Bibliomanie

Postumano è vegan. La filosofia animale di Leonardo Caffo
di , numero 57, giugno 2024, Note e Riflessioni, DOI

Postumano è vegan. La filosofia animale di Leonardo Caffo
Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Postumano è vegan. La filosofia animale di Leonardo Caffo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 18, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11458

«La filosofia animale contro l’istituzione della morte», leggiamo in un punto del Maiale non fa la rivoluzione di Leonardo Caffo (Sonda 2013). La filosofia dell’animalità aggredisce l’istituzionalizzazione del genocidio animale nelle pareti della morgue. Per suo tramite Homo sapiens si ridesterà dalla propria assuefazione allo sconfinato cadavere reso dall’esecuzione industriale, dall’abitudine alla cosificazione della differenza, all’inosservanza della diversità di specie, alla perdita di biodiversità. E una filosofia che non discrimina le specie, e che fuori dei dogmi pratica un pacifico smantellamento dei presupposti dell’antropocentrismo, ha i requisiti per contrastare la deriva di Homo sapiens in quanto filosofia altamente implicata con la questione ecologica e con la salute globale. Ma qui emerge l’errore da evitare. Perché una battaglia animalista non esclusivamente finalizzata alla liberazione animale e all’ammissione della sua dignità di soggetto di diritto con vita emotiva e cognitiva proprie non sarebbe disinteressata, e farebbe ricorso a un orientamento di pensiero ancora ispirato al modello di valori di Homo sapiens, del possibile liberatore e non a colui che va liberato, confondendo, Caffo osserva, «origini comuni del problema con soluzioni comuni». E tuttavia, è inevitabile, se la battaglia andrà affrontata solo per la liberazione dell’animale non umano, a trarne vantaggio sarà di riflesso il destino di Homo sapiens. È chiaro il riferimento al danno ambientale e alla sua problematica riparazione quali conseguenze della supremazia di Homo sapiens sulla natura e sugli enti non umani, ostaggi dell’istinto, al massimo ritenuti strumentali alle sue occorrenze.
Ma chi è Homo sapiens? La casuale convergenza degli elementi e delle variabili che hanno promosso la sua speciazione non si ripresenterà, eppure egli è l’animale pensante e sapiente che ha fondato sistemi di mondo ancora vincolanti, benché ora lo si disegni come ente al declino, anzi, a un passo dalla sparizione. Incarnazione delle proporzioni vitruviane, da una parte, Homo sapiens presume di avere valore in sé a differenza dell’animale non umano il cui valore, per convenzione, è dall’umano stabilito. Amalgama imperfetto di animalità e di divinità, spesso persuaso di essere dotato di un’anima incorruttibile che lo abilita all’accesso all’ultraterreno vincendo la morte (o nel delirio transumanista procrastinandola attraverso un ampliamento del potenziale tecnico teso a una bioestensione temporale in agone con ogni teodicea naturalistica), è d’altro lato incurante del rischio di una prossima estinzione di cui egli stesso sarebbe l’agente, disseminando la morte nella disinvolta ellissi del dissimile in nome di una intrinseca superiorità che gli viene dall’alto. Nel seguire il suo climax discensivo andiamo con ordine, cioè saggisticamente per non incorrere in deduzioni unilaterali, ipotizzando, tentando, in particolare prefigurando con criterio gradualista, come lo stesso Caffo suggerisce, ma non prima di aver fatto un piccolo passo indietro verso una delle prime opere di Caffo, a metà strada tra il racconto filosofico e l’esperimento mentale, che impugnava la legittimità del controllo irresponsabile di Homo sapiens sul resto del vivente: Finalmente è la fine del mondo (Zona 2011. Ne parlo con l’autore qui: https://www.bibliomanie.it/?p=3135).
«Finalmente» sarà poi la penultima parola che Caffo scrive prima di chiudere Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi 2017). Forse dopo averla ponderata, Caffo le dà risalto ponendola tra due virgole. Ma quanto il finalmente-2017 trattiene del lontano finalmente-2011? Qui, in una riflessione già presaga, volta a rimuovere quella «tautologia abissale che vede l’uomo degno perché uomo», esordiva un tertium quid, una terza via ancora indefinita, alternativa alle istanze degli ultimi uomini Nebe e Alme, emblemi di bene-male, di anima-inconscio, del dualismo filosofico come scomposizione artificiosa che inibisce la comprensione dell’intero. Istanze astratte e sclerotizzate dell’ultimo mondo nuovo, non più ricevibili acriticamente. La svolta è interpretata dal Signor Rove, anagramma di «vero», la filosofia. Figura transpecifica, incrocio di tratti umani ed animali, il Signor Rove denunciava la fragilità di Homo sapiens, ritratto nella sua fase declinante per aver sospeso i diritti dell’alterità. Tra le etimologie del greco anthropos c’è quella che ricordava Massimo Cacciari: «avere lo sguardo rivolto in alto». Con ciò, l’umano ha fatto un uso morboso del suo sapere di vivere, del suo riflettere su ciò che vede. Ora, Rove, il vero, non può misconoscere gli errori e gli orrori di un antropocentrismo trasumanante (dal vocabolario dantesco, senza «n») e smaccato, forma di umanesimo estremo, quindi l’idea di umanità dovrà passare attraverso una severa decostruzione che tuttavia non si arresti alla fase negativa e che restituisca la dovuta centralità a voci e sguardi relegati ai margini dell’esistente.
Lo scenario nel quale si consuma la fine dell’umanesimo classico è apocalittico, il canone narrativo consente al discorso di espandersi con maggiore libertà rispetto al canone filosofico. Se nel nome «apocalisse» al significato originario di «svelamento», di toglimento del velo, si è affiancato quello di «catastrofe», il nodo di senso di tale fusione rende il valore sovrano di una rivelazione, tutta umana, che si coglie nell’ambito di una fine, nel rivolgimento e nell’interruzione della linearità per un riassestamento in un altro ordine, non necessariamente disastroso. Sincronia e stridenza di due condizioni sono elementi che muovono a dare un senso al punto di svolta: il discorso di Caffo non può che essere orientato ad un futuro in cui Homo sapiens sarà un pleonasmo, come lo era la componente divina nell’episteme positivista.
Finalmente è la fine del mondo si chiude con l’immagine di una finestra assente «che affaccia le sue speranze su un mondo che c’era, ma che ora non c’è più», sul tempo sommerso della finis historiae: parvenza del dissolversi delle vie di fuga qualora non ci si ponga nella prospettiva del cambiamento. L’alternativa al pregiudizio specista, fin da ora, è la filosofia – vedremo più avanti quale filosofia. E in Vegan. Un manifesto filosofico (Einaudi 2018) sarà ancora «l’alternativa filosofia» a testimoniare un «varco nella norma», la finestra appunto, emblema dell’uscita da quella sorta di dogma per cui una qualità morale dipende da una qualità biologica.
