bentivolesca, inaugurando una svolta autoritaria nel governo di Giovanni II che si mostra sempre più diffidente verso le varie famiglie senatorie.
Il Garzoni si adatta a questa nuova temperie ed il suo modello diventa quello della costituzione mista teorizzata da Polibio e divenuta centrale in Cicerone.
In questa identità politica tripartita viene proposto come centrale il consensus universorum che Giovanni II sembrava riprendere da Sante ma anche da Ottaviano12.
Come ha giustamente rilevato Francesca Roversi Monaco il parallelo tra Giovanni II ed Augusto è sì presente nelle opere dei cronisti del tempo ma compare con ben maggiore pregnanza e frequenza in quelle di letterati e umanisti13.
Per i cronisti quello augusteo appare come un modello cui riferirsi in maniera topica, quasi un omaggio dovuto al Signore di Bologna, mentre tale parallelo acquisisce pregnanza ideologica presso quei letterati che illustravano la corte bentivolesca.
D’altronde l’evocazione del principato appare costante anche nell’edilizia bentivolesca: nel portico di San Giacomo Maggiore voluto da Giovanni II (che dell’antico convento fece una sorta di Pantheondel suo casato) sopra le eleganti colonne scanalate compare un grande fregio che superiormente corre lungo tutto il lato dell’edificio.
Esso è impreziosito da un modulo a scansione ritmica costituito dall’imago clipeata di un imperatore romano effigiato di profilo col capo laureato, un tema questo molto caro a Giovanni II visto che non certo casualmente ricompare in vari palazzi di casate alleate dei Bentivoglio, come ad esempio in quello dei Sanuti14.
Nel pensiero di Giovanni II il parallelo con Augusto ha un preciso significato ideologico, ricordando una componente monarchica in seno però a quella che il Garzoni continuava ad esaltare come costituzione mista dal momento che lo Stato di Libertà formalmente continuava e le istituzioni repubblicane, ancorchè controllate dai fautori del Bentivoglio, erano preservate.
L’anonimo che pose in essere la raffinata correlazione tra i due capitelli del Palazzo Dalla Tuata compì, con ogni probabilità, un intervento consapevole teso non solo a ricordare l’antico splendore dei Bentivoglio, collegando Giovanni II ad Augusto, ma volto anche a ricordare le qualità della forma di governo messa in atto da Giovanni II seguendo appunto l’esempio augusteo.
Tornando alle fonti iconografiche dei capitelli si deve ricordare che la memoria dell’Antico passò per molto tempo anche attraverso le varie coniazioni imperiali ed a esse si rifece sicuramente anche l’ignoto autore del capitello delle quattro aquile.
E’ infatti facile cogliere da subito una sorta di anomalia e di contrasto tra il viso di Augusto e la cifra stilistica degli altri elementi compositivi: il profilo del primo imperatore è infatti piatto, la trattazione del viso quasi assente, il contorno del volto, ben delineato, si accompagna ad uno sguardo vuoto, perso nell’infinito. La scritta Divus Augustus Pater Patriae rinvia peraltro in maniera immediata alle monete fatte coniare da Tiberio dopo la morte del padre adottivo. Esse ne celebravano l’apoteosi e dunque credo che nell’anomalia stilistica con cui questo scultore raffinato ed innovativo rese il volto imperiale si debba riconoscere una citazione diretta: vediamo infatti non l’interpretazione di Augusto come immaginato dall’artista, ma la riproduzione fedele di una moneta romana, in particolare forse il dupondio di Tiberio che reca questa stessa legenda e che coincide singolarmente con i dettagli del volto di Augusto 15.
Vi è tuttavia una vera problematicità relativa all’epigrafe che appare nella imago di Giovanni II.
Tale epigrafe corre lungo la stretta superficie circolare che circonda il profilo.
La sua superficie appare più ampia in corrispondenza della chioma e degli occhi del Signore di Bologna, rastremandosi poi in coincidenza dello zuccotto posato sul suo capo e simmetricamente vediamo che essa scompare del tutto al di sotto del busto di Giovanni.
Lo spazio epigrafico utilizzabile dunque è limitato e tuttavia ben visibile anche grazie alla qualità della pietra su cui un lapicida eccellente, ispirandosi al ductus delle iscrizioni umanistiche dell’Italia settentrionale, ha inserito la legenda: DIV. IO. II. B. P. P.
