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La rappresentazione degli animali tra mito ed arte: due mostre da visitare
di , numero 57, giugno 2024, Letture e Recensioni, DOI

La rappresentazione degli animali tra mito ed arte: due mostre da visitare
Come citare questo articolo:
Maria Teresa Martini, La rappresentazione degli animali tra mito ed arte: due mostre da visitare, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 28, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11415

Ho finalmente l’occasione e il pretesto per raccontarvi una favola tra arte, mito, trame antiche e contemporanee nei dipinti di una biblioteca dalla lunga storia.
Ho scoperto per la prima volta a Milano, nel 2019, Il Ciclo di Orfeo, quando è stato presentato nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale: un gioiello dell’arte del Seicento, che veniva riproposto nella sua sequenza originaria, con uno spettacolare allestimento scenografico esteso alle sale adiacenti. E dire che ci attendeva da molto tempo e non lo sapevamo.
La mostra era stata pensata in occasione delle celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, invitava ad una visione della natura da una prospettiva artistica lungo un arco cronologico dal Quattrocento al Seicento. La presentazione del ciclo di Orfeo in una cornice prestigiosa era volta a per raccogliere fondi per il restauro delle ventitrè tele del ciclo. Risultato: le tele sono in restauro da quest’anno, e fra un anno potremmo ammirare tutti questo straordinario “atlante” seicentesco della fauna e della flora, alla Biblioteca Sormani.
Si ammira un paesaggio fantastico, fluido come fosse un filmato di tanti secoli fa, dove animali di ogni specie corrono ad ascoltare Orfeo incantatore, duecento animali a grandezza naturale, comuni, esotici e fantastici.
Il Ciclo di Orfeo era stato commissionato da Alessandro Visconti per il proprio palazzo di Milano negli anni ’70 del ‘600. Palazzo Visconti era diventato Lunati, poi della famiglia Verri. A comprarlo nel 1760 sono stati il primicerio e canonico del Duomo Antonio e suo fratello Gabriele, genitore degli illuministi Pietro, Alessandro, e Giovanni, padre naturale di Alessandro Manzoni, e dell’abate Carlo, pittore dilettante, che interverrà disastrosamente sulle tele con gli animali. Viene il dubbio se la ripetuta visione dei dipinti abbia ispirato non solo i pittori, ma lo stesso Manzoni ad ambientare il suo romanzo nel’600!
Dalla fine del Settecento era cominciata a circolare l’errata, ma fortunatissima assegnazione delle tele al genovese Giovanni Battista Castiglione (1609-1664), detto il Grechetto, allora celebre per i suoi dipinti con animali.
La sala «del Grechetto», ancora così definita nell’ottocento, veniva usata e raccomandata come fondale a più pittori, allievi a Brera di Giuseppe Bertini, fino a pochi anni prima che il complesso fosse smantellato da via Montenapoleone.
L’ultima erede dei Verri, Carolina, nipote del grande Pietro e moglie di Alessandro Sormani Andreani, vendeva nel 1877 il palazzo di famiglia. e faceva rimontare le tele in un ambiente di Palazzo Sormani. Il responsabile della drastica operazione di riallestimento fu Achille Majnoni d’Intignano, che le sistemava, tagliandole e cambiandone l’ordine narrativo, in un vano più piccolo e più basso di quello originario. Anni dopo il palazzo veniva acquistato dal Comune di Milano, per allestirvi, dal 1935, il Museo della città. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale hanno colpito pesantemente l’edificio, ma le opere d’arte erano state preventivamente allontanate. A guerra finita, il Comune decideva di collocare in Palazzo Sormani la Biblioteca civica, inaugurandola nel 1956, con il ripristino dell’intero ciclo di Orfeo.