Alla forma avverbiale «finalmente» non è ancora ascrivibile il senso di appagamento per un esito favorevole lungamente perseguito per il compiersi di un evento, benché nel racconto del 2011 la fine del mondo sia assurta ad occasione per pensare il cambiamento. Nella prospettiva in fieri della postumanità, «finalmente» non può vantare un’identità di campo semantico con «compiutamente» o «pienamente», né può avere valore conclusivo come a dire «alla fine» o «infine», ma sarà un avere di mira, intenzionalmente, un altro status da acquisire nel tempo. Postumano è un figurarsi, un fingersi, un immaginare un diverso assetto di rapporti comunitari di là da venire. E questa fiducia che ogni possibile possa realizzarsi nel tempo ci scorta lungo le pagine di Fragile umanità, per tornare in Vegan e in altri lavori di Caffo. Non si tratta di un riecheggiamento: ciò sta piuttosto ad indicare la coerenza ideologica di questo autore. Coerenza e continuità di intenti, del resto, manifestate nei titoli che precedono il giovanile racconto di dissoluzione, così come nei lavori (e sono ormai parecchi) che lo dividono da Fragile umanità e dagli approfondimenti successivi.
Finalmente, comunque, nella postura postumana, dov’è decisamente smorzata la forza umana del dimenticare. Ma come si giunge a Postumano contemporaneo, che con tutta evidenza non è solo una temperie, né un modello epistemico? E neppure un prodotto teleologico, ma un da farsi, un processo risultante dalla presa d’atto di un fallimento? E che vede nella questione animale il suo fondamento etico, la genesi e l’indifferibilità di una mobilitazione morale? L’analisi di Caffo non ha una struttura interrogativa, è stringente e trascende quella che forse troppo genericamente viene definita «condizione postumana». A Postumano contemporaneo, infatti, si giunge attraverso un lungo e impegnativo percorso concettuale in vista di alcune trasformazioni dallo status che Homo sapiens, suo antecedente genealogico, presume di incarnare. Ed è essenziale che la decostruzione del valore intrinseco degli assunti di base dell’antropocentrismo (specismo, geocentrismo, creazionismo) e la nuova costruzione che prescinderà dall’accentramento dell’umano avvengano in contemporaneità, attraverso un’azione duplice e una, radicale e simultanea.
La prima trasformazione si svolge lungo l’asse etico e smonta il pregiudizio specista che ha la pretesa di riservare unicamente all’umano (occidentale, bianco, maschio, etero) una garanzia morale – la filosofia è anzitutto antispecismo, ed implica la dissoluzione dei modelli e della determinazione gerarchica degli enti. Lo specismo inizia come fatto linguistico. La parola «animale», dice Caffo, ha una singolare estensione semantica, ma finiamo per usarla «come non luogo (tesi per esempio sostenuta da Jacques Derrida nel suo saggio postumo L’animale che dunque sono): di fatto, quando parliamo di animali, stiamo neutralizzando la vita che non ci sembra umana». Lo specismo è «una dimenticanza», «un nascondimento». Con esso la ricerca di Lévinas del volto dell’altro come traccia dell’infinito, quell’impegno che l’epifania dell’altro pretende, si arrestano al corpo umano. In questi termini, lo specismo ha dato luogo a una umanità irriducibile a ciò che è fuori della sua configurazione perimetrale, nella quale si sperimenta una solitudine di massa. Per contro, l’antispecismo, che predica la non esercibilità del diritto morale in base a valutazioni preconcette, scardina l’illazione antropocentrica e accorda alle specie la medesima reputazione, nel senso che se un argomento è legittimo o illegittimo per l’animale umano altrettanto lo è per gli animali non umani.
Antispecismo è l’episteme postumanista. Visione inclusiva dell’alterità molteplice, antispecismo è vedere ciò che è dislocato dal recinto, vale a dire dal luogo del radicamento dei principi etici autoreferenziali ed autoriferiti che Homo sapiens professa nell’illusione dell’adombramento del volto dell’altro. Se il nome «animale» è una dimenticanza, nel senso, Caffo dice, che ci siamo dimenticati di non essere soli, il gesto immaginativo della situabilità oltre il recinto costituisce l’accesso alla figurazione della dimora condivisa nel decentramento dell’umano, cioè nello stacco dall’ipotesi gerarchica di essere qualitativamente superiori. Oltre il recinto non ci sono soltanto cose sotto altra luce, ci sono anche altre cose. In questo spazio postumano si delinea l’idea di una umanità che potrà decollare solo nella prospettiva sintonica di umano e non umano. Postumano contemporaneo è in continuità con ontiche eterospecifiche.
Immaginare l’esterno del recinto, figurarselo, anticiparlo per comprenderlo, non soltanto per concepire una diversa categoria di mondo, ma anche per superare le svianti posizioni di un’inquietante e disumanizzata, anche quando non tecnofobica, posthumanity. O indifferente al cosiddetto «dislivello prometeico», lo scarto tra l’umano e i suoi prodotti e la loro velocità di trasformazione, tra il nostro sentire e i nostri artefatti e l’impenetrabilità degli effetti di questi artefatti. Qual è l’ambiente fisico-biologico di Postumano contemporaneo, lo sfondo della sua processualità? Gli spazi non ancora intossicati lasciati vuoti da Homo sapiens nello squallore di una urbanizzazione indiscriminata, ad esempio. L’habitat della nuova specie non somiglierà alla coacervazione dell’urbanizzazione capitalista, dove è tangibile l’alienazione dalla bellezza e dalla morale, ed è anche difficile figurarselo come traduzione in atto delle visionarie utopie implicate in certa architettura radicale. Viceversa, avrà una struttura topologica tale da non saturare gli spazi urbani per così incentivare altre prassi esistenziali. Per figurarci l’habitat postumano è utile ricorrere alle immagini elaborate nei prodotti estetici e nell’architettura, spesso più esplicative di astratte trame filosofiche. La filosofia, se vera «alternativa filosofia», non è una disciplina argomentativa e tanto meno sede di apodissi. Mutua il suo metodo dall’architettura, quindi sarà una riflessione sulla forma da dare alle cose. In merito, nella seconda parte di Fragile umanità (e in altri luoghi della sua ricerca) Caffo sviluppa una «teoria dell’anticipazione con arte e architettura». La loro azione congiunta rende una rappresentazione simbolica che evoca l’immagine fattuale delle forme confezionate dalla teoria, qualora questa comporti uno stravolgimento nei mutamenti e nella maniera di concepirsi da parte dei soggetti chiamati in causa. La filosofia è anticipazionismo – ci torneremo.