Ed è qui che sorge il problema dal momento che l’appellativo in vita di Divus è sconosciuto alla titolatura dei monarchi medievali o di età moderna, imperatori compresi, ed esso rappresenterebbe in sé stesso un’esplicita blasfemia. Non esistono infatti precedenti neppure nella figura di Costantino; quest’ultimo infatti rivendicò per sé la misteriosa funzione di Episcopos tōn ektōs, sul cui significato ancora gli studiosi si dividono, ma solo dopo la sua morte, nella Chiesa Orientale, egli fu proclamato santo16.
Giovanni II poi era sempre stato estremamente prudente in materia di formalizzazione istituzionale del proprio potere: aveva accettato sul modello fiorentino il titolo di Pater Patriae dal momento che esso rappresentava una qualifica dell’ammirazione di Bologna alla sua persona e non certo una magistratura monocratica. Ottenuto dall’Imperatore Massimiliano, a caro prezzo, il privilegio di coniare moneta, imprimesse la propria effige in alcune raffinate coniazioni auree, in cui il profilo di Giovanni II (assai simile a quello del Palazzo Dalla Tuata) è accompagnato dalla semplice legenda Johannes Bentivolus II Bononiensis17.
Credo dunque sia impensabile che all’interno della Magna Domus Giovanni II potesse voler autoproclamarsi Divus in vita.
Una soluzione a questa incongruenza può essere suggerita dal confronto con l’altro capitello: in esso Cesare Ottaviano è definito appunto Divus Augustus, così alludendosi alla celebrazione della sua adlectio tra gli dei (come appare nel dupondio tiberiano già menzionato).
La corona radiata era per l’appunto apposta nei ritratti imperiali ad indicare l’apoteosi del Princeps morto (almeno sino all’introduzione dell’antoniano di Caracalla).
Nel capitello ornato dalle aquile è celebrato dunque Augusto come Divus dal momento che è stato assunto tra le divinità dopo la sua morte, e il parallelo con la lesena suggerisce a questo punto che anche in essa la scritta Divus alluda alla morte di Giovanni II che con quell’appellativo viene semplicemente more romano solennemente salutato dopo la sua morte. Credo dunque che la scritta Divus sia stata apposta in epoca successiva quando Giovanni, che morì a Milano due anni dopo il sacco della Magna Domus, era già scomparso, evidenziando in tal modo un ulteriore parallelo con Augusto, salutato come Divus nell’altro capitello.
Una possibile conferma a quest’ipotesi potrebbe venire da un ulteriore esame delle lettere dell’epigrafe.
Le lettere che la compongono sono apparentemente opera di una stessa eccellente officina lapidea, con ogni probabilità ordinate in modo tale da adeguarsi allo scarso spazio offerto dalla ristretta fascia circolare.
L’iscrizione parrebbe perciò essere stata redatta in uno stesso momento e da una stessa mano, un unico lapicida dunque, ma non si può escludere che in origine il medaglione di Palazzo Dalla Tuata fosse completamente anepigrafe.
Se del resto lo immaginiamo interno al palazzo Bentivoglio tale ipotesi appare più plausibile: nella propria casa il Signore di Bologna non aveva necessità di particolari specifiche per essere riconosciuto e il suo volto non richiedeva alcuna forma di legenda identificativa. Ma va notato che, all’interno del corpo della lettera V si presenta un segno dal corpo tondeggiante e dal percorso anguiforme; esso si prolunga al di fuori della stessa lettera v e si avvicina sin quasi a toccare la lettera i.
Difficile considerare questa traccia come segno casuale o un fallo della pietra: parrebbe trattarsi di un’incisione assai meno marcata di quella che caratterizza le altre lettere.
Questa misteriosa forma curvilinea è stata eseguita utilizzando uno scalpello dal passo molto più ristretto rispetto a quello utilizzato per l’epigrafe e, mentre quest’ultima fu incisa da uno scalpello a sezione triangolare, il solco in oggetto fu inciso utilizzando invece uno strumento a sezione quasi circolare.
Considerandone la struttura grafica sembra che si volesse rappresentare il segmento di un’edera distinguens di cui la sezione sinistra potrebbe ancora essere riconoscibile in parallelo alla lettera I.
Questa presenza potrebbe suggerire che in origine l’epigrafe indicasse il Bentivoglio come Johannes Secundus Bentivolus Secundus Pater Patriae e che in corrispondenza dei capelli del Signore di Bologna vi fosse un’edera distinguens con funzioni esornative.
