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Sant’Anna di Stazzema – Parte II^: La strage di sabato 12 agosto ’44 e i giorni seguenti
di , numero 57, giugno 2024, Note e Riflessioni, DOI

Sant’Anna di Stazzema – Parte II^: La strage di sabato 12 agosto ’44 e i giorni seguenti
Come citare questo articolo:
Luca Petroni, Sant’Anna di Stazzema – Parte II^: La strage di sabato 12 agosto ’44 e i giorni seguenti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 25, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11477

A) Il giorno della strage
Le persone che avevano risalito dalla Versilia costiera le iniziali pendici delle Alpi Apuane si sentivano relativamente tranquille su quelle colline, in quanto le ritenevano quasi irrilevanti per gli eserciti alleati che fronteggiavano i reparti nazi-fascisti; inoltre, le suddette colline apparivano idonee a fornire una qualche sistemazione abitativa nelle sparse borgate nonché un po’ di cibo, consistente in prodotti agricoli tradizionali e in greggi o animali da cortile. Queste risorse di sussistenza comportavano, comunque, residue modalità di commercio rispetto ai beni essenziali, come sale e grano; suddetti scambi risultavano basati prevalentemente sul baratto o svolti, talvolta, ricorrendo a una limitata circolazione di denaro ormai sempre più svalutato e sempre meno richiesto1 .
La famiglia paterna di Renato Bonuccelli2 , pur essendosi allontanata da Capezzano Pianore dove risiedeva, poteva fare affidamento in vario modo sulle proprie attività commerciali correlate alla economia di zona: alcuni terreni coltivati tramite contratti a mezzadria, un mulino, un negozio di generi alimentari; perciò, essa non aveva avuto difficoltà a trovare parenti ed amici già “sfollati” sulle colline quando, con discrete provviste di viveri (“galline incluse” ricorda Renato Bonuccelli), era giunta sino alle borgate componenti la frazione di Sant’Anna di Stazzema.
“Lì avevamo trovato alloggio – lui prosegue – in un piccolo edificio di Daniele Mancini presso Le Case, località che si trova sulla mulattiera tra la piazza della chiesa e la borgata Il Moko. Quell’abitazione era composta da un’ampia cucina con adiacente piccolo servizio igienico, privo di acqua corrente, a piano terra, e da una camera e una cameretta al primo piano. Non c’erano letti o mobili tranne un tavolo e delle sedie; tutti (dieci persone) dormivamo su materassi che ci eravamo portati dal piano, posati direttamente sul pavimento di legno. Questa sistemazione e la permanenza erano considerate relativamente sicure e prolungabili anche perché soltanto delle mulattiere ben mantenute e controllabili da vedette consentivano l’accesso in paese.”
Pur essendo diffusamente nota la vocazione antifascista e ancor più antinazista di molte persone sfollate a Sant’Anna e dintorni, chi aveva optato per la suddetta località si riteneva abbastanza protetto. Prima di tutto, in caso di improvvise incursioni di reparti repubblichini o nazisti, le mulattiere e i sentieri – quasi sconosciuti a chi non era residente – avrebbero garantito varie vie di fuga agli uomini validi, reputati l’unica merce interessante per i reparti che effettuavano dei rastrellamenti; inoltre, molti sfollati reputavano gli anziani, le donne e i bambini esenti da violenze nazi-fasciste. In aggiunta, il segretario locale del Fascio appariva ragionevole e aveva protetto, sino ad allora, tutta la popolazione santannina da ogni eccesso da parte di truppe naziste o della RSI; infine, gli sfollati presumevano di essere protetti anche dalle varie brigate partigiane che circolavano in zona, le quali avevano dato – anche tramite propri bandi – delle rassicurazioni al riguardo.
Inoltre, da secoli e in tutte le borgate componenti la frazione di Sant’Anna di Stazzema, numerosi soggetti provenienti anche da località distanti e poco note transitavano per motivi commerciali, ma tenendo sempre una condotta rispettosa; cosicché, chi aveva abitato stabilmente in quelle zone aveva l’abitudine di percepire quella aggregazione sociale come composta da famiglie e da loro parenti o da soggetti in transito, considerate ricorrenti e mai pericolose; pertanto, i residenti non avevano la propensione a diffidare dell’uno o dell’altro individuo giunto a Sant’Anna; anzi, tendevano a ricevere o ad assistere chiunque. Forse, in quel periodo caratterizzato da timori e da incertezze, gli abitanti non volevano neppure rischiare di inimicarsi qualcuno – appartenente a una o all’altra parte in conflitto – il quale avrebbe potuto ripresentarsi, il giorno seguente oppure alla fine della guerra, con sentimenti di rivalsa o con intenti di vendetta e magari impugnando una qualsiasi arma.