La seconda trasformazione prevede un riscatto senza residui dal sistema geocentrico e dalle sue propaggini che tutto hanno ricondotto alla misura dell’umano. Dopo l’etica, sottratta alla sua tradizionale prescrittività, è la volta della metafisica giacché è l’animale umano a pianificare la conoscenza, e questa circostanza vede il suo culmine nel trascendentalismo kantiano e nel suo decorso nel tempo. Al geocentrismo, infatti, non si sottrae la rivoluzione copernicana di Kant: se il mondo è una costruzione dei nostri schemi mentali, sono questi a determinare la maniera in cui un oggetto è percepito e non piuttosto il soggetto conoscente a conformare i propri schemi concettuali alle cose. Se pure ormai screditato il modello astronomico della centralità del nostro mondo nell’universo, la ragione è ancora impigliata nel sistema metafisico dello schematismo di Kant. E Caffo riporta il punctum dolens del «geocentrismo filosofico», che figura nella Prefazione del 1787 alla prima Critica kantiana: «la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno […] essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei». Siamo ancora bloccati nel centro del cerchio: il mondo dipende dalla nostra mente, costruito, e inevitabilmente falsato, dal soggetto della conoscenza. Considerare le cose per come dovrebbero essere per essere conosciute da noi comporterebbe una riduzione dell’oggettivo al soggetto conoscente e legislatore. E ciò che è il mondo per l’animale umano è il mondo per tutti.
L’inversione di paradigmi già istituita dal copernicanesimo aveva decentrato il genere umano, il cui universo è stato lungamente il luogo privilegiato di osservazione. Quale aspetto può avere il mondo fuori del nostro centro destituito di unicità e di universalità? Nello spazio dilatato della periferia ha termine il nostro impero sulle cose e si consuma quel processo di marginalizzazione per il quale siamo come gli altri esseri viventi, senza più rivestire ruoli elitari. Lontana dall’intenzione di istituire un altro centro in questa zona esterna, l’osservazione periferica di Postumano contemporaneo ha più campo, e rispetto alla congesta solitudine metropolitana lo spazio è euritmico se pure pieno di presenze, di interazioni intraspecifiche e tra disparità biologiche e tra organismi viventi in crescente simbiosi. Ma l’esperienza della marginalità non è esonerativa da responsabilità, come dalla sterminata latitudine di Homo sapiens, che si reputava un soggetto egemone esclusivo, e pertanto ignaro di questa differenza periferica. Homo sapiens non è l’essere, come, tra gli altri, voleva Heidegger.
È soprattutto in discussione l’idea di uomo sorta con il creazionismo, che tanto ha inciso sul nostro presumerci essenziali e sulle nostre regole di condotta. Homo sapiens ha ricevuto l’avallo di Dio, quindi siamo ancora all’interno di una prospettiva verticale. Acme della creazione, l’animale umano è emblematizzato dal leonardesco Uomo vitruviano, dove il corpo umano, misura delle cose, è simbolo supremo della perfezione e del volere divini. Mentre – divago brevemente – sembrerebbe un controsenso l’immagine del robot vitruvian man, ad esempio quella che domina la sovraccoperta di Robot Wrist Actuators di Mark E. Rhoseim, del 1989 (qui forse si esalta la tecnica come portato dell’ingegno umano, benché il senso sottostante alla perfezione dell’automa potrebbe al contrario indicare l’umana superfluità). Se assunta in generale, la figura ha infatti facoltà di alludere alla dissoluzione dell’impianto epistemico del modello vitruviano, che si sfrangia in vista di altre applicazioni, nella fattispecie, nella contaminazione dell’umano con l’artefatto tecnologico. Antropocentrismo e intelligenza artificiale (robotica in questo caso) sono reciprocamente irriducibili, visto che il ricorso a strutture artificiali suppone una dipendenza ab origine da parte dell’animale uomo (tutt’altro dall’autarchia che caratterizzerebbe l’umanismo), tanto che dire «stato di natura» è una contraddizione in termini. Ma la figura dell’uomo robotico potrebbe anche insinuare l’idea di una tecnica come fattore di distorsione dell’umana natura (ma suonerebbe strano da parte dell’autore di un libro tecnico-pratico dedicato ai polsi robot), e questo è un tratto ridondante nelle riflessioni degli ultimi decenni sui nuovi media, così come nelle declinazioni della condizione postumana in cui la vita è tributaria della tecnica. Non nell’accezione di Caffo, tuttavia.
Dai termini dell’antropocentrismo verticale interpretato dall’Uomo vitruviano, da questa deificazione dell’essere umano che si distingue nella sfera dell’essere, si distraggono le teorie di Darwin, che in The Descent of Man sviluppa l’argomento che era rimasto implicito nell’Origine delle specie, se pure vero bersaglio delle polemiche antievoluzionistiche: l’origine dell’uomo e il nesso con l’animale non umano. In un ribaltamento di livelli: dalla creazione all’evoluzione (difficile a spegnersi, il paradigma creazionista, fino all’elaborazione assurda di un evoluzionismo creazionistico che vede l’evoluzione come realizzazione di un piano predeterminato), e siamo alla terza trasformazione, quella scientifica, dove il mondo trascende noi. È la catastasi di Homo sapiens. Dal basso (descent) verso l’alto, le specie emergono dal caos, vivono la loro vita mortale, nel pianeta sono solo di passaggio. In questa visione di una vita emersa dal tempo profondo e sospinta dal basso c’è sia la desacralizzazione dell’uomo vitruviano sia il declassamento dell’umano in quanto immesso nella pluralità degli enti e costituito della loro medesima sostanza. Sciolto il mistero sommo della vita umana, il più arcano dei misteri, Homo sapiens perde quel coefficiente auratico e di sacralità che lo aveva circonfuso nella sua ascesa irresistibile. Giacché con la dottrina evoluzionistica l’animale uomo non è, come presunto finora per una forma di antropolatria, la meraviglia del creato che risalta su uno sfondo per lui ornamentale o a lui funzionale, in una parola, non è dotato di un’anima immortale. Viceversa, è qualcosa di altamente decostruito, decentrato, uno sradicato alla ricerca di altri ambienti, una forma aperta e in corso di stabilizzazione. Risultanza di un processo emergente, di uno sviluppo biologico non lineare ma casuale che ha avuto luogo indipendentemente da un disegno o da un fine – e nonostante tutto, per Darwin, questa casualità, che per Caffo è più propriamente un’«assenza di vertice», costituiva «l’argomento principe a favore dell’esistenza di Dio». Ospite, e non dominatore, in una natura non padroneggiabile, che nulla di lui conosce, e che di lui non ha alcuna necessità. Anche di qui la crisi del soggetto, dell’io supremo dell’arte, e la sua narrazione drammatica per fragmenta animae, l’atomizzazione, la disgregazione interiore e del flusso della vita a partire dalla fine del ventesimo secolo, tra Nietzsche e il decadentismo. E l’angoscia sartriana per la libertà come «fondamento senza fondamenti» dei valori in assenza di garanzie esterne, per la condanna alla libertà di scelta, alla responsabilità che ricade sull’essere al mondo nell’indisciplina, senza custodia né direzione, senza direttive provvidenziali o valori assoluti. Incipit qui postumano.