In una fase successiva volendo evidenziare come Giovanni a quel tempo fosse già morto si aggiunse la parola DIV. andando inevitabilmente, per ragioni di spazio e simmetria, a coprire con la lettera V l’edera distinguens.
Quest’ultima tuttavia potrebbe anche essere stata un solitario elemento esornativo all’interno della fascia circolare del medaglione, un elemento iconografico di alleggerimento per un clipeus totalmente anepigrafe.
Decidendo poi di identificare il personaggio raffigurato nel profilo della lesena, ancora una volta per necessità di spazio, l’edera distinguens sarebbe stata ricoperta dalla sigla DIV.
In ogni caso sia che la parola Divus sia stata aggiunta in un’epigrafe già presente per evidenziare la scomparsa del Signore di Bologna sia che l’intera iscrizione sia stata aggiunta successivamente per consentire agli osservatori di ben identificare il personaggio effigiato, la presenza dell’edera distinguens suggerisce che quanto meno la parola Divus possa essere posteriore al 1509.
L’esaltare Giovanni II come vero interprete dell’antica politica augustea nella città di Bologna, consente di riconoscere nel committente di questa particolare sintassi iconografica un seguace non già di un partito bentivolesco, di fatto ormai allo sbando, quanto piuttosto un estimatore in quella vecchia formula di governo e probabilmente un avversario del dominio instaurato da Giulio II e dai suoi successori.
Non è possibile tuttavia identificare l’artefice di questo sintagma. Il nome Dalla Tuata ricondurrebbe inevitabilmente alla figura di Fileno, autore di una poderosa storia della città, uomo molto vicino alla corte bentivolesca; egli fu non un umanista in senso pieno, bensì un uomo colto, poco esperto del latino, ma ottimo conoscitore del francese, utilizzato dallo stesso Giovanni II per contatti diplomatici. Fileno avrebbe di certo avuto l’esperienza e lo spessore culturale per voler apporre nella sua casa questo estremo atto di omaggio alla memoria di Giovanni II18.
Questa ipotesi cozza tuttavia con le norme severissime che il Senato impose in città dopo la definitiva cacciata dei Bentivoglio.
Vi fu una sorta di damnatio memoriae che, pur avendo il proprio fulcro nella distruzione del palazzo, si estendeva anche al mero possesso di un qualsivoglia oggetto riferibile a Giovanni o al suo casato. Pene terribili erano infatti previste anche per chi deteneva oggetti d’uso comune sui quali, per semplice sfortuna, compariva la sega dello stemma bentivolesco19.
E dunque è possibile immaginare che Fileno Dalla Tuata, uomo di notevoli mezzi, avesse potuto al più appropriarsi della lesena e del capitello, ma sicuramente non avrebbe potuto collocarli così vistosamente all’esterno della propria casa. In tal modo non pare possibile stabilire da chi (e dunque anche quando) fu realizzato l’intervento sul portico e sotto questo profilo la documentazione è quasi assente.
Si può stabilire una sorta di terminus post quem non nell’anno 1621 quando per la prima volta si è certi della presenza del pilastro angolare di Casa Dalla Tuata20.
Ad un uomo d’armi, il Cignani, Ippolito Bentivoglio, aveva poi affidato l’incarico di segnalargli cosa in Bologna fosse ancora riferibile al suo casato e perciò il Cignani dà conto del medaglione nel Palazzo Dalla Tuata21.
Quanto tempo prima rispetto a questo primo ventennio del XVII secolo fosse stato apposto l’insieme dei simboli del portico è quasi impossibile stabilirlo.
Come detto in precedenza questo omaggio ai Bentivoglio, di forte valore ideologico, conteneva di fatto anche una sorta di presa di distanza dal governo pontificio della città, ma non era collegabile ad un partito politico filo bentivolesco.
I Bentivoglio ancora residenti in città per concessione di Giulio II non avevano mai avuto nulla a che fare con Giovanni II ed il suo governo e dopo i vani tentativi di Annibale II, nessuno di quel casato aveva mostrato più di volersi ingerire nei fatti di Bologna.
