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Nostalgia di un presente che svanisce. Le demolizioni a Roma nel dibattito pubblico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento
di , numero 57, giugno 2024, Saggi e Studi, DOI

Nostalgia di un presente che svanisce. Le demolizioni a Roma nel dibattito pubblico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento
Come citare questo articolo:
Dario Pasquini, Nostalgia di un presente che svanisce. Le demolizioni a Roma nel dibattito pubblico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 14, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11454

Le modalità con le quali la città di Roma si è trasformata a seguito dell’Unità d’Italia per assumere il ruolo di capitale del nuovo Regno d’Italia sono state indagate soprattutto dal punto di vista dell’urbanistica e dell’architettura delle nuove costruzioni1. Alcune trattazioni generali hanno dedicato spazio alle reazioni degli abitanti della città, e di chi la visitava nel periodo successivo al 1870, inclusi alcuni intellettuali stranieri, davanti al radicale rinnovamento che Roma stava attraversando2. Tuttavia, nonostante la fascinazione per la “Roma sparita” e la fortuna di questo termine coniato dal pittore e fotografo Ettore Roesler Franz, manca ancora uno studio specifico dedicato agli edifici storici distrutti e ai paesaggi naturali stravolti per fare spazio alle nuove strade e ai nuovi quartieri, nonché alle sensazioni che queste sparizioni e alterazioni suscitarono nei contemporanei.3
Attraverso questo saggio si intende perseguire proprio questo obiettivo, offrendo una prima panoramica sull’argomento, che comprenda non solo le posizioni opposte, come quelle dei fautori e dei critici della modernizzazione della città, ma anche gli atteggiamenti incoerenti o strumentali che spesso accompagnarono i dibattiti dell’opinione pubblica dell’epoca su questo tema. Ci si concentrerà in particolare su una serie di interventi pubblici di studiosi, intellettuali e giornalisti fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

1. Le distruzioni necessarie: un archeologo e un geografo
Nell’introduzione al suo volume dal titolo Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, pubblicato nel 1888, l’archeologo Rodolfo Lanciani passa in rassegna i pro e i contro delle trasformazioni urbanistiche apportate alla nuova capitale dopo l’Unità d’Italia. Nel complesso, il suo giudizio è positivo. Egli infatti ritiene che la «rivoluzione compiuta a Roma nel settore dei lavori pubblici» si sia accompagnata a un enorme «progresso nell’archeologia romana», testimoniato da «scoperte scientifiche di speciale importanza4.» Non a caso, il frontespizio del volume è illustrato da quello che forse è il più prezioso fra i ritrovamenti archeologici nella città in questo periodo: il pugilatore bronzeo oggi conservato al Museo Nazionale Romano. Fra i contro, tuttavia, Lanciani lamenta di aver visto

«ogni singola fra le nostre ville nobiliari – la Patrizi, la Sciarra, la Massimo [forse la parte con il Casino di Termini di villa Peretti Montalto, all’epoca di proprietà Massimo n.d.a.], la Lucernari [Bolognetti, n. d. a.5], la Mirafiori, la Wolkonsky, la Giustiniani, le Torlonia [il plurale Torlonias si riferisce ad almeno due fra tre ville, villa Albani Torlonia, villa Torlonia a via Nomentana e villa Costaguti poi Torlonia di Bracciano a Porta Pia], la Campana, la San Faustino [la parte di villa Peretti Montalto comprendente il Casino Felice, passata in via ereditaria dai Massimo ai Bourbon Del Monte, principi di San Faustino n.d.a.] – distrutta, i loro casini smantellati, e i loro bei vecchi alberi trasformati in carbone; la distruzione di villa Borghese è stata fermata, per il momento, dal più o meno corretto decreto di un tribunale. In un solo caso, un nobiluomo de la vielle roche ha resistito fino al suo ultimo respiro alla tentazione di vendere la sua villa [villa Boncompagni Ludovisi, n.d.a.]. Il suo funerale non era quasi terminato che venne subito colta l’opportunità e ciò che egli aveva strenuamente impedito, come vergogna per la famiglia, venne realizzato dai suoi principeschi figli e figlie in meno di una settimana, e il sito della villa, la più magnifica che Roma possedette all’interno delle proprie mura, è già ricoperto di edifici per appartamenti6

Davanti a un tale scempio, le autorità pubbliche, secondo Lanciani, erano state «colte di sorpresa» dato che le reali responsabilità erano da attribuirsi alla «speculazione italiana e straniera» e alla «razza degenerata» degli aristocratici romani7.
Queste distruzioni, comunque, a giudizio del celebre archeologo, non avevano intaccato «le nostre chiese, i nostri monasteri, i nostri monumenti», che «erano ben tenuti come mai prima,» bensì solo i loro «dintorni,» i quali erano stati rovinati dai «banali, disarmonici, squallidi e brutti nuovi quartieri,» cosicché la città aveva perso per sempre il suo tratto «pittoresco» e le sue «principali caratteristiche» dell’epoca dei Papi8.
D’altronde, secondo Lanciani, le architetture delle «chiese» romane e i «monumenti» in esse custoditi non avevano tutti la stessa dignità. Egli infatti non nasconde un senso di stizza nei confronti delle radicali trasformazioni o, addirittura, distruzioni di chiese medievali operate da alcuni architetti e artisti barocchi o tardo barocchi. In particolare, egli cita le «ristrutturazioni vergognose» di Francesco Borromini nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la «profanazione» della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme da parte di Domenico Gregorini e Pietro Passalacqua, nonché le «produzioni insignificanti» di pittori come «Francesco Cozza [e …] Giacinto Brandi» che avevano cancellato affreschi del Trecento9. C’erano dunque «chiese» e «monumenti» di Roma meno pregevoli di altri.
Con questi riferimenti alle distruzioni operate durante i secoli precedenti Lanciani aveva anche l’obiettivo di far riflettere sul fatto che Roma «ha sempre vissuto […] a spese del [suo] passato» e dunque, di far guardare con una certa indulgenza alle demolizioni realizzate in tempi più recenti10. Una narrazione simile si ritrova in un intervento che lo studioso tenne in occasione dell’adunanza solenne dell’Accademia dei Lincei nel maggio 1886, in presenza di Re Umberto I e della Regina Margherita11. Lanciani, infatti, deplora ancora gli stessi pittori «di mediocre fama», fra cui Cozza e Brandi, che avevano dipinto «bizzarramente» coprendo, stavolta, opere del «primo Rinascimento;» affibbia a Borromini il «titolo di architetto nefando» per la sua «deformazione» del Laterano e stigmatizza Giovanni Battista Piranesi per aver creato nella chiesa di Santa Maria del Priorato da lui progettata «un insieme di mostruosità tali dentro e fuori quel sacro luogo, che non trova riscontro in altro paese del mondo12». Egli nota allo stesso tempo, tuttavia, che

«gli artisti i quali presero parte alla crociata [sic!] contro le nostre chiese, son quelli stessi che dotarono Roma di tanti pregevoli monumenti, della Fontana di Trevi, della Curia Innocenziana, della Consulta […] dei Palazzi […] Corsini, Pamfili [sic!], Altieri, Falconieri, Madama, delle chiese di Sant’Agnese, di Sant’Andrea al Quirinale, di San Carlo ai Catinari»13.