La narrazione di Homo sapiens è una antropodicea che, oltre i presupposti dell’umanesimo ateo, contiene in sé la propria giustificazione profonda, tuttavia non risolta: il nascondimento, quel discriminatorio, inveterato, non vedere la specificità e i diritti degli altri esseri, insieme alla sua presunta discendenza divina, giustificazione che in questo contesto compromette il significato di «giusto». Mentre la narrazione negativa dell’antispecismo ci dice che ciò che urta con la sofferenza animale non si può fare. In termini generali, quella tra giusto e giustificato, diceva tra le altre cose Caffo nel Bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda 2015), è una delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita socializzata nella quale il giustificato spesso concorre a pregiudicare l’accezione di «giusto», legittimata da una diffusa, e ingiustificata, supposizione di liceità. Azioni palesemente non giuste sono accreditate da una accondiscendenza generalizzata, ad esempio.
L’antropodicea di Postumano contemporaneo esalta piuttosto la disponibilità verso una prassi di possibili emancipazioni. Sorge dall’insufficienza dell’etica di un umanesimo androcentrico e antropolatrico, e dall’azione sincrona dei presupposti preventivamente decostruiti nelle tre trasformazioni in previsione di ulteriori passaggi da attraversare. Postumano è contemporaneo perché presente qui, ora, perché, se condivide una continuità spaziotemporale con Homo sapiens, di fatto è un modo già evoluto di reagire alla resistenza del mondo. Homo sapiens e Postumano contemporaneo si spartiscono una soglia dove il presente è fortemente impregnato di futuro. Una zona liminare, come uno stato di crisalide, o l’ora crepuscolare, lo stadio incompiuto di una formazione e non un confine netto, in cui si consuma il trapasso tra un adesso e un non ancora, il futuro del non essere più: destinato all’estinzione, l’uno, estinzione che è evoluzione in altro. Dalle ombre mute dell’habitus mentis di Homo sapiens alla facies etica e saggistica di Postumano contemporaneo.
«Post-» non è «trans-». Le due funzioni prepositive rispetto all’elemento autonomo «umano» indicano, rispettivamente, un dopo (come conseguenza o effetto di un evento), e un oltre (solitamente il superamento di un limite), il passaggio oltre o attraverso un termine. Più che uno stato tensionale o un obiettivo da perseguire, allora, Postumano contemporaneo è il percorso attuale di una speciazione naturale che implica, sul terreno sgombro e impregiudicato in seguito alle trasformazioni preliminari, il distanziamento da alcuni stereotipi. Al di là di una posteriorità temporale, per altro diversamente connotata, Postumano contemporaneo non ha punti in comune con il transumanismo, ovvero con un nuovo innalzamento dell’umano allo status divino. Tendere a un illimite, ad un più in là, a una «oltranza-oltraggio» (direbbe per altri versi Andrea Zanzotto) comporta l’oscuramento della ragione, un trascenderne i limiti (già in Dante «oltraggio» è ciò che, appunto, va oltre la possibilità di comprensione umana). Nella tensione transumana al potenziamento, all’inflazionato enhancement delle qualità dell’animale uomo per un’esistenza liberata dal dolore e verso un immortalismo, del resto, terreno (mentre sotto certi aspetti ad essere immortale è il meccanismo, che al massimo si blocca ma non muore), l’umano tradisce una richiesta di autostima unita a una dilatazione delle proprie incertezze dovute alla difficoltà di accettarsi per quello che è, cioè l’essere caduco e finalizzato al dissolvimento cui sopperirebbero la scienza e una intensificazione dei supporti tecnologici non solo a scopo terapeutico. In ragione di ciò, il transumanismo rende l’immagine di una umanità non ancora postantropocentrica, anzi, iperumanista, tecnofilica e tecnocentrica, e di una sorta di oltreuomo protensivo, ottimizzato benché sconnesso, e ipertecnologizzato contro l’impermanenza corporale. Teso, nel suo immortalarsi, a polarizzare e a gestire la propria evoluzione. Sono declinazioni di una velleitas insensibile al cosiddetto «dopo di noi» – che al contrario è istanza primaria di Postumano contemporaneo –, perché il sogno del prolungamento dell’esistenza terrena innegabilmente intrattiene una relazione con il modello della personalità narcisistica caratteristico di una cultura in significativo declino che respinge o sopprime l’alterità, e quindi, paradossalmente, giacché sorge come un andare oltre, il futuro. Ciò in quanto l’esclusivo senso di sé (d’Annunzio, tra egocentrismo e megalomania: «debbo vivere un’ora sola del mio giorno ‘per gli altri’? […] ‘No’»; «e ti descriverò le mie ore pensose, le mie letture, le mie ricerche di colore, le mie trasfigurazioni mentali, le mie invenzioni transumane», dal carteggio con il figlio Veniero, il che è una aggravante), l’assenza della dimensione empatica e il distacco dal mondo come ovvia conseguenza disorientano qualsiasi interesse verso le generazioni a venire.
Postumano contemporaneo non è affetto da narcisismo tecnologico. Non transumanista né trasumanante, discende da Homo sapiens, la cui evoluzione non inerisce i tratti somatici, all’apparenza non distinguibili come diversi (non c’è una somatica postumana, come nell’idea del corpo ibridato), ma la maniera di stare nell’ambiente. E ci si potrebbe chiedere, come Caffo fa in Velocità di fuga, se gli abitanti di Downtown Dubai e gli Yanomami della foresta amazzonica appartengono alla stessa specie, visto che il modello Amazzonia è ancora compatibile con un lungo lasso di vita di Homo sapiens sulla Terra. Così Caffo, in uno dei punti centrali della sua teoria filosofica del postumanesimo – volta inoltre a diradare l’ampia e farraginosa semantica di «postumano». La teoria «serve a catturare il principio evolutivo di questa specie a cui alcuni di noi potrebbero appartenere: diversi nelle usanze alimentari, nelle relazioni con l’ambiente (ecologisti), e in infiniti altri aspetti, alcuni umani hanno già abbandonato la loro specie di appartenenza verso una nuova casa per il loro essere. Questa speciazione, in accordo con Ernst Mayr, non essendo avvenuta per deriva genetica è quantomeno in atto per selezione naturale: gli individui che sono stati in grado di adattarsi a un nuovo habitat, il pianeta nell’epoca della fine delle risorse, sopravvivranno a coloro che li hanno preceduti». È la concretizzazione che sussegue all’esercizio performativo anticipato («Anticipazione» è la quinta delle Sei parole per il contemporaneo, sottotitolo di Velocità di fuga, Einaudi 2022).