Del resto nessun sentore d’opposizione al potere del Cardinal Legato si riferì più alla tradizione dei Signori della città. Si può dunque parlare per i simboli di Casa dalla Tuata piuttosto di una sorta di manifesto culturale non scevro di implicanze politiche, ma in seno al quale l’iconografia bentivolesca serve solo ad evocare nostalgicamente un passato di libertà dal governo pontificio.
E’ del resto chiaro che proprio la visibilità dell’intervento sul portico di Casa Dalla Tuata implica la fine delle sanzioni contro simboli riconducibili al regime bentivolesco, un momento non chiaramente databile in termini de facto.
Almeno in assenza di nuove testimonianze d’archivio restano dunque molti interrogativi irrisolti.
Ad oggi la sola data certa è quella offerta dal Cignani, il primo che ci parla della lesena ma, come è stato notato, non del capitello delle aquile.
Questa tuttavia non è una contraddizione né tanto meno significa che il capitello non fosse già in posa perchè, al contrario, l’intero portico presume un intervento unitario.
Il Cignani del resto si era assunto l’incarico di scoprire quali frammenti della tradizione bentivolesca ancora riconoscibili in città e dunque il vicino capitello con l’immagine d’Augusto non doveva suscitare il suo interesse né tanto meno essere segnalato al Bentivoglio.
La messa in posa della lesena e del capitello delle aquile riconduce perciò ad un’epoca in cui ormai il significato politico dell’articolazione iconografica del portico non si poteva più ricondurre ai progetti di un partito bentivolesco. Credo invece che tale intervento si colleghi piuttosto all’autocoscienza municipalistica dell’intellighentia bolognese, un sentimento in forte crescita e che implicava malcelate forme di contestazione del dominio papale.
L’autore di questa committenza in ogni caso mostra quanta attenzione culturale esistesse ancora verso il casato dei Bentivoglio e come in alcuni uomini dell’élite fossero ancora ben presente la significanza e la pregnanza del legame simbolico tra Augusto e Giovanni II, come sintesi del modello di governo bentivolesco.

Note

  1. Cfr. Giovanni Gozzadini, Memorie per la vita di Giovanni II Bentivoglio, Bologna Tipi delle belle arti 1839, pp. 28-29 offre la prima descrizione dei due capitelli e ne propone una riproduzione: Tv. 2, 40-41; nonostante già il Gozzadini cogliesse appieno il nesso tra i due reperti, quasi negli stessi anni il Guidicini invece non dava conto del capitello con l’effige di Ottaviano, Giuseppe Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, 2, Bologna Tipografia delle Scienze 1866-73, p. 181, pur iscrivendo l’altro reperto, come opportunamente rilevato da Maria Teresa Sambin De Norcen-Richard Schofield, Palazzo Bentivoglio a Bologna. Studi su un’architettura scomparsa, Bologna Bononia University Press ‹‹2018, pp. 1-207, in ispecie pp. 125-129.
  2. Basti per tutti il commento di Fileno Dalla Tuata che la descrive come la ‹‹più bella chaxa da preda cotta che si trovasse infra christiani››; M.T. De Norcen-R. Schofield, hanno sottolineato l’effetto distorcente di tali eccessive lodi per la stessa ricostruzione delle architetture del palazzo (cfr. Francesco Ceccarelli, Prefazione, in M.T. De Norcen-R. Schofield, ibidem, nonché nello stesso testo pp. 136 ss. Cfr anche Francesca Roversi Monaco, Il glorioso cavaliero misser Iohanne Bentivoglio, in Il castello dei Bentivoglio, (a cura di Anna Lisa Trombetti Budriesi), Firenze Edifir 2006, pp. 63-78 in ispecie pp. 64 ss.
  3. Cfr. M.T. De Norcen-R. Schofield, ibidem, pp. 115 ss; Simone Rambaldi, L’uso di simboli del potere imperiale romano a Bologna da Giovanni II Bentivoglio a Carlo V, in Sandro De Maria-Manuel Parada Lopez De Corselas (a cura di), L’impero e la Spagna da Traiano a Carlo V, Bologna Bononia University Press 2014, pp. 275 ss.; William Wallace, The Bentivoglio Palace Lost and Reconstructed in “The Sixteenth Century Journal”, 10, 3 (1979), pp. 97-114 saggio non incentrato sui due capitelli, ma rilevante per le altre tracce della Magna Domus. Cfr anche Adolfo Venturi, Sperandio in Mantova, in “Archivio storico dell’arte”, II (1888), pp. 353 ss.; Mario Fanti, Antonius. Bal. ANNOS. AGENS XVIII, in “Arte a Bologna”, VII-VIII (2010-2011), pp. 261-268. Anna Maria Matteucci Armandi, Le sculture, in Carlo Volpe (a cura di), Il Tempio in San Giacomo Maggiore in Bologna, Bologna Padri Agostiniani di San Giacomo Maggiore/Poligrafici 1967, pp. 78 ss.