Lanciani, dunque, opera una distinzione fra architetture di Roma apprezzabili e disprezzabili del periodo barocco e tardo barocco, a partire dalla quale uno stesso artista può ritrovarsi catalogato al contempo come degno per alcune sue opere e indegno per altre.
Un aspetto centrale, a questo proposito, è che, a rigor di logica, se un edificio è ritenuto mostruoso, allora la sua eventuale distruzione potrebbe non essere ritenuta un fatto particolarmente grave. Il ragionamento di Lanciani non si spinge fino a questo punto, anche se il tema delle distruzioni vissute dalla città dopo la presa di Roma assume una notevole importanza nel suo discorso ai Lincei. Egli infatti cita esplicitamente la «controversia che ha di recente agitato il mondo artistico e scientifico», provocando in lui una «prima impressione […] assai penosa e dispiacevole»14. Il riferimento è qui alla polemica lanciata negli anni Ottanta dell’Ottocento da intellettuali tedeschi quali Herman Grimm, Ferdinand Gregorovius e Theodor Mommsen, che lamentarono pubblicamente il fatto che sotto il nuovo Regno d’Italia Roma stesse subendo una grave erosione del proprio patrimonio storico e artistico. Tale polemica provocò un’ondata di indignazione internazionale ma anche reazioni arrabbiate in Italia15.
Dopo aver appassionatamente difeso ed elogiato i risultati ottenuti dalle autorità italiane nella tutela dei monumenti di Roma, Lanciani afferma di non volere spingere

«la carità di patria al punto di negare che in un così formidabile rivolgimento errori facilmente evitabili non siano stati commessi e che non siano state compiute distruzioni volontarie per le quali nessuna scusa seria potrebbe addursi»16.

Tuttavia, secondo Lanciani, «la maggior parte di codesti danni sono da attribuirsi a colpa dei privati, ed alla loro smodata sete di guadagno, senza che le amministrazioni pubbliche potessero opporvisi». Egli aggiunge poi che la «esecuzione di qualsiasi opera pubblica, compiuta a Roma dal quattrocento in poi, è stata sempre e indispensabilmente [enfasi nell’originale] accompagnata da distruzioni»17.
Le distruzioni, insomma, talvolta erano inutili e dolorose, come nel caso delle ville sulle vie consolari, ma molto più spesso si rivelavano assolutamente necessarie.
Anche il geografo Filippo Porena, in un intervento tenuto alla Società geografica italiana nel 1889 e dedicato all’ «attuale rinnovamento edilizio di Roma in relazione colle sue passate trasformazioni», si sofferma sul tema delle distruzioni di edifici storici, ma con un piglio decisamente più aggressivo di Lanciani, tradendo la sua significativa irritazione verso gli iniziatori della citata controversia. Egli stigmatizza le «molte accuse, talune vivaci sino all’insulto» che si erano levate a proposito di come Roma, diventata finalmente «capitale d’una delle potenze europee», gestisse «il deposito toccatole» dalle epoche precedenti18 . A questo proposito, Porena ritiene che «quel che si è fatto, anche così come si è fatto, ha fortemente, grandemente, chiaramente migliorato la città e che è uno sproposito da professori, o da professi, il condannarlo quale un detestabile o deplorevole peggioramento»19. Egli, per esempio, bolla come un «controsenso storico» pretendere che «in nome del Rinascimento si lascino […] le anguste e tortuose stradicciuole coi loro luridi e disadorni tuguri de’ secoli XVII e XVIII, mentre quelle erano fiancheggiate dai ben composti palazzini, dalle leggiadre loggie»20. Se perlomeno Roma avesse mantenuto

«intatta o almeno in misura assai caratteristica una delle sue passate fisionomie, come per es. Siena, o Assisi, o S. Geminiano [sic!] […] sarebbe allora veramente da tener sospesa la mano e di ponderare alquanto prima di abbassarla. Ma Roma di ciascuna delle sue passate esistenze non può mostrare che disgregati avanzi e isolati monumenti; tali, è verissimo, da costituire una serie continuata di meraviglie che non ha pari in nessun’altra città del mondo. Ma questa serie giammai vi è più gelosamente garantita come ora»21.

Infatti, egli afferma riguardo alle «querimonie per quel che si pretende distrutto»:

«Qui, o Signori, se mi foste stati accanto, quando mettevo giù queste pagine, avreste inteso scricchiolare la mia penna sotto il peso di quanto in essa trattenevo. Ma insomma, la verità è che nessun antico edifizio, o parte alcuna di esso che nella sua attuale sussistenza presentasse un reale valore, o storico o artistico, è stato benché minimamente danneggiato22

Porena assume poi un tono lirico ed esorta:

«badiamo a non disconoscere le nuove meraviglie solo perché sono nuove, perché non ancora celebrate in prosa o in versi. Questi verranno in seguito, e quanto più tarderanno, tanto peggio per gli scrittori. Preveniamoli noi: […] Rappresentiamoci questa città, la terza volta rediviva, quale una moderna metropoli, ampia, regolare, salubre, pulita, animata, affollata, percorsa da cocchi, da vetture, da carri, da tramvai, ove tratto tratto alle fughe o alle masse dei nuovi edifizi si interpongano o faccian centro o fastigio un antico tempio, un’esedra, un arco di trionfo, una colonna onoraria, una basilica neocristiana, un palazzo del Rinascimento e magari anche una facciata barocca. Quali più forti contrasti! Quali più efficaci confronti!23

Certo, continua Porena, se uno dovesse dare ascolto solo al «linguaggio della fantasia e del sentimento» dovrebbe riconoscere che

«le nuove case e le nuove vie […] prosaicamente comode e regolari, sorte in aree deserte, silenziose, fra le siepi scompaginate e i muriccioli cariati degli orti e delle vigne, ove ogni tanto un rudere […] sorgeva ad attestare la potenza del tempo e della morte, han fatto perdere alla città quella pace solenne e misteriosa24

E tuttavia, Porena non si lascia tentare dalla nostalgia ed è persuaso che non gli «mancherà il coraggio di compiere il [su]o dovere» e cioè di riportare il discorso «alla ragione». Quest’ ultima osservazione è interessante, perché in modo da perseguire il suo obiettivo retorico, Porena sente il bisogno di presentare la propria argomentazione come ‘fredda’ e fattuale, anche se aveva appena descritto l’impatto molto emotivo, e persino corporeo, che la controversia aveva avuto su di lui mentre preparava il proprio intervento. Porena prosegue poi spiegando che «Roma non doveva rimaner […] una grande, una bella morta» e che «i Romani, anzi gl’Italiani che vi dimorano» non «dovrebbero negarsi tutte le agiatezze della vita moderna» per «procurare un quarto d’ora di nirvana [enfasi nell’originale]» a quei visitatori che poi «in Roma stessa esigono per sé gli alberghi e le pensioni meglio arredate e condizionate25.» Egli, dunque, accusa gli studiosi stranieri iniziatori della controversia di adottare ipocritamente due pesi e due misure.
Certamente, sia in questo intervento di Porena che in quello di Lanciani davanti ai sovrani, era in gioco un forte elemento ideologico-patriottico. Entrambi miravano infatti anche a contrattaccare «quella pretesa rivelazione di vandalismi» di chi aveva rappresentato le recenti trasformazioni urbanistiche prima come «distruzione di Roma, quindi, mitigata la frase, come trasformazione o deformazione26