Siamo in attesa di scoprire se, dopo il restauro. i colori delle tele acquisteranno luminosità, al momento il fondale scuro consente di riconoscere solo Orfeo e gli animali dalle tinte più rosate. I restauri, iniziati nel 2024, si concluderanno nel 2025, quando il ciclo tornerà visibile nella Biblioteca di palazzo Sormani, dove ci attenderà per narrarci ancora una volta in immagini, il mito di Orfeo, cantore della Tracia che, con la sua celestiale musica, incantava anche gli animali più feroci.
Nel dipinto sono rispettati spesso gli habitat di provenienza, fa eccezione l’unicorno, ancora irreale, mentre il drago volante ha oggi ricevuto una identificazione nell’alcelafo bubalo: un’antilope del Nord Africa estinta intorno al 1930.
Nel ciclo prevalgono specie presenti anticamente in Italia e in Europa, poi in territori dell’Africa, dell’America, dell’Asia continentale e meridionale e dell’Arcipelago indonesiano (Nuova Guinea, in particolare): la volpe artica e il ghiottone vivono anche in Eurasia e il cacatua ciuffogiallo si trova anche in Nuova Guinea.
Tra i numerosi animali esotici spiccano quelli di origine sudamericana, sia mammiferi che uccelli, soprattutto del Brasile, allora più accessibile, grazie alle presenza di colonie portoghesi. Tra gli animali africani: il cercopiteco, il leone o il leopardo, la bertuccia o il pinguino africano, dubitativamente identificata un’antilope gerenuk, dal Corno d’Africa e/o dalle regioni limitrofe. Dall’ Asia meridionale e dalle isole dell’Indonesia il petaurista rosso, il babirussa, lo scoiattolo di Prevost, e il bucero rinoceronte.
Uno spazio ampio, nei dipinti, è assegnato ai volatili. Dalle caratteristiche del piumaggio s’intuisce che l’animale è stato osservato durante il passo migratorio o durante lo svernamento. La paradisea minore è raffigurata provvista di zampe, mentre nel Cinquecento questi uccelli venissero considerati apodi, perché gli indigeni della Nuova Guinea e delle Molucche regalavano agli esploratori le loro pelli prive delle tozze zampe, che sembrava ne sminuissero la bellezza del piumaggio.
Probabilmente gli esemplari presi a modello dai pittori erano animali viventi, forse tenuti in un serraglio: i dettagli della muscolatura, del piumaggio o la stessa postura fanno presumere una conoscenza diretta per una resa pittorica variegata. In altri casi, è possibile che il ritratto più convenzionale dell’animale provenga dall’osservazione di esemplari tassidermizzati: tra questi il gufo reale o la genetta, o da illustrazioni di libri e stampe.
Per i pinguini africani e i polli sultani gli artisti si sono basati su un dipinto ancora più antico: l’Allegoria dell’Aria di Jan Brueghel (1621), adesso al Louvre, ma allora nella raccolta milanese del cardinale Federico Borromeo, il fortunato possessore della Canestra del Caravaggio. Gli orici sono antilopi raffigurate con un corpo di fantasia e l’identificazione è possibile solo sulla base delle corna, straordinarie, corna ammirate in qualche Wunderkammer: ne conservava alcune anche il museo milanese di Manfredo Settala (1600-1680), ora approdate al Mudec: il Museo delle Culture di Milano.
Le ricerche recenti hanno consentito di riconoscere i veri autori di un’opera tanto grandiosa: Antonio Giusti, specializzato in fiori e animali, Pandolfo Reschi (1640-1696) esperto animalista, Livio Mehus (1627-1691), un irrequieto e versatile pittore belga.
Nel diario del fiorentino Francesco Bonazzini si trova, dopo il 1696, una biografia del pittore Pandolfo Reschi (1640-1696), di Danzica, naturalizzato fiorentino, specialista di paesaggi e di battaglie, a cui era stato indirizzato dal pittore Antonio Giusti, specializzato in fiori e animali, il nobiluomo Alessandro Visconti (1619-1685), capocaccia del granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici, che lo convinse a completare da lui i dipinti, nel palazzo milanese che aveva ereditato nel 1650. Al Reschi si era aggiunto successivamente Mehus, sempre della corte medicea, per le poche figure mitologiche presenti nelle tele.