E sta qui il senso della designazione di «postumano». Che, come Caffo dice, consiste in una «speciazione in atto». L’etica di Postumano contemporaneo non è disembodied, è orientata al corpo, al corpo naturale. Non postula una liberazione dalla corporeità e dall’idea della caducità fisica e corporale attraverso una ibridazione tra uomo e macchina per una specie di alter ego artificiale. Non sfugge la coimplicazione, oltre il piano isonimico, di «ibrido» e hybris nel discorso sulla trasgressione del limite o della norma, per cui nel suo tecno-ottimismo il transumano, che nel trasvalutare i paradigmi naturali vuole incidere attivamente sull’evoluzione (nello specifico, l’ingegnerizzazione dell’intelligenza artificiale dovrebbe surclassare la selezione naturale), si riallaccia all’umanesimo classico e alla sua tracotanza nei confronti della natura, e a una hybris tecnica finalizzata al divenire cyborg, al postbiologico, all’elevazione dell’umano oltre l’umano (mentre per il darwinismo la morte era condizione necessaria della progressione della vita nel progresso della natura). Nella visione di Caffo il corpo è la linea di confine con la quale devono misurarsi le azioni morali: ogni atto va compiuto nell’osservanza dei diritti dell’altro, perché postumano non è il singolo individuo, è un segmento di un unico organismo. «Siamo organi di un unico corpo», scriveva Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio. È ciò che in La vita di ogni giorno. Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo (Einaudi 2016) Caffo ha definito «etica dello stormo»: e «stormo» non è un nome singolativo. Contravvenendo al principio dell’alterità dei corpi, ovvero alle ragioni dello stormo, Homo sapiens ha promosso – con parole di Roberto Calasso – l’«innominabile attuale». Contro questa rilevanza del corpo, e nell’assunzione in sé della molteplicità e delle differenze che scalzano l’individualismo e il monoteismo dell’io, si infrange la nozione umanistica, e monolitica, di identità. Da un lato, perché nell’ottica umanistica non è possibile assimilare la diversità al fenomeno umano; inoltre, per la circostanza che il corpo è immesso in un contesto diveniente: «dalla periferia, il nostro ruolo è in mutazione continua».
Dal profilo filosofico, con Caffo la teoria del postumano si allinea al realismo speculativo, nel comune intento di mettere in crisi le residue latenze dell’antropocentrismo. Le trasformazioni di cui sopra segnano una riabilitazione dagli errori storici attraverso uno sguardo realistico che reagisce al correlazionismo postkantiano che pone l’ente umano come il solo all’altezza di accedere adeguatamente all’essere attraverso il pensiero. Il trasferimento dal centro è una questione metafisica ed equivale a negare che si possa conoscere esclusivamente la connessione tra pensiero ed essere, senza tenere i due termini distinti e a prescindere dal modo del soggetto di correlare. Sciolto il nodo del correlazionismo, per cui il mondo è parte dell’umano, l’antropocentrismo traballa, se consideriamo la reciproca dipendenza tra umano e mondo, tra essere e pensare mai disgiunti. E di conseguenza l’inconoscibilità di quanto esula dalla correlazione tra pensiero ed essere, quindi l’inconoscibilità dell’ente in quanto ente. Ma il punto più problematico del correlazionismo è l’attribuire esistenza unicamente a ciò che è percepito come esistente, mentre se l’uscita dal recinto è un gesto dalla portata metafisica lo dobbiamo all’esistenza, autonoma e sufficiente a sé, e alla relativa resistenza (perché nell’ottica nuovorealista l’esistente ha facoltà di resistere, di confermare o di smentire la fondatezza delle interpretazioni, di dare o di togliere senso ai nostri discorsi) della realtà intorno a noi. C’è un mondo esterno del quale conosciamo l’influenzarsi reciproco tra soggetto e oggetto, e l’ambiente è la cornice di questa interazione. La realtà resta una, ma viene osservata da piani differenti, di qui l’inscindibilità di realismo ed ermeneutica. E di qui l’indebolimento dello speculativo puro per una contaminazione con l’antropologia culturale.
Dal canto loro, filosofia, architettura e arte cooperano per una prolessi o anteprima dello scenario postumano, per profilare una potenzialità in certa misura già messa alla prova, ad esempio con l’essere vegan. Se architettura e arte dotano la filosofia di un corredo di esempi reali, non sussiste il rischio di una critica della filosofia come rigidità astratta senza più alcuna forza etica. Visto che per Caffo la filosofia è, sì, strumento di emancipazione, ma oltre il testo, nella traduzione in atto di ciò che è maturato nella riflessione. Nella fattispecie, è una teoria sul complesso legame tra un umanismo destituito del suo prestigioso statuto epistemico e la specificità della condizione postumana, il peculiare modo postumano di situarsi all’interno dell’essere. Filosofia è un dire per fare. Questo stesso passaggio di specie suppone una competenza filosofica che non si arresti a una sfera biologica e che non sia strettamente teoretica.
Così come enunciato fin qui, Postumano contemporaneo fa vacillare anche le basi dell’etologia. Caffo nega una identità di gesti e di senso tra postumano ed etologico, che sarebbe una ricaduta nell’accentramento dell’uomo, una riconduzione all’umano della alterità animale: non possiamo sperimentare ciò che non siamo. Inoltre, per sua completezza, l’etologia dovrebbe estendere l’osservazione oltre gli animali in natura, quindi agli animali in laboratorio condannati al relegamento e all’orrore. Ma l’essere postumani urta frontalmente con ogni costrizione che procuri l’impotenza vitale altrui, sia pure a fini di ricerca: è chiaro che in seguito alle trasformazioni etica-metafisica-scientifica Postumano contemporaneo pensi insieme eticamente e scientificamente. E assuma inoltre in forma intersettoriale, contestualmente e non a parte, i vari stadi dell’essere, le aree disciplinari e i costrutti culturali.