2. Agli antipodi? La stampa liberale e quella clericale
Da una disamina della stampa romana del periodo emerge che il tema delle distruzioni degli edifici storici di Roma assunse una dimensione scottante per l’opinione pubblica dell’epoca solo in seguito allo scoppio della citata polemica lanciata dagli studiosi tedeschi, e precisamente dopo la pubblicazione nel gennaio 1886 di un articolo di Herman Grimm sulla rivista “Deutsche Rundschau”, tradotto in italiano e pubblicato nel marzo dello stesso anno a Firenze27. Giornali vicini alla sinistra storica, come “La Capitale” e “Il Popolo Romano” (quest’ultimo proprietà di Agostino Depretis, con legami con la Banca Romana) reagirono in modo furioso alla citata controversia, negando che le recenti trasformazioni urbanistiche di Roma avessero davvero danneggiato monumenti di valore28. Un articolo del 1886 su “La Capitale”, per esempio, sostiene che

«Se colpa v’è, in Roma, è quella di aver sacrificato ogni progetto architettonico alla debolezza di conservare delle chiese, che si potevano demolire senza danno alcuno. Per questa incredibile debolezza, la via Nazionale è diventata una coda di serpente, un’infinità di lavori rimangono sospesi, e gli sconci architettonici si vanno moltiplicando29

Il fatto che l’anonimo autore del corsivo rappresenti le chiese come ostacoli allo sviluppo rettilineo del tratto verso il Tevere di Via Nazionale (attuale Corso Vittorio Emanuele II) è significativo. In coerenza con il proprio orientamento radicale, il giornale rappresenta come un paradosso che la volontà di conservare le architetture religiose si fosse imposta sulle esigenze di cambiamento dell’Italia unita. Non è chiaro a quali chiese ‘insignificanti’ “La Capitale” esattamente si riferisca, forse la monumentale Chiesa di San Carlo ai Catinari con i suoi affreschi del Domenichino30. L’allusione alla funzione oppressiva della Chiesa diventa esplicita nel seguente passaggio dell’articolo, nel quale emerge un ulteriore elemento, che era presente anche nell’intervento di Porena: una contrapposizione di classe fra i difensori, stranieri, dello status quo, rappresentati come insani schiavi dell’estetica, e il popolo romano e italiano, che meritavano migliori condizioni di vita, anche se alle spese degli edifici storici. “La Capitale” afferma, infatti, che gli «storici tedeschi»

«due cose […] deplorano: che intorno a San Pietro ed al Vaticano sorgano altri edifici, caserme e abitazioni, e che i giardini e le ville, poste nell’interno della città, cedano il posto ai palazzi ed alle case di nuova costruzione. Per loro San Pietro ed il Vaticano dovrebbero sorgere in una specie di deserto e dominarlo: quelle case nelle quali ora trova abitazione comoda e decente il popolo romano, che doveva ammuffire in luride spelonche tra il buio, il tanfo ed il sudiciume, sono una profanazione di quella solitudine, la quale dovrebbe mostrare San Pietro che si aderge sublime sopra un cumulo di macerie umane. E quelle ville, quei giardini che avrebbero dovuto continuar ad essere la campagna di Roma entro la città; poiché allo storico, al letterato, poco importa che ventimila esseri umani siano condannati ad ingiallire in un alveare fetente di duemila metri quadrati come il ghetto, purché una famiglia principesca si adagi comodamente e sola in una splendida villa di duecentomila metri quadrati, ricca di alberi, sotto i quali possono aver sospirato o Torquato Tasso o Vittoria Colonna31

Secondo “La Capitale”, quindi, il progresso nel tessuto urbano e sociale di Roma da una parte e dall’altra la conservazione di edifici storici e ambienti naturali non universalmente riconosciuti come degni di protezione erano due alternative autoescludenti. Le residenze nobiliari concepite per una vita di delizie dovevano fare spazio a un paesaggio urbano più democratico, popolato dalle classi lavoratrici e non dalle elites. Allo stesso tempo, l’articolo ammette che

«Indubbiamente sono entrati gli speculatori in questa baraonda; ma dovunque c’è movimento, gli speculatori non possono mancare. C’erano, una volta, per costruire le chiese, le ville e il Vaticano; oggi ci sono per distribuire meglio l’aria, la luce e la salubrità. E con buona pace degli storici tedeschi, questa speculazione che innalza dovunque case comode e salubri, è mille volte preferibile a quell’alta idealità che voleva sequestrare in Roma agiatezze, spazio, aria e luce a vantaggio di poche famiglie, condannando duecentomila romani a vivere nella miseria e nel luridume32

Come ha notato Fiorella Bartoccini, la maggior parte della stampa romana dell’epoca aveva forti legami con i rappresentanti della speculazione urbanistica33. Dunque, le argomentazioni umanitarie e patriottiche con le quali “La Capitale” sollecita una più incisiva trasformazione della Città Eterna potrebbero nascondere un’implicita posizione di vicinanza agli interessi degli imprenditori edilizi.
Lo stesso vale per il citato giornale “Il Popolo Romano”, il cui tono è molto simile a quello utilizzato da “La Capitale”. Secondo un articolo dello stesso periodo, infatti:

«tutta questa polemica, sollevata contro la distruzione di Roma [è] fondata completamente sul vuoto, giacché, come abbiamo dimostrato varie volte nella cronaca, i fatti di vandalismo, cui si accenna, sono sogni, nient’altro che sogni e arbitrarie supposizioni34

Nello stesso testo troviamo un ulteriore attacco alla Chiesa (rivolto ai suoi sostenitori), una descrizione disgustata dei presunti edifici miserabili nel centro della città, nonché la contrapposizione fra la vita lussuosa nelle ville romane e le condizioni di indigenza delle classi disagiate:

«Tutto questo clamore artificioso proviene dai clericali, i quali non si sanno dar pace della risoluzione adottata dal Parlamento di piantare, il monumento del gran Re Vittorio Emanuele II, proprio lassù in Campidoglio, demolendo un gruppo di catapecchie malsane e luride, sui ruderi della famosa torre di Paolo III, che non vale, a giudizio degli uomini più competenti, tre baiocchi […] ora che il piccone lavora ed ogni speme è perduta, non potendosi sfogare diversamente, inventano le demolizioni […] dei templi antichi e delle memorie storiche e piangono perfino sulla vendita di Villa Ludovisi, sol perché aveva degli alberi che facevano a quanto pare, una bell’ombra, a chi poteva ottenere il permesso di farvi qualche passeggiata35

L’adozione di un linguaggio permeato di disgusto e di immagini di contaminazione con l’obiettivo di giustificare la distruzione di edifici storici si sarebbe rivelata particolarmente frequente durante gli anni del fascismo36.
Di contro, giornali clericali come “La Voce della Verità”, mostravano di condividere la posizione espressa da intellettuali tedeschi come Grimm e Gregorovius, tradendo talvolta un certo imbarazzo per il fatto che l’origine della protesta fosse stata straniera, e non romana37. Tuttavia, i loro resoconti e commenti risultano basati più su considerazioni ideologiche che su preoccupazioni relative alla conservazione storico-artistica dei monumenti, svelando così un approccio piuttosto strumentale al tema. Un articolo pubblicato nel marzo, 1886, per esempio, sostiene che l’ «idea» guida delle trasformazioni urbanistiche della Città Eterna in quel periodo era di «demolire [il più possibile] per trasformare Roma e farne una città moderna e così toglier[e] addirittura qualsiasi impronta veramente romana e papale» dal tessuto urbano38. Qui la controversia sui monumenti storici sembra più un pretesto per presagire una damnatio memoriae della Chiesa per mano delle autorità italiane.
Che si dovesse procedere a un «allargamento stradale» della città di Roma anche secondo “La Voce della Verità” era fuor di dubbio39. Erano le modalità di questa riconfigurazione che venivano criticate, dato che esistevano già progetti di intervento studiati sotto il Governo pontificio, rappresentati come meno invasivi rispetto a quelli attuati sotto il Regno d’Italia, che però erano stati ignorati. Infatti, afferma il giornale clericale:

«Anche senza i nuovi venuti Roma avrebbe avuto il suo allargamento stradale e fatto forse con miglior criterio e certo con meno spesa pei contribuenti. Testimonio la nuova via al Gianicolo, fatta in pochi giorni […] nel 1867, Piazza Mastai, Piazza Pia e la stessa via De Merode, ora Via Nazionale. E quanto a questa se si fosse seguito il progetto già tracciato nel 1870 dal compianto Mons. De Merode, non si sarebbe poi andati incontro a tante difficoltà e tante spese con un risultato tutt’altro che soddisfacente per le montuose e tortuose curve che stuonano e non poco in una via principale. Siamo giusti, allora si partiva dal principio di far le cose a poco a poco e secondo il bisogno l’allargamento delle via dei Massimi, dell’Angeletto e Governo Vecchio era già allo studio fin dal 1870 – ora si parte da un altro punto di vista ch’è quello della distruzione e della speculazione. […] Quanto alla speciale Commissione d’arte e archeologia di cui fa parte il ch. comm. De Rossi, presieduta dal senatore Vitelleschi, la quale viene dal Popolo Romano citata per provare che non si è fatta la distruzione di Roma, dobbiamo osservare che […] molte e molte cose sono state abbattute o vennero a sparire dal 1871 in qua contro il parere della Commissione stessa. Citiamo fra le tante il ponte Cestio e le cose scoperte o rinvenute al Castro Pretorio nella erezione del Ministero delle Finanze, le quali pure potevano figurare nei grandi cortili del palazzo stesso, e di cui invece non si seppe più nuova40

Come si vede, qui “La Voce della Verità” rievoca la recente distruzione di monumenti o rovine della Roma antica. In un articolo successivo, il giornale clericale parla invece della demolizione di un monumento moderno, la citata Torre di Paolo III, ma non tanto per il suo valore architettonico quanto per lo sfollamento delle persone che abitavano in quella zona:

«La distruzione della torre di Paolo III è stata lamentata da tutti. Chi è per esempio che pensava si potesse applicare in sì larga scala la legge sulle zone laterali con danno evidente della classe povera e laboriosa, che non trova più case a pigioni corrispondenti ai suoi scarsi lucri41

Secondo “La Voce della Verità”, infatti, il Piano regolatore approvato dal Consiglio comunale aveva subito così tanto cambiamenti che di esso era rimasta «appena l’ombra42

«Oltre la sistemazione della via de’ Banchi, specie del Banco S. Spirito, ove i proprietarii sono rimasti da anni interdetti sui loro stabili, dei Lungo Tevere per es. non si parlava affatto e per giunta con l’applicazione della legge per Napoli; come pure dell’applicazione di detta legge pei quartieri della Regola e del Ghetto, così pure non si parlava del rettifilo dalla Chiesa Nuova a Piazza Pia, non si parlava del monumento all’Ara Coeli e via via43

Quando scende nel dettaglio della conservazione di monumenti storici di epoca moderna, “La Voce della Verità” mostra di non dominare sempre il tema. Per esempio, l’articolista data la tardocinquecentesca torre di Paolo III al periodo fra il medioevo e il rinascimento44. In altri casi, invece, il giornale clericale appare più convincente, per esempio quando nomina

«Lo sconquasso lungo il Tevere, l’alterazione del Ponte Elio, la scomparsa di tante chiese e monasteri, l’atterramento del portone e della cinta vignolesca al Foro Romano e del Fontanone di Ponte Sisto […]le numerose ville urbane e suburbane forzate per fas et nefas a dileguarsi45

Proprio sulla questione delle ville scomparse, “La Voce della Verità” propone un ragionamento che coglie nel segno, anche se nell’ambito di un’argomentazione che lamenta gli scarsi risarcimenti concessi ai nobili proprietari delle ville espropriate, mentre i proprietari dei terreni adiacenti avrebbero visto crescere a dismisura il loro valore:

«[Il] Municipio […] ha stanziato parecchi e parecchi milioni per una passeggiata publica [sic] fuori di porta Flaminia […]. Quei numi tutelari del decoro di Roma come mai non pensarono che tutte queste ville ora scomparse erano pressoché aderenti l’una all’altra, e che facilissimo era il collegare le Ville Patrizi, Bonaparte, Massimo e Ludovisi e queste col Pincio formando così con il risparmio di non pochi milioni, uno splendido ed unico paesaggio nato e fatto apposta per Roma, e dotato di stupenda vegetazione per la quale i danari non bastano perché ci vogliono i secoli?46»

3. Il ruolo del comune e dello stato
Le posizioni rappresentate da Porena, da “La Capitale” e da “Il Popolo Romano” erano certo estreme nel negare che le radicali trasformazioni urbane che Roma stava vivendo potessero comportare un qualche tipo di pericolo per il suo patrimonio storico-artistico. Le differenti maggioranze del Consiglio Comunale di Roma, invece, si dimostrarono nel corso degli anni più sensibili al tema della conservazione dei monumenti della città. Per esempio, come il citato commento su “La Capitale” notava con irritazione, il Consiglio Comunale nel 1882 aveva scelto un percorso sinuoso per il progetto di Via Nazionale, ora Corso Vittorio Emanuele II, in modo da proteggere diversi preziosi edifici che precedenti progetti a causa di una «vaghezza del rettifilo» avevano previsto di demolire47.Negli anni Settanta dell’Ottocento, il consigliere municipale e prestigioso archeologo Giovanni Battista De Rossi (1822-1894) si era opposto con successo alla distruzione della basilica medievale dei SS. Quattro Coronati e delle mura cittadine presso Via Salaria48. Ancora, nel 1886 egli stigmatizzò pubblicamente i molti allargamenti stradali che avevano «mano a mano distru[tto] il carattere antico della città, sostituendovi null’altro che stradoni uniformi e monotoni»49. In quello stesso anno, il Consiglio Comunale aveva richiesto a Lanciani di fornire un parere sul progetto di allargamento di Ponte Elio o Sant’Angelo, cosa che l’archeologo fece, contribuendo a impedire che tale misura fosse deliberata da quella stessa assemblea50, che votò anche contro l’allargamento di via di Monte di Santo Spirito, una misura che avrebbe comportato la distruzione parziale di Palazzo Gaddi progettato da Jacopo Sansovino51.
Tuttavia, in molte altre occasioni il Comune si mostrò un entusiasta, e persino spietato, promotore di demolizioni che interessarono architetture artisticamente di valore, per non parlare dei casi nei quali esso rese possibile, grazie a opportune modifiche del Piano Regolatore, la distruzione di siti storici – come la Villa Boncompagni Ludovisi, la più grande fra le ville entro le mura della città – che erano in mani private52. Fra l’altro, in almeno un caso, la difesa di Lanciani del ruolo del Comune nelle demolizioni sembra essere completamente infondata. Nel 1888 egli descrisse come «assolutamente indegn[a]» la distruzione del citato Palazzo di Termini di Domenico Fontana di Villa Peretti Montalto, chiarendo che il «Comune [non aveva] potuto in alcuna guisa impedirla»53. Tuttavia, il principe Massimiliano Massimo era stato obbligato, nonostante la sua opposizione, a demolirlo, dopo che questo era stato espropriato dal Comune. Tramite un contratto con l’Amministrazione comunale il principe tentò almeno di proteggere il monumentale ingresso della villa, con l’intenzione di smantellarlo e trasportarne i frammenti in una propria diversa proprietà dove poi ricostruirlo. Il tentativo però fallì e il Comune procedette con la distruzione54. Su ordine del sindaco Alessandro Guiccioli, alcuni frammenti furono dislocati nel nuovo giardino pubblico del Quirinale in modo che il portale fosse «rinnalzato nell’angolo del giardino del Quirinale fra le vie del Quirinale e della Consulta», ma l’amministrazione successiva fece rimuovere i frammenti e trasportarli in un deposito, dove alcuni dei quali ancora si trovano55.
Il Governo nazionale assunse un ruolo forse meno importante rispetto al Comune nella trasformazione della città, ma non meno ambiguo56. Mentre il Governo assicurò l’acquisizione pubblica e la protezione di ampie aree che comprendevano i più celebrati monumenti dell’Antica Roma, come il Palatino e le Terme di Caracalla, in altri casi la sua azione contro i monumenti storici della città risultò piuttosto dura. Per esempio, per la costruzione degli argini del Tevere, il Genio Civile fu incaricato della distruzione di centinaia di edifici storici prossimi alla riva al fiume – incluso il rinascimentale Palazzo Altoviti57. L’enorme mole del Ministero dei Lavori pubblici presso Porta Pia rimpiazzò una delle più celebrate ville romane, Villa Patrizi (che era stata semidistrutta durante la Repubblica Romana e successivamente ricostruita, ma comprendeva ancora un grande parco con decorazioni e fontane settecentesche originali), mentre la citata costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II richiese estese demolizioni sul Campidoglio58.