La visita alla mostra del Ciclo di Orfeo a Palazzo Reale, del 2019, consentiva di accedere ad una sorta di “sala delle meraviglie”, con oltre 160 esemplari di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e invertebrati provenienti dal Museo di Storia Naturale e dall’Acquario di Milano e dal MUSE di Trento: gli stessi animali rappresentati nel dipinto.

Nella sala successiva, grazie ai curatori-storici dell’arte Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, dell’Università Statale di Milano, si poteva ammirare un famoso codice tardogotico lombardo, l’Historia plantarum della Biblioteca Casanatense di Roma, ricco di centinaia di illustrazioni tratte dal mondo delle piante e degli animali. Una pagina del codice, con l’immagine di un gatto, era stata messa in dialogo con un disegno di Leonardo da Vinci della Biblioteca Ambrosiana, nella sezione “GATTO VIVO, GATTO MORTO“.

L’Historia plantarum, era un’enciclopedia medica destinata al re di Boemia, Venceslao di Lussemburgo (1361-1419). Parte del testo del codice deriva dai Tacuina sanitatis, repertori medievali relativi ai rimedi naturali con cui curare la salute, che traggono i loro contenuti soprattutto dal trattato arabo di Ibn Butlān, un medico di Baghdad dell’XI secolo.
Gli artisti che hanno eseguito le miniature sono dei lombardi appartenenti alla cerchia di Giovannino de’ Grassi (documentato dal 1389 al 1398), grande specialista nella raffigurazione degli animali, coinvolto anche nella progettazione del Duomo di Milano.
Il voluminoso codice era aperto su una pagina dove un gatto, dalle movenze impacciate, si avvicina a una serie di forme di cacio: e sembra averne rubato una fetta. La didascalia sottostante spiega come parti dell’animale, persino delle sue secrezioni, fossero utili alla vita quotidiana. La rappresentazione del gatto derivava da un animale morto, più facile da mettere in posa rispetto a uno vivo. Al contrario Leonardo da Vinci (1452-1519) in un foglio del Codice Atlantico, mentre studiava l’equivalenza geometrica di alcune superfici, si soffermava, come in un’istantanea dal vivo, sulla posa complicata di un gatto intento a lavarsi.

In attesa della fine del restauro del ciclo d’Orfeo e della possibile visita a Palazzo Sormani (2025), mi piace suggerirvi (entro metà luglio!) un passaggio nel mondo delle Mille e una notte, a “PERSIA FELIX – Tappeti, Metalli e Miniature dalle antiche città” in mostra al MITA – Museo Internazionale del Tappeto Antico Centro Culturale Fondazione Tassara in Brescia.(fino al 14 luglio 2024)

Persia Felix è come un viaggio nell’impero persiano, nello stesso periodo storico dei dipinti del Ciclo d’Orfeo, tra il 1500 e il 1700, attraverso tappeti della Collezione Zaleski e una serie di oggetti tra miniature e metalli. Viene raccontata la cultura libera, diffusa, la vita felice nei giardini delle città persiane.
Dalla capitale Isfahan provengono spettacolari tappeti fioriti a giardino, da Heritz tappeti invece geometrici e in seta, da Tabriz opere dal gusto più schematico e geometrico che si avvicina a quello del Caucaso.
Sono inseriti anche alcuni tappeti della fine ‘800 o inizio ‘900 con trionfi naturalistici di gusto quasi Art Nouveau, sembrano grandi voliere multicolori con centinaia di curiose presenze zoomorfe, accanto ai fiumi, interpretati da rigogliosi Alberi della Vita.
Sono esposti circa quaranta manufatti, tra tappeti dalla collezione di Fondazione Tassara, alcuni prestiti dalle collezioni di Fondazione Bruschettini per l’Arte Islamica e Asiatica (Genova) e dal NUR – Islamic Metalworks Collection (Milano), per un panorama della cultura sviluppata nelle città fiorite durante l’impero safavide, in particolare tra il 1501 e il 1736, una sorta di Rinascimento persiano, grazie alla liberalità e all’apertura intellettuale dell’epoca, in grado di sviluppare le arti per far crescere la società nella zona che oggi viene fatta coincidere con l’Iran.
I tappeti realizzati per ornare palazzi e dimore di alto rango sono arrivati in Europa soprattutto attraverso le esportazioni ottocentesche. Colpiscono le creazioni immaginifiche sul tema del giardino, in cui intrecci di tessuto diventano rami, sentieri, stagni e ruscelli abitati da un bestiario tra fantasia e documentario. Orsi e giaguari, cani e cavalli, scimmiette, volatili, daini e arieti animano anche le pagine miniate e calligrafate esposte, a testimoniare la millenaria tradizione letteraria della Persia, ricca di scrittori, filosofi, matematici, scienziati e poeti. Dalle poesie sono tratti i versi che scandiscono l’allestimento lungo il percorso museale, paragonabili ai motti del Magnifico. Questo viaggio ci viene raccontato, in modo dettagliato, anche dai volumi di Jean Chardin (Parigi, Francia, 1643 – Chiswick, Gran Bretagna, 1713) autore dei Voyages de monsieur le chevalier Chardin en Perse et autres lieux de lOrient, considerati fino a oggi testimonianza attendibile, dettagliata e approfondita sulla storia e sulla società dell’epoca. All’ esemplare del 1686 con disegni di Grelot, sulle varie città giardino, è dedicato un video con la regia di Wladimir Zaleski proiettato sulla grande parete dell’ingresso, su schermo gigante.
Lungo il percorso son collocate vetrine con rari oggetti in metallo che permettono di immaginare alcune attività quotidiane del periodo: alcune brocche, un bacile dalle decorazioni fittissime e fluenti arabeschi, una lampada a olio dalle forme zoomorfe e una maniglia in fattezze leonine. Si celebra una Persia felice, colta ed elegantissima, con una grande tradizione dalle svariate espressioni artistiche, che vuol solo essere ammirata. Vi aspetta.
“PERSIA FELIX – Tappeti, Metalli e Miniature dalle antiche città”: MITA, via privata de Vitalis 2/Bis, Brescia. Ingresso gratuito fino al 14 luglio 2024 sabato e domenica ore 11.00 > 19.00.

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