E quanto appena detto non entra in contraddizione con la valorizzazione dell’idea ossessiva di Homo sapiens, che oltre tutto rescinde la sua illusione postrema: il limite opposto dalla dimensione biologica, dalla embodiedness, quindi dalla finitudine. Quello che era un ostacolo da scavalcare ad ogni costo per mutare in oltreumano (l’Odisseo dantesco con il «folle volo» che trasgredisce i divieti divini; la figura prometeica di Achab nell’altrettanto folle inseguimento di un’ossessione: «mentre vivo sulla terra una personalità regale vive in me e sente i diritti del suo grado»; fuori della finzione, Leonardo da Vinci che mette le ali all’umano per riuscire dove aveva fallito il sogno di Icaro) per Postumano contemporaneo è un fattore sommamente positivo, un’occasione, un monito che impone di arrestarsi perché più avanti sarebbe soltanto l’atto arbitrario e l’abuso dell’esperienza dell’altro. Il limite è la condizione necessaria del progredire, del trasformarsi, della stessa libertà, che non si dà in sua assenza: come nell’esempio della colomba kantiana, c’è una resistenza, un limite naturale, all’origine della possibilità di volare.
Come nel caso del transumanismo, così l’etologia non giunge a valorizzare la finitudine perseguendone anzi il sopravanzamento. Ciò che invece per Caffo va oltrepassato è il pensiero binario che postula antitesi rigorose supposte incomponibili, quali mente/corpo (di estrazione cartesiana), bianco/nero, interno/esterno, soggetto/ambiente, natura/cultura: al di là dei contrasti netti e delle scomposizioni in due, esistono chiaroscuri e mezze tinte che non designano dogmaticamente, quindi non delimitano. Nell’orizzonte inclusivo e postdualistico postumano l’opposto è complementare, come nella varia unitas delle filosofie orientali. Una volta smontata la fondatezza delle bipartizioni e della logica binaria, del paradigma duale, la dimensione ibridativa diviene un’immagine verosimile. Tuttavia il tasso di ibridazione di Postumano contemporaneo è tutt’altro che iperbolico. L’ibridazione è qualcosa di simbolico, un intramarsi di dicotomie sfumate, di ambivalenze e di gradazioni, nella continuità tra enti ed oggetti eterogenei. E soprattutto nei limiti del biologico. Perché l’ibrido – punto lussureggiante quanto controverso delle posizioni sul postumano, talora profilandosi come sua caratteristica univoca in cui cade il discrimine ontologico tra naturale e artificiale – in Postumano contemporaneo non si risolve in una intersezione o in un composto di elementi umani e di elementi animali. O nell’incorporazione di umanità e di artificialità o macchinicità (dove il meccanismo è ambiguamente salvifico), oppure di umano e inorganico, protesico (altro è il discorso dello strumento tecnico che colma le umane lacune), cyborg o androide: postumano non è disumano o di rango metabiologico. È un altro soggetto. Che reagisce all’assuefazione per cui dimentichiamo di essere implicati nell’assommoir animale, e questa dimenticanza, addotta con intenzioni autoassolutorie come normalità, e da cui Postumano contemporaneo si discosta, era rasserenante perché nulla metteva in questione.
Ora che l’umanità come concetto o categoria di pensiero è decostruita, ora che del supermondo di Homo sapiens, almeno come rappresentazione mentale, è stata svelata l’evanescenza, se la speciazione non è solo un percorso metaforico, non dobbiamo fare altro che seguire il movimento di Postumano contemporaneo, che è un’opera aperta di cui avvertire i bordi. Al di là dei tratti apocalittici del racconto giovanile, e come tutte le cose che coinvolgono un dopo di noi, si intravede nel presente e in parte è già vissuta. Ma non basta vivere la speciazione, bisogna gestirla. Come un’opera architettonica, Postumano contemporaneo, fatte proprie le premesse di base, necessita di un progetto e di una realizzazione, e quest’ultima è delegata al filosofo, a lui competerà l’installazione dell’opera che ha realizzato, consistente nell’aver ridisegnato il senso dell’essere nel mondo.
Ed è quello che inseguiva Thoreau, protagonista del Bosco interiore, che nella pratica di solitudine («isolamento» è la quarta parola per il contemporaneo in Velocità di fuga) di Walden, nella percezione dei ritmi scanditi dalla natura, ritmi lenti favorevoli alle rappresentazioni interiori, all’appressamento a quello che Zanzotto chiamerà per ossimoro «ricchissimo nihil», e nel mettersi alla prova del silenzio percepiva l’imperfetto del mondo. Il silenzio nell’«estremo verde» in Thoreau non ha a che fare con il pensiero inerte e muto della vacuità o con forme di spiritualismo o di misticismo. Non ha tendenza infinitiva ma attiva. È su questa scia che Caffo proponeva la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con l’esperienza originaria del silenzio, con la sospensione della parola ripetuta, sviante, inespressiva che si sviluppa l’idea di una rifondazione comunitaria. Con la sospensione della heideggeriana Gerede, quotidiana e ora mediatica e quindi pervasiva, che sommerge il suono dell’essere non corrotto dal vissuto storico e personale, e che ci distrae dal guardare all’abisso di questa modernità postuma. La prospettiva lontanante non configura l’oblio dei paesaggi della memoria né l’abbandono dei rapporti e dei legami tra le singole esistenze, e risponde piuttosto all’esigenza di renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore della nostra vita mortale. Il silenzio, Caffo dirà, è «l’assenza di un’umanità come concetto che opprime». Postumano contemporaneo va oltre Thoreau, giacché nel frattempo il quadro del mondo è profondamente mutato, e comunque resta in linea con il Thoreau che dopo due anni ritorna nella città, perché, come Caffo scrive, «vivere è con-dividere» con gli altri dello stormo. E similmente vegano, leggiamo in Vegan, «è un sistema aperto, plurale».
Postumano è una nuova narrazione, benché non stabilizzata. In Vegan, si legge nella nota conclusiva, prosegue il discorso che va dall’«antispecismo debole» del sottotitolo del Maiale non fa la rivoluzione alla riflessione sul postumano contemporaneo, e in particolare si esaminano le conseguenze fattuali dei fondamenti concettuali esposti negli altri due lavori. Una brevissima ricostruzione retrospettiva dell’attributo «debole» associato all’etica animale, che ovviamente non ha nulla a che vedere con il pensiero debolista. «Debole» intanto nel senso di una forma non coercitiva di antispecismo, di un attivismo non integralista e non dispotico, che anzi tolleri gli inevitabili passaggi intermedi purché giovino alla causa antispecista. Quindi «debole» nel senso di una teoria come filosofia di vita, pertanto incompiuta, liquida, flessibile a seconda delle situazioni. Ma soprattutto perché modellata sullo slogan che ispira la proposta di Caffo: «gli animali prima di tutto», cioè la liberazione animale a prescindere dai suoi effetti sull’umano. La versione debole – di fatto il richiamo all’antispecismo è molto forte – è un terza forma di antispecismo, che va oltre lo «specismo naturale» (che si esplica nel preferire individui della propria specie, del simile a spese del dissimile, e in questo caso, Caffo osserva, si può parlare di «pregiudizio») e lo «specismo innaturale» (che istituzionalizza il massacro dell’animale non umano per i bisogni dell’umano: e questa è una ideologia).
