Bibliomanie

L’idillio perduto. La terra desolata dell’uomo.
di , numero 57, giugno 2024, Note e Riflessioni, DOI

L’idillio perduto. La terra desolata dell’uomo.
Come citare questo articolo:
Matteo Bensi, L’idillio perduto. La terra desolata dell’uomo., «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 21, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11353



Folletto: […] Gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
[…]
Gnomo: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti […]
Gnomo: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli. […]
G. Leopardi, “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, in Operette morali.


Leopardi propone l’esercizio distopico e ironico di porsi sulla soglia della fine del mondo degli uomini. Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta. C’è mondo senza uomo? C’è rappresentazione senza linguaggio? O sopravviene il kaos al kosmos? Leopardi anticipa di molto la sensibilità del pensiero filosofico che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, senza più il conforto di un Dio architetto o di una teleologia della ragione, fa rispecchiare la coscienza nell’immagine angosciosa di una terra desolata e inospitale, imperfetta, eppure vivente.
Per costruire un itinerario dell’idillio perduto, bisogna collocarci oltre ogni possibile tentativo di ricomporre la frattura tra io e mondo. Bisogna collocarci oltre l’umano, “defamiliarizzare” l’umano1. Questo esercizio è ancora più inquietante di quello leopardiano che ci mette dinanzi all’estinzione. A cosa potrebbe assomigliare “vedere” noi stessi mentre diventiamo altro da noi stessi? Che cosa significherebbe rinunciare al narcisismo che proietta i nostri sistemi morali, emotivi e comunicativi fuori di noi?
Le due opere che proverò a mettere in controluce, a un secolo di distanza l’una dall’altra, per isolare questo tentativo di defamiliarizzazione con l’umano sono Bestie di Federigo Tozzi e Il paradosso della sopravvivenza di Giorgio Falco. Le categorie interpretative che guidano questa traiettoria nell’idillio perduto sono Come pensano le foreste di Eduardo Kohn, Oltre natura e cultura di Philippe Descola, La sfida di Gaia di Bruno Latour e Chtulucene di Donna Haraway.
Bestie, definito da Giacomo Debenedetti “il testo più germinativo che Tozzi abbia scritto, “fu pubblicato da Treves nel 1917, un momento di svolta nella produzione letteraria di Tozzi, segue Adele, Ricordi di un impiegato e Con gli occhi chiusi; precede Il podere, Tre croci e Gli egoisti. 68 sezioni non numerate si tengono insieme grazie a un unico evidente filo conduttore, la comparsa improvvisa e irriducibile a qualsiasi significato simbolico di un variegato repertorio di animali2, bestie appunto. È inutile ogni tentativo di ricercare in esse una qualità dell’umano o un’idea che risolva l’enigma di un animo inquieto e diviso. Non mi pare nemmeno che sia ravvisabile nelle bestie di Tozzi una poetica del correlativo oggettivo, come pure tanta critica propone3. Non c’è alcuna proiezione possibile di uno stato d’animo umano su quello l’animale. Ciascuna apparizione è oggetto di stupore e mistero. Spesso le bestie svegliano il narratore da uno stato di trance o di smarrimento di sé, lo riagganciano al corso degli eventi perché si danno, tramite il loro potente esserci. Se il narratore sfugge continuamente, esse sono, invece, cariche di presenza, e sembra di vederle, quando beccano il labbro di un amico morente, volano, patiscono, osservano, hanno un peso e una gravità che non sono propri dell’umano.

Ma come mi s’empì la bocca di saliva, che pareva bava, quando vidi una rospa che pareva un grande involto! E poi che ella mi guardava con quei suoi occhi di ragazza brutta, forse più acuti dei miei, mi sentii venir male.
Bestie, pp. 582-583


Non esiste alcuna possibilità di comunicazione tramite un sistema di referenze simboliche o allegoriche con le bestie. Eppure, esse sembrano apparire per indicare qualcosa, di esterno, un’affinità dimenticata4. Rappresentano un gesto o un corpo che, anche solo iconicamente, indica una possibilità, una via di fuga dal sé, defamiliarizzano l’umano, o una via di accesso al mistero della natura, a una più interrelata ecologia di sé viventi. La tortora che si posa sulle labbra del padrone, morente, secondo il gesto consueto, lo morde e attiva un codice comunicativo misterioso, ma condiviso.

[Una tortora] Gli montò sulla fronte, che s’increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere in bocca i chicchi di granoturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all’ultimo respiro.
Bestie, p. 606


La scultorea presenza di una tortora fa ritrarre l’uomo dalla scena, quasi fino all’autodissoluzione, alla morte.
Tutto il mondo narrato in Bestie resiste coattamente ai tentativi di assimilazione della coscienza, è un non-io che non si lascia mai riassorbire nello spazio del sé. La posta in gioco è l’indipendenza dell’uomo, il controllo impossibile, tramite il possesso, dell’io borghese su ciò che è altro: bestie, cose e persone. La posta è troppo alta, il gioco è perso in partenza, l’idillio è perduto. Questa impossibilità soffoca, e l’anima svanisce.

Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima: maniche che mi attendono. […] Mai, in nessun modo, sono riuscito ad essere indipendente dinanzi a loro.
Tra le stanze c’era un’intesa e un accordo di non dirmi niente: qualche parola che se la passavano quand’io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perch’io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoprarle né meno una; perché mi sarebbero cadute.
Bestie p. 615
Io sono soffocato dal mondo; e, quando parlo, mi pare che la mia anima riesca ad escirne fuora.
Bestie p. 579


Il sé monologante, in uno stato allucinatorio e senza possibilità di controllo sulla realtà che lo circonda, si sente a casa nei sogni, una radura interiore, e nello spazio della mediazione linguistica del mondo, la lettura.

Quello che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò: resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni sulle pagine come se fossero figure. […]
Bestie p. 612


Leggere il mondo è capire il mondo, c’è un nesso sinonimico tra i due atteggiamenti di apertura dell’io verso l’esterno. La lettura ideale di Tozzi è una lettura disintermediata, creatrice di rappresentazioni appartenenti al lettore, come quella di un ragazzo, che si scrive da solo il suo libro di lettura.

Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. […] E, s’io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere.
Bestie p. 615


Eppure, la leggibilità del mondo non è sempre garantita.

In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicine a me. [un pampano, il sole, una cavalletta che salta su una mano, l’albero che imputridirà sotto terra con me, quello dove ora c’è sopra un merlo].

Se non si può possedere e nemmeno capire il mondo, deformandolo poeticamente; si può provare a diventare l’altro, uscendo da sé. Parafrasando Rilke delle Elegie Duinesi, la Terra ci chiama alla metamorfosi. “Terra, non è questo che vuoi: invisibile / risorgere in noi? – Non è questo il tuo sogno, farti invisibile un giorno? – Terra! Invisibile! / A quale compito ci esorti se non la Metamorfosi?” Debenedetti parla di “animalizzazione”, noi abbiamo usato la categoria di “defamiliarizzazione dell’umano”. In Bestie, l’osservatore esterno lascia spazio a un punto di vista interno alla natura, come quello di un locus senziente della natura. L’espressionismo deformante di questo punto di vista è inquietante e, talvolta, disumano, per l’appunto animalesco: il canarino schiacciato sotto al tacco della scarpa, la testa staccata di una cicala, la rospa con gli occhi di ragazza brutta.
Come si compie la metamorfosi? Il recinto del sé non tiene, e allora non è possibile trattenervi nemmeno un’allodola, quella che apre l’opera, rimasta chiusa dentro l’anima. «Ora, se anch’io t’amo così, o allodoluccia, vuol dire che tu puoi restare dentro la mia anima quanto tu voglia; e che vi troverai tanta libertà quanta non ne hai vista dentro l’azzurro. E tu certo non te n’andrai mai più.» L’allodola che chiude Bestie non canta e non svolazza, si prende tutta l’anima del poeta: “L’allodola! Piglia la mia anima”. Ora tutto è sostanza, natura, non c’è anima e mondo, l’anima è l’allodola, tutto è effetto e necessità. «Si afferra con tutti i sensi insieme, si immagazzinano emozioni e sensazioni. La partecipazione dei protagonisti della narrativa di Tozzi alle leggi di natura sono assolute e totali, come se gli uomini fossero essi stessi appartenenti alla natura vegetale o animale priva della mediazione della cultura e della ragione»5.
Giorgio Falco chiude questo itinerario con due brani tratti dal suo Il paradosso della sopravvivenza, un romanzo sullo spazio che occupiamo ogni giorno, cito dalla quarta Einaudi, quasi senza badarci. È insieme una riflessione sotterranea sul potere che lo sguardo altrui esercita sulle nostre scelte. Soprattutto, è la storia di un corpo ingombrante in un mondo ingombrante, a cui corrispondono desideri ingombranti. Fede, il protagonista, è un “ciccione”, come scrive Falco, vittima di una strabordante inettitudine. Il primo brano si apre su una terra senza esseri umani, prima della comparsa dei sapiens, duecentocinquanta milioni di anni fa. La terra è un tutto che si esprime e si comprende, un tempio dell’ascolto. Il secondo è uno squarcio sul presente dell’antropocene più rumoroso, rivelatore di una natura sofferente e di un’umanità ostile. L’idillio è definitivamente perduto.