4. Monumento, ambiente e architettura minore
In questo quadro, l’idea, propugnata soprattutto da Porena, dei monumenti di Roma come meraviglie isolate poste all’interno di un ambiente insano o quella, simile, proposta da Lanciani, nella quale si ritrova la tradizionale concezione di monumento come entità a sé il cui valore è indipendente dal contesto che lo circonda, erano condivise da una parte significativa della classe dirigente e della cultura italiana del periodo. Questa prospettiva si rivelò cruciale come giustificazione per le radicali trasformazioni urbanistiche alle quali la Città Eterna fu sottoposta dopo essere diventata capitale del Regno d’Italia.
Solo qualche anno più tardi una tale concezione veniva messa in discussione da studiosi come Gustavo Giovannoni e Maria Ponti Pasolini, che, sotto l’influenza di urbanisti come Charles Buls, sottolineavano invece l’importanza della conservazione dell’ambiente nel quale i monumenti erano inseriti, inclusa la cosiddetta architettura minore59. Lo stesso Lanciani, come si è visto, ebbe sul tema della distruzione di edifici storici, un atteggiamento ambiguo. Nonostante i suoi strali contro gli architetti barocchi che avevano sventrato le venerabili basiliche medievali, nonché contro l’architettura per lui troppo stravagante di Piranesi, egli stimava molto buona parte dell’architettura del Seicento e del Settecento. Si è citato il suo accenno ai «pregevoli monumenti» del Barocco, inclusi due (Sant’Agnese in Agone e Palazzo Falconieri) opera del «nefando» Borromini. Oltre che nel già menzionato caso delle ville distrutte, egli espresse poi in diverse occasioni una profonda frustrazione per le perdite causate dal rinnovamento urbano di Roma. Per esempio, in un articolo risalente allo stesso anno del suo discorso ai Lincei, e che è stato giustamente definito «melanconico», Lanciani riferisce dell’imminente distruzione della barocca villa Strozzi al Viminale, che egli descrive come «un così vago sito di delizie» il cui «smembramento…incominciò nel 1868», aggiungendo che

«il palazzo della villa, durato sino ad oggi, come testimonianza dell’antica disposizione e dell’antico aspetto dei luoghi, sarà totalmente distrutto in questo mese; e […]così, di un luogo tanto notevole, rimarrà soltanto memoria nei libri e nelle vecchie piante della città60

Sfortunatamente, Lanciani, nonostante fosse membro dell’Associazione amatori di fotografia e dell’Associazione artistica fra i cultori di architettura, non agì per salvare la memoria di villa Strozzi, per esempio realizzando fotografie del casino prima della sua distruzione61. L’anno precedente, tuttavia, egli non si era limitato a registrare malinconicamente la scomparsa di edifici storici, ma si era fatto promotore, in qualità di segretario della Commissione archeologica comunale, di un’importante campagna fotografica che mirava a conservare la memoria visiva dell’aspetto delle zone di Roma soggette a radicali stravolgimenti urbanistici, come per esempio il Ghetto. In questo caso, infatti, agì vigorosamente, dando dettagliate istruzioni ai suoi collaboratori in modo che curassero di

«compilare fino da ora un album fotografico completo del Ghetto, nel quale sieno rappresentate non solo le strade, una ad una, e le vedute generali, ma anche tutti gli edifizii più rimarchevoli e tutte le particolarità degli edifizii curiose, pittoresche o interessanti per memorie storiche62

Anche Domenico Gnoli, nella rubrica dal titolo Le demolizioni di Roma pubblicata nella sua rivista “Archivio Storico dell’Arte”, riferiva delle diverse distruzioni di edifici di pregio a Roma. Dando notizia della demolizione di un importante palazzo del primo Cinquecento, Palazzo Bini, egli pubblicò la fotografia di un affresco situato nel pianoterra dell’edificio commentando: «la fotografia, mal riuscita per mancanza di luce, e perché fatta mentre a furia si demoliva, è nondimeno l’unico ricordo intero che di quella pittura ci resti63.» La stessa amarezza traspare in una breve, ironica e melanconica composizione – dal titolo Largo al piccone! e destinata forse a una pubblicazione non identificata – che Gnoli scrisse di suo pugno e che chi scrive ha ritrovato nel suo archivio privato:

«Tira di nuovo dall’alto un vento di piccone che consola! I vecchi quartieri sono una vergogna, e bisogna procedere al loro risanamento: una parola elastica che permette ai bravi ingegneri di lavorare di squadra tirando una bella scacchiera di linee rette orizzontali e verticali indicanti le strade che saran fiancheggiate da abbominazioni rettangolari. E già nella stampa cittadina si levano lodi alla Giunta e al relativo assessore che finalmente s’accingono alla bell’opera di risanare il quartiere dell’Orso, per procedere poi a quello dei Coronari64

Riferendosi alle nuove costruzioni come ad «abbominazioni», alla «stampa» come a uno strumento servile dei politici e – stavolta con tono ironico – ai quartieri storici come a «una vergogna» che bisogna rettificare e al lavoro dei «bravi ingegneri» come a un simbolo della mancanza di rispetto verso le aree storiche, Gnoli rende chiara la sua frustrazione e il suo senso di impotenza nei confronti delle distruzioni che Roma stava subendo. Rispetto a Lanciani, che non a caso rivestiva una carica all’interno dell’amministrazione municipale, è interessante che Gnoli non ritenga il Comune uno spettatore inerme delle distruzioni, ma anzi un operoso protagonista del «nuovo vento di piccone». Lo storico Giuseppe Tomassetti condivideva con Gnoli un senso di forte perdita rispetto agli edifici storici demoliti a Roma in quel periodo. Nella sua serie di volumi su La campagna romana egli espresse ripetutamente la propria indignazione per la distruzione di edifici o paesaggi a lui familiari65. Una delle sue reazioni concerne il portale della villa di Fabiano del Monte a Via Flaminia, il quale, egli nota, era stato appena «barbaramente demolito»66.
Molto probabilmente Tomassetti non sapeva che l’allora direttore del Museo di Villa Giulia, Giuseppe Angelo Colini, aveva ottenuto dal Comune che i frammenti del portale fossero consegnati al suo Museo, con l’intenzione di assemblarli in un nuovo ingresso ancora da erigere, né che lo stesso portale era stato fotografato da Maria Pasolini prima della distruzione67.