Torniamo a Vegan. Qui Caffo riprende la definizione che Giorgio Agamben dà di «contemporaneo» come di qualcosa che non combacia con il proprio tempo «né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale» (Che cos’è il contemporaneo?). Come sopra accennato, Postumano contemporaneo è un’opera aperta, in «contraddizione attiva con la contemporaneità», Caffo ha detto parlando di Velocità di fuga. Compiuto uno scatto in avanti, vegan è contemporaneo perché, intempestivo e fuori tempo, pretende dal proprio tempo di farsi futuro, di raggiungerlo, Caffo dice, «di ampliare le pretese dell’attualità verso quelle dell’utopia». Vegan è inattuale perché attuale è ciò verso cui stiamo andando. E si rifà al concetto di «anticipazionismo»: anticipare, accampare al qui ed ora ciò che ancora non esiste per prevederne, nell’asincronizzazione, lo scenario, nello specifico «per mostrare la potenza e l’applicabilità di un’idea rivoluzionaria». Vegan è quindi vivere in straniamento la tensione tra le temporalità dell’essere e dell’essere possibile, una vertigine del possibile potenziale da condividere, è sembianza precorsa, Caffo scrive, di un futuro morale non immediatamente visibile, anzi, molto di là da venire. Il differimento temporale è fisiologico senza esprimere connotazioni utopiche o ucroniche. Il veganismo non postula sovversioni immediate o trasformazioni radicali, né tanto meno una disgiunzione temporale. Viene concettualizzato come processualità, «come gesto, come performance nel senso più tecnico e artistico possibile». I vegani «decostruiscono l’‘attuale’ preferendogli, come tutti i performer, il possibile». Vegan è essere all’altezza di fingere (dal latino, «modellare», «plasmare», «immaginare», donde il leopardiano «mi fingo»: l’immaginazione arriva a dare forma) un nuovo spazio simbolico nel quale concepire in anticipo uno stato di cose. Una volta attenuato, attraverso un «gradualismo etico», il divario tra l’animale umano e il mondo che egli immagina, la realtà solida e consolidata di Homo sapiens trasmuta in liquida, fluida, modificabile. «Nel simbolico gli occhi, come il cuore, espandono la percezione facendo proprio, inscrivendolo nei corpi, ciò che è stato attualizzato dall’‘anticipazione’».
Nella Vita di ogni giorno Caffo definiva l’arte come il tempo a venire anticipato nel presente. Perché quelle opere improntate alla discontinuità o all’infrazione dei canoni convenzionali ci incuriosiscono? Probabilmente perché, caso per caso, ci fanno partecipi dei rischi e delle potenzialità del futuro. Senza questo fattore di anticipazione il vincolo tra l’estetica nella accezione di Baumgarten di scientia cognitionis sensitivae e la filosofia dell’arte permarrebbe oscuro e infondato. Ciò che accredita questa tesi è proprio la facoltà di percepire sensibilmente, e non alla maniera di una preveggenza o di una prescienza, un non ancora di lì a manifestarsi. In questo rapporto che si istituisce tra universi all’apparenza lontani, l’estetica appare consustanziale all’etica nella misura in cui entrambe aprono alla possibilità, anzi, a un ventaglio di possibilità: siamo nel territorio della scelta che muove l’azione morale. L’estetica ci rende consapevoli della complessità del mondo di cui facciamo parte perché, selettivamente, raccorda il nostro mondo interno con il mondo esterno.
Ancora nella Vita di ogni giorno Caffo assegna alla filosofia il potere di cambiare le cose nella sola maniera fattibile, cioè con «armi pacifiche». La filosofia può supportare questa esigenza? Sì, solo se praticata come «alternativa filosofia», cioè come «alternativa allo stato di cose maggioritario che le nostre vite e teorie affrontano». La filosofia postumanista, l’alternativa filosofia, è l’atto, cioè l’azione che non si prefigge un obiettivo inflessibile, un’unica direzione. Le cinque lezioni che incrementano queste pagine hanno avuto un pubblico con il quale Caffo ha condiviso alcuni esempi di situazioni reali. Ora, nella forma scritta del libro, le lezioni hanno un uditorio più vasto, un’«aula senza confini», e neppure qui la filosofia sarà ricevuta nei modi di una prospettiva privilegiata, quanto come discorso non filosoficamente vacuo o retorico e non irrelato dal mondo. Non si tratta infatti di sovrapporre le voci dei venerati filosofi alla quotidianità, né di assumere le norme della filosofia morale come regolatrici dei nostri comportamenti, come codici di condotta. Un atto è morale quando, lungi dall’attenersi a una precettistica astratta, a norme prescrittive fissate da qualcuno prima di noi e magari neppure collegate alla vita reale (e tanto meno alla nostra), comporta in noi una modificazione per il moltiplicarsi delle opzioni possibili, delle quali, e rifletteremo sul perché, ne scegliamo soltanto una. Il punto non sta nell’attenersi a un criterio etico che impartisce delle norme sul dover essere, ma nel movimento al di là dell’ottica del premio o della punizione. Sta nello scegliere un comportamento piuttosto che un altro. Qualcosa ci porta verso qualcosa. Cos’è questo qualcosa? Il sentirsi come «unico immenso organismo», uno «stormo umano»: c’è un esterno in noi, un passato collettivo rispetto al quale, per imitazione, sorgono le nostre azioni morali. E se qui il mondo esterno non è un mondo estraneo, «il vero oggetto d’indagine dell’etica deve essere l’imitazione fiduciosa del compagno più vicino all’interno dello stormo». Forse, ricollegandoci ancora a Thoreau, l’anarchia – in quanto condizione di una autonomia morale – ha molto da insegnare alla democrazia. E l’etica, per Caffo, è l’etica stessa, vale a dire ciò che di volta in volta saremo in grado di comprendere attraverso le nostre scelte comportamentali: perché proprio quella, e non un’altra?
Analogamente, «veganesimo è un atto, non un’azione», Caffo scrive. Sul momento non conosciamo la ragione per cui facciamo qualcosa, anzi, il gesto rivoluzionario deve liberarsi del peso del conseguimento tempestivo del fine. Quello che invece sappiamo è che vegan implica la riconsiderazione totale del nostro stare al mondo e delle nostre responsabilità, anzitutto nei confronti di altri esseri senzienti. Per nemesi, se non divina o storica, quanto meno ecologica, all’orizzonte della sofferenza animale si staglia la nostra: per il ricadere su di noi delle conseguenze del carnismo, della deforestazione, dei gas serra, degli allevamenti intensivi, del consumo di acqua, della defaunazione dell’Antropocene. Non parleremmo dello sfacelo ambientale se solo eliminassimo le nostre abitudini speciste. Se evitassimo il sacrificio dei «coolie della terra» (dal Grattacielo di Horkheimer, da Caffo riportato in più occasioni) affinché, come Giuseppe Parini scriveva con sferzante ironia (se pure non riferita alla dieta carnea), «nuove così venner delizie, / O gemma degli eroi, al tuo palato». Ammesso che, Caffo dice, vegan non è una dieta, ma un obbligo morale, uno stile di vita. È trapiantare frazioni di futuro nel presente e testarne la fattibilità.