In effetti, diverse anime convivevano nelle formazioni partigiane nelle quali si infiltravano vari soggetti, fra cui pure dei militi fascisti. Questi ultimi, spesso i meno conosciuti in loco, erano solitamente correlati alle strutture militari e civili repubblichine tuttora permanenti nei capoluoghi comunali nonché in molte frazioni; inoltre, sovente, riuscivano a presentarsi come fascisti pentiti e ad acquisire una qualche affidabilità agli occhi della popolazione e dei partigiani; addirittura – evidenzia il professor Bonuccelli – “partecipando anche ad azioni di resistenza; per poi assumere ulteriori incarichi ricevuti dai partigiani e acquisire informazioni rilevanti. Però, talvolta, essi operavano poi quali scaltre spie e riuscivano a ritornare nei capoluoghi limitrofi per descrivere la situazione dei partigiani e fornire ogni informazione utile alle autorità tedesche o della RSI”.



In merito alla strage, Renato Bonuccelli racconta con nitida memoria: “quel sabato 12 agosto 1944, come al solito, i miei nonni si erano alzati presto ed erano stati raggiunti da una voce, corrente di bocca in bocca, sul transito di reparti nazi-fascisti; questi provenienti dalle cittadine versiliesi – dove stanziavano le truppe tedesche e repubblichine – stavano risalendo da più parti le colline in direzione di Sant’Anna di Stazzema”; dunque, si può supporre, in esecuzione di una operazione programmata e coordinata. Molti residenti e sfollati reputavano comunque di dovere tenersi pronti per sfuggire a ogni ulteriore tentativo di quei reparti incaricati di rastrellare uomini validi da destinare prioritariamente nelle fabbriche dedite alla produzione bellica o al completamento della Linea Gotica.
Quella mattina, fra la popolazione residente e quella stabilitasi nei dintorni di Sant’Anna – incrementata a oltre un migliaio di persone sfollate a causa dei sempre più frequenti bombardamenti e mitragliamenti aerei degli Alleati sulla pianura versiliese – l’allarme si era diffuso; tuttavia, soltanto i maschi adulti si ritenevano in pericolo poiché, sino ad allora, i rastrellamenti effettuati dalle truppe nazi-fasciste non avevano coinvolto bambini, donne, uomini anziani3. Forse questa misurata serenità fra chi abitava Sant’Anna era condizionata o ispirata anche da due contrapposti bandi affissi l’uno dalle autorità tedesche l’altro attribuito ai partigiani: il primo4 ordinava alla popolazione di lasciare quelle località e minacciava rappresaglie sulla medesima in caso di non esecuzione di quell’ordine poiché sarebbe stata equiparata a fiancheggiatrice delle squadre partigiane: difatti, le truppe nazi-fasciste temevano e perciò intendevano sradicare ogni attività di resistenza proprio di queste; mentre il secondo – imputato dalla popolazione a un qualche comando partigiano, benché non chiaramente identificato – non risultava firmato né assegnabile con certezza a una delle varie componenti che lottavano contro la occupazione nazi-fascista; però, il contenuto rassicurava la popolazione: invitandola a rimanere a Sant’Anna nonché a resistere anche con mezzi di fortuna e, inoltre, garantendo l’eventuale intervento protettivo da parte dei partigiani5.
In questo clima di incertezza, ad ogni avvisaglia dell’arrivo di soldati tedeschi, gli uomini adulti avevano cominciato a fuggire nei boschi circostanti o a nascondersi in rifugi sicuri, come fecero alcuni componenti della famiglia di Renato Bonuccelli il quale puntualizza: “Il proprietario della casa dove abitavano ci aveva informati che nel vicino canalone sulla sua proprietà, molti anni prima, era stata scavata una buca nella roccia per ricercare della “barite”, un minerale molto utilizzato nell’industria chimica. La “buca di Daniele”, così era chiamata dai vecchi santannini, era ormai dimenticata e nascosta da un impenetrabile roveto. Durante i primi giorni dal nostro arrivo, fu aperto uno stretto varco per accedervi: le frasche tagliate furono portate lontano per non far notare il recente passaggio di persone e l’entrata fu accuratamente occultata6 . La mattina del 12 agosto, mentre noi tutti stavamo scendendo nel “canalone” e proprio in prossimità di quel rifugio – Renato Bonuccelli prosegue ricordando nitidamente – mio zio Silvestro Bonuccelli aveva accusato un malore, perciò volle rientrare all’abitazione, ipotizzando che tanto forse era uno dei soliti falsi allarmi sull’arrivo di soldati tedeschi e assicurando che comunque sarebbe stato guardingo per ritornare se li avesse scorti. A quel punto anche tutti e quattro i miei nonni più mia madre, con me, decisero di tornare a casa. Conseguentemente, soltanto mio padre Giuseppe e mio zio materno Amerigo Guidi proseguirono fino alla “buca”. Giunti a casa, mia nonna Zaira mise in tavola qualcosa da mangiare e un fiasco di vino: lei era abbastanza serena poiché pure capace di parlare un po’ di tedesco in caso di necessità7 ”.
