Bibliomanie

Cinzia Dezi, Qui non siamo al liceo classico
di , numero 57, giugno 2024, Letture e Recensioni, DOI

Cinzia Dezi, <em>Qui non siamo al liceo classico</em>
Come citare questo articolo:
Lisa Bentini, Cinzia Dezi, Qui non siamo al liceo classico, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 30, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11418

Da insegnanti precari non è raro vedere smorzato il proprio entusiasmo da neofiti con una sola (e per di più infelice) battuta di un collega, come quella che dà il titolo all’ultimo libro di Cinzia Dezi Qui non siamo al liceo classico (Book Tribu, 2023). A pronunciarla è il prof. Riporto, responsabile del dipartimento di filosofia, dopo che al primo consiglio di classe la supplente, nonché protagonista del libro, Aurelia Alessandrini, ha osato proporre

«un laboratorio interscolastico di lettura del testo filosofico del tutto gratuito, a cui avrebbero potuto accedere gli studenti di tutti i licei della Città del Capoluogo e della Provincia e che avrebbe visto gli studenti accendersi sulle parole degli autori»;

In effetti, qui non siamo al liceo classico bensì in un “Liceo-sperduto-in-mezzo-ai-campi” a cui la “Grand Roulette delle Supplenze” l’aveva assegnata. «Non mettiamo troppa carne al fuoco», aveva aggiunto il prof. Riporto, commentando il laboratorio. Del resto, secondo la prof. Alessandrini, nella scuola italiana «più che filosofia tout court s’insegna STORIA DELLA FILOSOFIA», non come in Francia, parole sue, dove «il prof di filosofia è svincolato dalla storia» e «la filosofia si insegna per temi e problemi»; e qui l’autrice, guarda caso insegnante di filosofia e storia al liceo, affronta una questione interessante che ritorna più volte nel libro, tanto più perché alla povera Alessandrini, sebbene laureata in filosofia, verrà assegnato esclusivamente l’insegnamento della storia. Per lei significa cominciare a studiare sin dall’inizio della scuola molto più dei suoi studenti, anche per riuscire a parare i colpi delle loro insidiosissime domande, come quelle scelte per l’esergo del libro e quelle con cui gli studenti interrompono continuamente le lezioni di storia: «Prof, ma perché cognato? Con chi era sposato?» le chiedono per esempio quando spiega che Guglielmo, il futuro “Conquistatore”, si era scontrato con Aroldo II, cognato del defunto re Edoardo il Confessore. «Non è vero che la “fase dei perché” finisce a quattro anni» (e per fortuna!), si legge già dalla prime pagine del libro, in cui l’ironia e il sarcasmo si rivelano da subito la cifra stilistica della scrittrice. 
Diviso in sessanta brevi capitoli (più l’avvertenza iniziale e l’epilogo) Qui non siamo al liceo classico è il racconto rocambolesco di un intero anno scolastico: a raccontarci le avventure di Aurelia Alessandrini nel paese della scuola non è però la protagonista, bensì Sandrina Stradellacci, di cui non sappiamo molto se non che diventa il “Grande Orecchio” dei malesseri ma anche degli «occasionali benesseri» dell’amica Aurelia, «la mia isterica amica», come la chiama all’inizio del libro. Isterica ma pure simpaticissima, senza peli sulla lingua, appassionata, ipocondriaca e addirittura un po’ matta come quando «si era trasformata nell’ur-scimpanzé e aveva iniziato a tirare le noccioline contro il vetro dello schermo del PC, urlando come una bertuccia» – Dezi sfrutta benissimo l’iperbole per scatenare il riso nel lettore, e il lettore ride, sì, ride spesso. Aurelia Alessandrini è una protagonista che difficilmente si dimentica, e come Ester Baruffi, la protagonista del precedente libro di Dezi intitolato la Smania (Monte università Parma, 2018), ha fatto mille lavori: è stata attrice, gelataia, pizzaiola, traduttrice, acrobata, stregona, artificiere. Ma come le è venuta l’idea di fare uno dei mestieri, a detta di Sandrina, «più a rischio di burnout sulla faccia della Terra»?
Aurelia aveva finalmente voluto mettere a frutto la sua laurea in filosofia, e questo però è accaduto durante uno degli anni scolastici più terribili degli ultimi tempi, il 2020/2021, in cui la pandemia ha scardinato il fare scuola con le sue temibili sigle di DAD, didattica a distanza, e DDI, didattica digitale integrata. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un racconto distopico, se non fosse che la distopia si è già realizzata, e così il racconto scolastico dell’anno scolastico 20/21 rimane a tratti grottesco e surreale, mescolando dinamiche della scuola già note ai veterani a nuove e inesplorate dinamiche pandemiche. Lo stesso edificio scolastico, quando è popolato da soli docenti che si collegano al computer dalle loro aule vuote che rimbombano, appare spettrale; forse per questo ad Aurelia, mentre prende in treno verso la Città Capoluogo da brava precaria pendolare, le ritorna in mente la casa in collina dove abitavano i suoi zii:

«adesso la grande casa era vuota, la nonna era morta e anche la maggior parte degli zii, il padre dell’Alessandrini non c’era più neanche lui, e in quella casa, in mezzo alla cucina, era spuntato un albero».

La scuola d’altra parte è una sorta di generatore di ricordi d’infanzia, specie in chi continua dopo anni e anni a frequentarla, seppure nel ruolo di docente:

«E dopo, finita anche la quinta ora a disposizione del sabato, l’Alessandrini era uscita nel sole, con l’odore di erba tagliata, che la faceva starnutire da sotto la mascherina e le ricordava il giardino di scuola delle elementari, e si era sentita così contenta di allontanarsi dall’edificio-giogo-dell’educazione-coercitiva-statale, che le era sembrato di essere più contenta lei degli studenti».

La scuola durante la pandemia mette a dura prova anche il mestiere dell’insegnante, per esempio quando la telecamera inquadra un peluche al posto di uno studente; c’è da dire, però, che chi va sempre in bagno lo fa sia in classe che a casa… E comunque Aurelia Alessandrini ha dalla sua tutto l’entusiasmo delle prime esperienze, che nemmeno il collega Riporto le aveva fatto passare, e quel dolce sarcasmo con cui pungola le sue due terze, come quando si rivolge alla classe in DAD dicendo che li vedeva seduti a giocare ad “Among Us” e loro, increduli, esclamano: «Ma prof, COME FA A SAPERLO? Cosa fa, CI SPIA?»
Cinzia Dezi è riuscita a “spiare” gli studenti con grande abilità, e pure sé stessa, senza mai perdere leggerezza: sì, perché, nella protagonista Aurelia Alessandrini, che viene dalla “Piccola Città Bizantina” possiamo intravvedere anche l’autrice, ravennate di nascita e bolognese d’adozione, nonostante l’Avvertenza iniziale ci metta in guardia, come è giusto, dal cercare coincidenze tra autrice e protagonista; e per fortuna che in mezzo c’è la narratrice Sandrina, che libera il racconto dalla confusione che avrebbe potuto generare il racconto di Aurelia in prima persona, se non per quei messaggi e-mail scritte dalla stessa Aurelia che la narratrice riporta fedelmente. Anche nella scelta della voce narrante a Dezi piace giocare, creare sovrapposizioni ma non troppe, affinché un po’ tutti si possano riconoscere nella professoressa Alessandrini.
Qui non siamo al liceo classico è un libro sulla scuola leggero e divertente, ma nel contempo capace di affondare il dito nella piaga quando serve, mettendo in luce le fatiche ma anche le gioie della relazione con gli studenti, che l’autrice ritrae con una penna felice e sempre spiritosa, dall’Adorabile-video-giocatore-incallito all’Adorabile-che-non-si-sentiva-abbastanza-amato, la complessità della relazione con i colleghi e con le famiglie, l’importanza della riflessione sulla disciplina che s’insegna e sull’annosa e sempre delicata questione della valutazione:

«per quanto lei ci provasse ad essere oggettiva, era solo un essere umano e non un automa da cui usciva uno scontrino con la valutazione. Se fosse stata un automa da cui usciva uno scontrino con la valutazione, forse sarebbero stati contenti?? Invece niente, si dovevano accontentare di carne, sangue, imprecisione».

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