Resta il sospetto che l’incoercibile autodeterminazione di Homo sapiens non possa che intenzionarsi ad un futuro ancora improntato all’orizzonte dei valori che hanno avuto l’inquinamento globale come esito. Come, allora, non persuaderci, magari egoisticamente, che vegan sia condizione necessaria e sufficiente di un nuovo equilibrio ambientale? Dall’eteroreferenza sottesa alla rivoluzione vegan dipende il nostro futuro e quello del nostro ambiente. Ma senza una teoria questa rivoluzione potrebbe sfilacciarsi in atteggiamenti cool, o affondare nel radicalismo che rischia ritorsioni ideologiche e la dispersione del consenso finora acquisito. È allora fondamentale una disposizione filosofica che verifichi di continuo la possibilità di una ricostruzione – di qui la funzionale discronia insita nell’anticipazionismo, e la altrettanto funzionale sfasatura tra teoria e prassi nella rivoluzione vegan. E una visione che, non banalizzando, sostenga il male minore, che si rimetta a ciò che si può fare senza radicalizzarsi su ciò che si dovrebbe fare. Da un lato, Caffo osserva, «c’è il perimetro tracciato dalla teoria e dalla filosofia, all’interno del quale si possono difendere posizioni radicali e abolizioniste, ma dall’altro lato c’è il territorio della pratica, dove siamo costretti a un gradualismo delle azioni». Per il momento, e sarebbe moltissimo, la priorità va all’osservazione e all’attuazione di questi cinque punti, che accomunano vegani e non vegani: conoscere gli animali non umani per constatare che quello dell’animale umano non è l’unico livello di esistenza; anche i prodotti vegani, come gli altri prodotti, sono immessi nella logica del capitalismo, dalla quale, quindi, nessuno è immune (e che, come Caffo osservava in chiusura del capitolo precedente, difficilmente sarebbe superabile attraverso l’accelerazionismo, teoria secondo cui per neutralizzare il capitalismo se ne dovrebbe intensificare la velocità, accelerando, e non osteggiando, il suo percorso e le sue strategie fino alle conseguenze più estreme, cioè fino all’esaurimento delle risorse – teoria che per Caffo si riduce a una suggestione filosofica che oltre tutto introdurrebbe altri problemi morali); lavorare in isole-comunità in cui mettere alla prova gli stili di vita alternativi ritenuti possibili; in linea con il veganismo, assoldare il nostro corpo come scenario vivente di ciò che ci attrae e che vorremmo conseguire; infine, «aprire la mente: ciò che vediamo, facciamo e pensiamo è solo una piccolissima parte di ciò che possiamo vedere, fare o pensare. Da ogni limite imposto al reale primario si aprono risorse inaspettate di un reale secondario».
Fatti propri questi principi-intenzioni che aprono l’ultimo capitolo di Vegan, l’idea del massacro animale non sarebbe neppure concepibile. Postumano contemporaneo lo sa, potrà sopravvivere al percepirsi perduti di Alme e di Nebe perché ha saputo fare della finitudine una possibilità, quando finalmente ha visto l’esaurirsi dell’esistente. Nel dire «finalmente è la fine del mondo» si esprime l’amara soddisfazione per la fine di una maniera di stare al mondo, la maniera egoriferita di Homo sapiens di cui non si ha alcuna nostalgia. Ma quella che nel racconto giovanile poteva essere un’allegoria o un parlare in figura, l’effetto di iato di una apocalypse now, in Velocità di fuga è enunciata, e documentata, come concretissima possibilità di una difficilmente convertibile emergenza climatica, ambientale e per la nostra specie nella biosfera. Di fronte al punto irreversibile di crisi che ha nebulizzato il sistema dei riferimenti dello ieri ogni empito riformista è vano. E soprattutto si ha l’impressione che non ci sia più tempo, e che le stesse parole de nihilo, de nihilitate loquuntuur nella loro sfasatura e distopia inesorabili che sembrano minare la verità dei predicati nominali e la facoltà di corrispondenza e di rispecchiamento del linguaggio. Analogamente, le controversie sul postumano tra realtà e fantascienza finiscono in una tragica impasse: i futurologi tendono a vaticinare il dominio sul nostro essere mortali entro qualche decennio, che è poi lo stesso arco temporale che secondo altri resta all’umano prima che la condizione climatica giunga al suo punto di non ritorno, quindi alle soglie della distruzione antropica. «Questo è senza dubbio il nostro ultimo millennio», è la frase glaciale che, a conclusione di Velocità di fuga, attraversa il cuore del lettore per tutto ciò che alle generazioni povere di futuro è irrimediabilmente precluso. Di questa vulnerabilità a venire ha parlato anche la filosofia. Tuttavia, se la filosofia è una continua ridefinizione delle questioni di principio, un continuo tornare alla radice di ogni questione, è ormai tempo di pensare davvero futuro, perché è sterile configurarlo con nomenclature d’effetto o verbose sinonimie glossanti che sui prossimi decenni non avranno alcuna presa effettiva. Su tutt’altra linea di riflessione, Caffo si fa vulnerare (vedi alla quarta intenzione), e porta alla ribalta filosofica una critica della sostanziale immotivazione di molti intellettuali al problema cruciale di un futuro in pericolo, e lo fa spingendosi oltre i modelli canonici, e dai contermini esiti, riformista e rivoluzionario (altrettanto retorico, quest’ultimo, quando scade in burocrazia). Nell’ottimismo epigonico e disfunzionale dei riformismi filosofici, il «pensatore sistemico» si avvale di categorie in disuso riferite a un mondo la cui unica trasformazione possibile è il crollo senza soluzione di continuità. Urge la forza comprensiva di una grammatica anticipazionista – il tertium datur della filosofia – con cui «il pensiero del nuovo viene scaraventato con la potenza del performativo». Filosofia per Caffo è anticipazione, nel senso più vasto e in modo radicalmente nuovo: interruzione di un ordine e messa in scena delle inconseguenze della vita. «C’è un ordinario, una linea retta, e poi c’è un gesto – la rottura orientata all’anticipazione di uno spazio morale, politico, sensoriale – che curva e piega questa linea e le dà un nuovo corso».

tag: , , ,

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2024 Elisabetta Brizio