Figura 1 – Maria Ponti Pasolini e Giuseppe Rossi detto “Fina” (?), Portale della Villa di Fabiano del Monte, primi anni del Novecento, stampa su carta, Roma, collezione privata.

Dopo aver rinvenuto la lettera di Colini al sindaco di Roma, chi scrive ha ritrovato nel giardino di Villa Giulia quegli stessi frammenti, che hanno bisogno di un urgente restauro68.

Figura 2 – Frammenti del coronamento del portale della Villa di Fabiano del Monte con le lettere “BIA” e “NTE”, Roma, Giardino del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, foto dell’autore, 2020.

5. La ‘Roma sparita’ di un fotografo e di uno scrittore
Tuttavia, non erano solo alcuni studiosi d’arte a dispiacersi per le importanti testimonianze storiche che venivano cancellate durante i primi decenni di Roma capitale. Il fotografo Francesco Adriano De Bonis – che negli anni Sessanta dell’Ottocento era stato incaricato insieme ad altri colleghi dal saggista e archeologo amatore inglese John Henry Parker di fotografare decine di monumenti della città Eterna – fu del tutto scioccato dall’entità delle distruzioni operate contro molti monumenti romani. Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, De Bonis non affrontò però questo “lutto” imbracciando la macchina fotografica e immortalando sistematicamente i monumenti che venivano via via demoliti, in modo da salvarne almeno la testimonianza visiva – come avrebbe fatto Maria Ponti Pasolini una ventina d’anni dopo – ma scrisse e pubblicò una dura invettiva, intitolata I vandali a Roma69. Egli rappresentò la sua esperienza di spettatore impotente di questa scesa di nuovi ‘barbari’ accanitisi contro la Città Eterna addirittura come un vero e proprio «incubo» che lo «opprime», tanto da aver avvertito la necessità di «alleggerir[si]» con questo «sfogo», cioè con la pubblicazione del citato libello70.
De Bonis propone al lettore alcune «osservazioni di cui può esser capace il più volgare senso comune», dato che «i vandalismi» di cui era testimone erano del tutto «evidenti»71. Nel novero di tali distruzioni insensate egli include, per esempio, la demolizione del fontanone di via Giulia, la quale appariva ora come un «gigante» al quale avessero «recisa la testa», o la cancellazione del Porto di Ripetta72. Dopo la radicale trasformazione della zona attorno a Santa Maria Maggiore, che ora si trovava «incassata in mezzo a […]colossali e brutte case», rievocare «l’effetto che produceva» la vista della basilica «a chi scendeva dalle Quattro Fontane» gli procurava una forte sensazione di rimpianto:

«Se conservi memoria del grazioso casino sull’angolo della via Strozzi, e del bel ninfeo [il ninfeo di villa Peretti Montalto, n.d.a] che si vedeva nella sottoposta valle, io credo che chiuderai gli occhi per persuadere a te stesso di sognare, per non soffrire la pena di trovarti sbalzato da un ideale delizioso e poetico che rapisce, ad una verità che ripugna e addolora73

In questo suo itinerario pervaso di nostalgia, De Bonis contrappone ciò che definisce il «bello pittorico», di cui erano un esempio il Ghetto e la riva del Tevere a Trastevere al «bello moderno», fatto di palazzi indistinguibili tanto che non troveresti la «porta di casa se non ci fosse il numero civico» e di «una monotonia che ammazza»74. Indubbiamente, le zone caratteristiche del «bello pittorico» erano costellate di «fabbriche[…] non […] certo belle», e

«nondimeno, quell’insieme di irregolari e meschine casipole, di sostruzioni, di argini, di antichi ruderi, di cupole, di campanili, di torri, di tempj, ecc. producevano vedute così variate ed attraenti, davanti alle quali eri mosso ad esclamare “Oh che incanto!”75

In modo simile, circa vent’anni dopo il giornalista e scrittore Diego Angeli avrebbe ambientato una passeggiata romantica del suo libro Roma sentimentale nella zona attorno alla nuova Stazione di Trastevere, in un paesaggio fatto di «vigne devastate»:

«vi sono molte case ruinate e alcune di queste conservano nei loro ruderi le traccie di decorazioni settecentesche, cornucopie e ghirlande che si intrecciavano sui limitari delle porte d’onde tante esistenze umane erano uscite. In quel luogo abbiamo visto uno spettacolo di una tristezza infinita. Una piccola casa ancora intatta: il muro del giardino era stato abbattuto e le aiuole distrutte. Vi era nel mezzo una fontanella di pietra dove rimanevano morte traccie di antiche acque correnti. Una breve scalinata doppia conduceva alla porta chiusa e anche le finestre erano chiuse. E da un lato tre vecchi lecci ombreggiavano un sedile circolare di marmo, rispettato dagli uomini come se dovesse ancora aspettare gli amanti che non sarebbero tornati mai più76

Naturalmente, Ponti Pasolini, Gnoli, Tomassetti, De Bonis, Angeli e Lanciani non avevano tutti la stessa concezione di cosa costituisse un contesto storico, artistico e ambientale importante. Da archeologo, Lanciani vedeva nelle demolizioni anche una straordinaria opportunità per riportare alla luce testimonianze del passato più antico della città. Inoltre, egli disprezzava alcune architettura o pitture barocche o tardo-barocche. Ponti Pasolini era specialmente interessata a ville dal Cinquecento al Settecento, mentre Gnoli aveva una chiara preferenza per l’arte rinascimentale e sia De Bonis che Angeli sembrano essere stati affascinati più dalla combinazione di architettura e natura che dal valore di specifici edifici. In alcuni casi, le preoccupazioni si concentravano su elementi del paesaggio naturale come alberi (Ponti Pasolini e Lanciani) o rocce (Tomassetti). Tutti loro, comunque, svilupparono un interesse a documentare, attraverso la fotografia o i loro scritti, lo status quo precedente alle distruzioni post-unitarie.
Sarebbe dunque interessante indagare in modo più approfondito il ruolo che emozioni come la nostalgia, la curiosità e l’indignazione abbiano avuto nel graduale sviluppo, in diversi paesi europei, di una nuova sensibilità verso la conservazione del patrimonio storico, culturale e artistico. Ciò richiederebbe ulteriori ricerche su specifiche «comunità emotive» di amanti dell’arte tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nonché sulla relazione tra spazio e emozioni, due temi che gli storici devono in gran parte ancora esplorare77.