Duecentocinquanta milioni di anni fa, non esisteva Pratonovo, non esistevano nemmeno le montagne intorno. Un mare – racchiuso tra continenti circondati da oceani – bagnava quella che sarebbe diventata la zona settentrionale d’Italia, la zona meridionale di Svizzera e Germania. […] Niente essere umani, il mondo esisteva senza parole, gli animali si esprimevano e capivano suoni privi di senso apparente, poiché tutti ascoltavano davvero: gli animali ascoltavano il vento, e nelle pinete vicine alla riva marina ascoltavano gli scricchiolii dei tronchi, e quel suono era il vento imprigionato e rilasciato dal legno, dal tempo incapsulato dentro le cortecce.
G. Falco, Il paradosso della sopravvivenza, Einaudi, Torino 2023, pp. 22-24
Ogni anno, regione, provincia, comune, Consorzio Neve Pratonovo, Funivia Val Fiori Spa e Gran Comunità Val Fiori investono milioni di euro per produrre neve artificiale. […] A duemila metri d’altezza, sono arrivati i camion e le ruspe, le ruspe hanno scavato e sollevato l’erba e la terra e le rocce, diventate rifiuti equiparati a materiali derivanti da attività di demolizione. Gli uomini hanno trasportato l’erba e la terra e le rocce per smaltirle lontano, in pianura. Hanno deviato il corso di torrenti e la poca acqua dei ghiacciai, in estate hanno riempito parte del nuovo invaso e sperato che piovesse, in modo che l’acqua arrivasse fino ai bordi. I bordi sono impermeabilizzati con teli di polietilene ad alta densità, un polimero derivante dal petrolio: insomma, per l’invenzione del candore bianco occorre ciò che bianco non è. […] Ieri notte, gli uccelli impauriti dal rumore dei cannoni non riuscivano a dormire dentro i nidi, così hanno svolazzato disorientati, incapaci di adattarsi al volo notturno; gli altri animali sono scappati in quota a cercare un rifugio dove dormire ai lati delle piste, ma il rumore è arrivato anche dentro i boschi, sembrava il suono del raschiamento definitivo, il lamento del pianeta svuotato dalle ultime risorse. Se volessimo assegnare uno stato d’animale a quel suono, diremmo che racchiudeva sofferenza cosmica, e invece per l’essere umano era imperturbabilità, il semplice suono generato da un meccanismo industriale.
G. Falco, ivi, pp. 244


Il paradosso della sopravvivenza non è solo il teorema pseudoscientifico che garantirebbe con maggiore probabilità il mantenimento in vita del corpo dell’obeso protagonista rispetto a quello di una persona normopeso, è anche la metafora del presente della specie umana. L’era in cui viviamo ha un nome preciso: Antropocene. Questa parola non designa un clima culturale o una congiuntura economica, ma è stata proposta per indicare un’intera era geologica, quella caratterizzata dall’impatto delle attività umane sull’ambiente, nel momento in cui l’uomo, con il suo agire, si è trasformato da agende biologico a agente geologico 6.
Esiste un’alternativa all’antropocene? Immaginare un’antropologia che superi la comprensione dell’umano è possibile solo a patto che prestiamo attenzione alle nostre relazioni con coloro che stanno al di là di noi, gli altri esseri viventi, gli animali, le bestie di Tozzi, le piante, altri sé che, sebbene non siano portatori di un agire morale e di un linguaggio simbolico, ci spingono a trovare nuove modalità di ascolto; ci indicano una possibilità, con la loro alterità di corpi, e ci spingono a immaginare mondi possibili, a defamiliarizzare l’umano, troppo umano7.

Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. Solo noi abbiamo gli occhi come rivolti indietro e tesi come reti
attorno a lei, alla sua via d’uscita.
Ciò che è fuori, noi lo sappiamo solo dal volto dell’animale; poiché già piccolo
il bambino lo forziamo a volgersi all’indietro,
a scorgere le forme, non l’aperto, così profondo
nel volto dell’animale. Libero da morte.
Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, trad. it. di Sabrina Mori Carmignani, Passigli Poesia, Firenze 2023


Bibliografia
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Note

  1. E. Kohn, Come pensano le foreste, trad. it. di A. Lucera e A. Palmieri, nottetempo, Milano 2021.
  2. N. Moe. “Observations on Bestie.” MLN 108, no. 1 (1993): 113–24. R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 108-109: Per definire l’opera abbiamo impiegato l’aggettivo ‘enigmatico’. L’enigma di Bestie è dato dall’apparizione inquietante, in ogni frammento, di una figura di animale. A turbare il lettore è la questione del significato. Perché la comparsa delle bestie non coincide con alcuna epifanica rivelazione.
  3. B. Basile, “Prigione E Fuga in «Bestie» Di Federigo Tozzi.” Filologia E Critica (Rome, Italy : 1976) 3 (2004): Filologia E Critica (Rome, Italy : 1976), 2004 (3).
  4. Vd. la testimonianza raccolta (in data 15 sett. 1907) in F. Tozzi, Novale, a cura di G. Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1984, p. 158: «Gli uomini mi sembravano affini alle bestie. In loro non trovavo se non un pezzo di carnaccia con le budella sudicie di dentro. Io amavo le cose e, principalmente, le piante. Le trovavo uguali a me. E ho desiderato spesso di divenire uno stocco di granturco».
  5. C. Serafini, I luoghi del desiderio nella narrativa di Federigo Tozzi: Siena e Roma / The places of desire in the narrative of Federigo Tozzi: Siena and Roma, «Il Capitale culturale», n. 16, 2017, pp. 81-92.
  6. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo, nottetempo, Milano 2021.
  7. E. Kohn, Come pensano le foreste, ed. cit.; D. Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it di C. Durastanti e C. Ciccioni, Nero, Roma 2023.

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