  4. Mario Scansani, L’attività scultorea di Sperandio Savelli; marmi, terracotte e committenze francescane, in “Studi di Memofonte”, XXII (2029), pp. 54 ss.
  5. Paolo Cova, Il reimpiego a Bologna: una lunga tradizione da Bertrando del Poggetto a Cesare Mattei, in Reimpiego, rilavorazione, rifunzionalizzazione: la “lunga vita” della scultura medievale nei cantieri di età moderna, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Âge, 133, I (2021), pp. 21 ss.; Angela De Benedictis, Quale “corte” per quale “Signoria”? A proposito di organizzazione e immagine del potere durante la preminenza di Giovanni II Bentivoglio, in Bruno Basile (a cura di), Bentivolorum Magnificentia, Roma Bulzoni 1984, pp. 13-33.
  6. La vasta letteratura sulla evocazione della politica augustea è ben sistematizzata da F. Roversi Monaco, Il Glorioso cavaliero cit. pp. 64 ss.
  7. F. Roversi Monaco, Conflitti oligarchici nella Bologna di Annibale I Bentivoglio, Bologna Clueb 2013.
  8. A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Una città nello Stato Pontificio, Bologna Il Mulino 1990.
  9. Paola Benadisa Marzocchi, Vita di Sante Bentivoglio, Todi Tau 2017, passim.
  10. Soprattutto dopo la congiura del 1488 Giovanni II ebbe cura di sottolineare anche il rapporto con le Arti e così nel 1490 costruì a sue spese un monumento all’emblema dell’Arte dei Beccai, da sempre fedele al casato, definendosi come sempre Johannes II Bentivolus pater patriae nell’epigrafe dedicatoria.
  11. Alessandra Mantovani, Speculum Veritatis: Giovanni Garzoni e la tradizione dell’Institutio principis nella Bologna dei Bentivoglio, in “Annali di Italianistica”, 34 (2016), pp. 97 ss.
  12. Giovanni Garzoni, De eruditione principis. De principis officio, ed. a cura di A. Mantovani, Bologna Edizioni di Storia e Letteratura 2010.
  13. F. Roversi Monaco, Il glorioso cavaliero cit., pp. 67-70.
  14. Sergio Bettini, Il palazzo dei Diamanti a Bologna. La committenza artistica di Nicolò Sanuti nell’età dei Bentivoglio, Parma Diabasis 2017.
  15. Cohen, I, p. 252; BMC, I, pp. 143-145.
  16. Una rilevante riflessione metodica volta a cassare la frequente tesi circa le ambizioni audodivinizzanti nel medioevo ed oltre in Mirko Vagnoni, Divus Fridericus? Alcune annotazioni sul carattere divino e messianico di Federico I di Svevia, in “Mediaeval Sophia. Studi e ricerche sui saperi medievali”, 13 (2013), pp. 140-156.
  17. Si tratta del doppio ducato aureo di circa 7 grammi che al rovescio reca la scritta Maximiliani impera. munus, CNI, I/18 splendida moneta, forse su incisione del Francia e di certo coniata a Bologna e non ad Antegnate.
  18. Ludovico Frati, Due cronisti bolognesi plagiari, in “Atti e memorie della R. Deputazione di Storia patria per le provincie di Romagna”, 3, 23 (1905), pp. 234 ss.
  19. Fileno Dalla Tuata, Istoria di Bologna, Bologna Costa 2005, 2, pp. 513 ss.; Jacopo Raineri, Diario Bolognese, Bologna Regia Tipografia 1887, pp. 32; 61.
  20. In quell’anno il portico fu ristrutturato dal Fiorini e la planimetria da già conto del pilastro ospitante la lesena cfr. Archivio di Stato di Bologna (ASB), Senato, Istrumenti e scritture, D, n. 22 (1621), n. 34.
  21. ASB, Notarile, Matrici del Notaio Pier Maria Negri, 6/16, 85.

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