Note

  1. Si vedano per esempio: Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1962; Bruno Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti, Roma-Bari, Laterza, 1991.
  2. Si vedano per esempio: Fiorella Bartoccini, Roma nell’Ottocento, Bologna, Cappelli, 1985 e Vittorio Vidotto, Roma contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2001.
  3. Sono innumerevoli le pubblicazioni di carattere divulgativo su questo argomento, per esempio: Armando Ravaglioli, Roma sparita. I luoghi e gli ambienti scomparsi dall’avvento di Roma capitale, Roma, Newton Compton, 1994; Anna Fidani, Roma sparita. Storie dal vero. La «Roma» delle persone semplici e delle curiose avventure, Firenze, L’Autore, 2003; Claudio Rendina, 101 luoghi di Roma sparita che avresti voluto e dovuto vedere, Roma, Newton Compton, 2010; Livio Jannattoni, Roma sparita negli acquarelli di Ettore Roesler Franz. Un racconto affascinante di immagini e di parole, Roma, Newton Compton, 1982; Bruno Leoni, Roma sparita. La capitale com’era e com’è. 120 anni dopo gli acquerelli di Ettore Roesler Franz, Napoli, Intra Moenia, 2015; Ettore Roesler Franz, Carlo Bernoni, Renato Mammucari, Roma sparita nelle fotografie di Ettore Roesler Franz, Roma, Newton Compton, 2001; Carlo Bernoni, Renato Mammucari, Roma scomparsa nelle fotografie di Ettore Roesler Franz, Roma, Newton Compton, 2007. La pagina Facebook “Roma sparita” ha più di 250.000 followers, https://www.facebook.com/RomaSparita, consultato il 23 giugno 2023.
  4. Rodolfo Lanciani, Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, Cambridge, Houghton Mifflin, 1889 [ed. or. 1888], pp. IX-X. Su questo tema cfr. Domenico Palombi, Rodolfo Lanciani: l’archeologia a Roma tra Ottocento e Novecento, Roma, 2006. Le traduzioni dall’inglese e dal tedesco all’italiano sono dell’autore.
  5. Per l’identificazione degli Horti Lucernari con Villa Bolognetti, si veda: Carla Mazzarelli, Villa Bolognetti fuori Porta Pia: riscoprire un luogo attraverso i documenti, in Liliana Barroero, Bruno Toscano, Conservato e perduto a Roma. Per una storia delle ‘assenze’, Roma, Università degli Studi Roma Tre, 1998, p. 166.
  6. R. Lanciani, Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, cit., p. XXVI.
  7. Ibidem, p. XXV. In realtà, Lanciani esagera i caratteri della distruzione, visto che, se è vero che le ville Patrizi, Montalto, Bolognetti e Campana furono del tutto cancellate (e quasi del tutto la Ludovisi, di cui rimangono l’edificio principale, molto manomesso, e il Casino dell’Aurora), le ville Sciarra, Albani, Torlonia, Wolkonsky si salvarono in gran parte, mentre di villa Giustiniani rimane il casino e quello di villa Costaguti venne distrutto solo nel secondo dopoguerra. Villa Mirafiori, inoltre, era per l’epoca una villa moderna.
  8. Ibidem, p. XXIV.
  9. Ibidem, pp. XVIII-XIX. Lanciani non specifica a quali affreschi egli si riferisca. Brandi realizzò decorazioni, per esempio, nella Chiesa di San Silvestro in Capite, mentre Cozza in Sant’Andrea delle Fratte, si vedano le voci dei due artisti, rispettivamente di Antonella Pampalone e Ludovica Trezzani, in Dizionario biografico degli italiani, https://www.treccani.it/enciclopedia/giacinto-brandi_%28Dizionario-Biografico%29/ , https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-cozza_%28Dizionario-Biografico%29/
  10. Ibidem, p. XII.
  11. Rodolfo Lanciani, Sulla conservazione dei monumenti di Roma (conferenza nel corso dell’Adunanza solenne dell’Accademia dei Lincei onorata dalla presenza delle LL. MM., 9 maggio 1886), “Atti della Reale Accademia dei Lincei”, serie IV, vol. II, I semestre (1886).
  12. Ibidem, p. 362.
  13. Ibidem.
  14. Ibidem, p. 363. Lanciani si era ampiamente soffermato sul tema anche in R. Lanciani, Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, cit., pp. XI-XII.
  15. Sulla controversia si vedano: F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, cit., p. 803 e Anna Maria Voci, Deutscher Widerstand gegen die “Vernichtung Roms im Jahre 1886: Neue Quellen zu einem alten Thema, “Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft”, vol. 43, 2016, pp. 125-147. Su Gregorovius e le trasformazioni di Roma dopo il 1870: Cesare De Seta, Gregorovius und die Polemiken über den Wandel des römisches Stadtbildes nach 1870, in Arnold Esch, Jens Petersen (a cura di), Ferdinand Gregorovius und Italien. Eine kritische Würdigung, Tübingen, 1993 pp. 203-216. Per un quadro generale del dibattito pubblico, anche internazionale, sul rinnovamento urbanistico di Roma in quegli anni: Jens Petersen, Rom als Hauptstadt des geeinten Italien 1870-1914. Politische und urbanistiche Aspekte, “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, vol. 64 (1984) pp. 261-283.
  16. R. Lanciani, Sulla conservazione dei monumenti di Roma, cit., 367.
  17. Ibidem.
  18. Filippo Porena, Dell’attuale rinnovamento edilizio di Roma in relazione colle sue passate trasformazioni (conferenza tenuta alla Società Geografica Italiana il giorno 22 aprile 1889), Roma, Tipografia del Senato,1889, p. 3.
  19. Ibidem, p.19.
  20. Ibidem., p. 25.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem, p. 21.
  23. Ibidem, p. 27.
  24. Ibidem, p. 26. Anche Lanciani collega la Roma preunitaria alla morte: si veda il suo accenno polemico a chi vorrebbe Roma «ancora la città della morte» e l’Italia una «mera espressione geografica», R. Lanciani, Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, cit., p. IX.
  25. Ibidem.
  26. R. Lanciani, Sulla conservazione dei monumenti di Roma, cit., p. 363.
  27. Herman Grimm, La distruzione di Roma: narrazione, Firenze, Edizione nuovissima, 1886. Si veda anche: Herman Grimm, La distruzione di Roma: lettera / di Ermanno Grimm; tradotta da C. V. Giusti e preceduta da una lettera del traduttore, Torino: Ermanno Loescher; Roma: Loescher & C.; Firenze: Loescher & Seeber, 1886 (Firenze: coi tipi dei Successori Le Monnier).
  28. F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, cit., p. 614.
  29. Il vandalismo a Roma, “La Capitale”, 25-26 marzo 1886.
  30. Sulla storia di Corso Vittorio Emanuele II si veda: Alberto Maria Racheli, Corso Vittorio Emanuele II, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio Studi, 1985.
  31. Il vandalismo a Roma, “La Capitale”, 25-26 marzo 1886.
  32. Ibidem.
  33. F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, cit., p. 614.
  34. La distruzione di Roma, “Il Popolo Romano”, 25 marzo 1886.
  35. Ibidem. Sulla distruzione della Torre di Paolo III si veda Paola Picardi, Gli affreschi del palazzo di Paolo III al Campidoglio: un salvataggio anomalo, “Paragone. Arte”, Anno LV, Terza serie, n. 54 (649), marzo 2004.
  36. Sul ruolo della contaminazione nel discorso del, e sul, fascismo si veda Dario Pasquini, Ansia di purezza. Il fascismo e il nazismo nella stampa satirica italiana e tedesca (1943-1963), Roma, Viella, 2014.
  37. Tenderei a interpretare in questo modo il seguente passaggio di un trafiletto pubblicato da “La Voce della Verità”: «I lamenti dell’estero non sono che l’eco di quelli dei romani», Roma nuova, “La Voce della Verità”, 13 marzo 1886.
  38. La distruzione di Roma, “La Voce della Verità”, 12 marzo 1886.
  39. Ibidem.
  40. Ibidem.
  41. Roma nuova, “La Voce della Verità”, 13 marzo 1886.
  42. Ibidem.
  43. Ibidem. L’articolo risponde a un attacco de “Il Popolo Romano”, che aveva accusato consiglieri comunali cattolici come il senatore Francesco Nobili Vitelleschi e Giambattista De Rossi di aver votato per il Piano Regolatore e dunque di essere corresponsabili della “distruzione di Roma” che i giornali clericali imputavano ai liberali.
  44. Che cos’è Roma, “La Voce della Verità”, 13 marzo 1886.
  45. I “vandalismi” papali, “La Voce della Verità”, 18 marzo 1886.
  46. Ibidem. Il giornale verrà successivamente bersagliato da Il Popolo Romano per la sua vicinanza alla famiglia Boncompagni Ludovisi, proprietaria della villa appena distrutta, cfr. Editoriale senza titolo, “La Voce della Verità”, 29 marzo 1886.
  47. Dalla valutazione della Commissione responsabile nominata dal Consiglio Comunale, citato in A. M. Racheli, Corso Vittorio Emanuele II, cit., p. 29.
  48. Nicola Parise, “Giovanni Battista De Rossi”, in Dizionario biografico degli italiani, 1991, vol. 39.
  49. A. M. Racheli, Corso Vittorio Emanuele II, cit., p. 25.
  50. Ibidem, p. 24-25.
  51. Ibidem p. 25.
  52. V. Vidotto, Roma contemporanea, cit., p. 80.
  53. D. Palombi, Rodolfo Lanciani, cit., p. 111.
  54. Promemoria per l’Assessore dell’Ufficio V, Archivio Storico Capitolino (ASC), Ripartizioni, Ufficio V, Piano Regolatore, posizione 21, busta 230, fascicolo 25b.
  55. Ufficio V Piano Regolatore, Promemoria per Congresso di Giunta del 15 marzo 1893, ASC. Allegata al documento è una fotografia di Piazza del Quirinale con sopra disegnato uno schizzo del portale da ricostruire. Alcuni dei frammenti sono conservati all’aperto, nel Deposito comunale dell’Aventino. Ufficio V Piano Regolatore, Promemoria per Congresso di Giunta del 15 marzo 1893, ASC. Si veda anche la lettera del direttore dell’Ufficio V, Ing. Linotte all’ingegner Rossi (?), nella quale egli scrive «per togliere i graffiti [sic! In realtà si trattava di rilievi, n. d. a.] del portone di Villa Massimo occorre molto tempo e spesa, senza la sicurezza che venga bene. Sarà perciò miglior cosa che ella faccia un disegno di tali graffiti, da riprodursi poi nella nuova stabilitura quando il cancello medesimo sarà ricostruito», 24 gennaio 1889, ASC.
  56. E’ interessante che “La voce della verità”, invece, attribuisca al Governo e non al Municipio (dove non a caso i clericali si alternarono al potere con i liberali) le maggiori responsabilità delle distruzioni, cfr. La lettera del Sindaco al Morning Post, “La Voce della Verità”, 31 marzo 1886.
  57. V. Vidotto, Roma contemporanea, cit., pp. 117-118. Sugli argini si veda F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento, cit., pp. 773-774.
  58. Ibidem, p 72.
  59. Su questo tema si rimanda ai saggi: Dario Pasquini, Maria Ponti Pasolini’s Photographic Archive and Architectural Conservation in Rome, “The Burlington Magazine”, n. 163 (2021), pp. 1130-1139 e Id., La fotografia di documentazione architettonica a Roma: il ruolo di Maria Ponti Pasolini e l’Associazione artistica fra i cultori di architettura, “Archivio Storico Italiano”, in corso di pubblicazione.
  60. Cit. in Alessandro Cremona, Dalla Villa Strozzi alla Villa Mérode: una dimora per l’archeologia. Storia della prima sede dell’École française de Rome, in Michel Gras, Olivier Poncet (a cura di), Construire l’institution. L’École française de Rome, 1873-1895, Roma, 2013, p. 18.
  61. Federico Del Prete, Il fondo fotografico del Piano Regolatore di Roma 1883, Roma, 2016, p. 43, n. 17.
  62. Cit. in Ibidem, pp. 21-22.
  63. F. Del Prete, Il fondo fotografico del Piano Regolatore di Roma 1883, cit, p. 26.
  64. Domenico Gnoli, Largo al Piccone!, autografo dell’autore su carta, Cagli, Archivio Gnoli (=AGC), Fondo Domenico Gnoli, busta 14, fasc. 4. La versione precedente del titolo, poi cancellata da Gnoli, era: Un vento di piccone. Ringrazio Erminia Michelini Tocci Gnoli e Raniero Gnoli per la generosità con la quale mi hanno messo a disposizione il loro archivio familiare.
  65. Si veda, per esempio, il riferimento alla distruzione nel 1894 dello sperone di roccia chiamato i “Sassi di San Giuliano”, vicino al Tevere, «per barbara speculazione», Giuseppe Tomassetti, Francesco Tomassetti, (riedizione a cura di Luisa Chiumenti e Ferdinando Bilancia), La campagna Romana, vol. 3, 1975, p. 297.
  66. G. Tomassetti, F. Tomassetti, La campagna Romana, vol. 3, cit., p. 280.
  67. Lettera di Giuseppe Angelo Colini al sindaco di Roma, 15 febbraio 1911, Archivio Storico Capitolino (=ASC), Ripartizioni, Ufficio V, Piano Regolatore, posizione 63, busta 601, fasc. 11. La fotografia qui presentata era stata pubblicata nella citata riedizione degli anni Settanta dell’opera di Tomassetti, Ibidem, p. 283.
  68. Ringrazio Giulia Derme, del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, per aver risposto, nel gennaio 2020, alla mia richiesta di informazioni, rendendomi noto che i frammenti che cercavo si trovano nel giardino del Museo.
  69. Su Parker si veda: Lucia Cavazzi, Anita Margiotta e Simonetta Tozzi, Un inglese a Roma, 1864-1877. La raccolta Parker nell’Archivio fotografico comunale, Roma, Artemide, 1989.
  70. Francesco Adriano De Bonis, I vandali a Roma, Roma, 1879.
  71. Ibidem., pp. 4-5.
  72. Ibidem.
  73. Ibidem.
  74. Ibidem.
  75. Ibidem.
  76. Diego Angeli, Roma sentimentale, Roma, Enrico Voghera, 1900, pp. 49-51. Su quest’opera si veda: Andrea Cortellessa, Come comincia la storia (in Italia): Roma sentimentale di Diego Angeli, 1900, “Versants”, 68, 2, fascicolo italiano 2021, pp. 29-44.
  77. Sul tema della relazione fra spazio ed emozioni: Margrit Pernau, Space and Emotion: Building to Feel, in “History Compass”, 12/7, 2014, 541–549; Mark Seymour, Emotional Arenas. Life, Love, and Death in 1870s Italy, Oxford, 2020; Elisa Novi Chavarria, Philippe Martin, Emozioni e luoghi urbani. Dall’antichità a oggi, Roma, Viella, 2021; Joseph Ben Prestel, Emotional Cities. Debates on Urban Change in Berlin and Cairo. 1860-1910, Oxford, Oxford University Press, 2017. Sulle emozioni concernenti le arti visive si veda il pioneristico studio David Freedberg, The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response, Chicago, The University of Chicago Press, 1989, e, più recentemente, Thy Phu, Erina Duganne, Andrea Noble, Feeling in Photography, the Affective Turn, and the History of Emotions, in Mark Durden, Jane Tormey, (a cura di), The Routledge Companion to Photography Theory, Londra, Routledge, 2019; Sarah Hand Meacham, Visual Sources, in Katie Barclay, Sharon Crozier-De Rosa, Peter N. Stearns (a cura di), Sources for the History of Emotions. A Guide, Londra, Routledge, 2020.

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