“Nonostante la notizia del probabile arrivo dei tedeschi, la situazione pareva dunque abbastanza tranquilla – così prosegue il nostro testimone oculare – quando alcuni di loro apparvero, improvvisamente, scendendo dal sentiero che iniziava proprio davanti alla casa dove alloggiavamo. Appena arrivò anche un loro superiore, questo diede ordine di far uscire tutti dalle abitazioni e di ispezionarne l’interno per verificarvi la permanenza di qualcuno; poi, tutti gli adulti dovettero mettersi in fila nella piazzetta antistante, ma senza atti ostili; cosicché, i bambini avevano continuato tranquillamente a girottolare davanti casa. La preoccupazione, tuttavia, serpeggiava tra gli sfollati specialmente a causa delle notizie contraddittorie che circolavano; ricordo, infatti, che giorni prima – mentre ero andato con la nonna Zaira a vedere se le galline nella stia dietro casa, avevano fatto l’uovo – incontrammo una vicina. Lì, le due donne si erano messe a parlare del più e del meno quando una gallina, improvvisamente, emise un chiaro chicchirichì. La vicina conturbata esclamò: “Lo dicevo io, qui sta proprio per accadere una grave disgrazia: anche le galline cantano a gallo!”. In effetti, nella campagna versiliese, si credeva che quel fenomeno preannunciasse la morte di un familiare. In realtà, come anni dopo appresi, non è raro che la gallina più anziana in assenza del gallo ne imiti il canto”.
Il testimone poi continua: “mentre eravamo in attesa che i soldati ci impartissero qualche ordine, improvvisamente, si udirono due scoppi e due razzi rossi solcarono il cielo. Subito dopo, un altro drappello, probabilmente formato da SS poiché in divisa nera e con gli stivali, sopraggiunse dalla mulattiera; tutti, compresi i bambini, furono prima spinti in fondo allo slargo e poi costretti ad entrare in una casa. Un giovane che aveva cercato di non eseguire quell’ordine, fu subito colpito da una scarica di mitra che gli squarciò il petto”.
Anche Renato Bonuccelli – purtroppo partecipe di questi eventi – insieme alla madre e ai nonni dovette entrare; al riguardo, ricorda che “mentre la porta veniva serrata dall’esterno; contestualmente, davanti a essa, fu piazzata una mitragliatrice rivolta verso l’interno”.
Lui aveva notato e memorizzato un mitragliere collocatosi dietro quell’arma; nitidamente così lo descrive: “questo individuo indossava una maschera, forse una retina, la quale farebbe presumere che lo stesso intendeva non mostrarsi; quasi certamente per evitare di essere riconosciuto poiché persona lì residente o almeno individuabile da altri abitanti residenti in zona.”
Renato Bonuccelli ha poi proseguito la descrizione degli eventi come segue: “All’improvviso i vetri della finestra della stanza furono rotti con il calcio di un fucile e due bombe a mano furono gettate all’interno, erano di colore azzurro con manico di legno; qualcuno disse: ‘Sono bombe Balilla’. Al loro scoppio, qualche istante dopo, tutte le persone si ammassarono istintivamente verso il fondo della stanza: era l’effetto voluto dai nazisti. Improvvisamente, la porta venne riaperta e vidi la mitragliatrice pronta per spararci addosso. In quel momento, mia madre mi prese in braccio, salì la ripida scala di legno e mi affidò a dei conoscenti che già erano al primo piano, dicendo che riscendeva a prendere anche i suoi genitori. A questo punto la mitragliatrice cominciò a sparare. Per evitare che i soldati salissero, un mio lontano parente, Alfredo Graziani ed altri che si trovavano nella stanza chiusero la botola in cima alla scala e vi sovrapposero un comò per impedirne la riapertura da sotto. Mia madre, quindi, non poté tornare con me. Sul letto che era nella camera giaceva senza vita il giovane che poco prima era stato mitragliato e una donna anziana esanime: mia nonna Zaira Pierotti, appena morta; non fu mai saputo se per un attacco di cuore in seguito allo spavento oppure perché raggiunta da un proiettile della scarica che aveva colpito il giovane. Da quel momento raffiche di mitraglia si alternarono a scoppi di bombe frammisti alle urla strazianti delle persone terrorizzate rimaste al piano di sotto, mentre al piano superiore, incertezza e angoscia dominavano e paralizzavano chi era tuttora vivo. Ad un certo momento una sventaglia di mitra mandò in frantumi pure i vetri della finestra della camera e quasi tutti ci sdraiammo sul pavimento o sotto il letto nel timore che i soldati risalendo sul sentiero ci vedessero all’interno della stanza e ci sparassero. Attraverso le larghe fessure tra le tavole del pavimento si poteva appena intravedere la tragedia che stava accadendo sotto di noi perché gli scoppi delle bombe avevano sollevato una cortina di fumo e di polvere. Dopo alcuni minuti, il crepitio delle armi e le grida disperate cessarono; noi ci guardavamo senza parlare, quando un acre odore di fumo cominciò ad entrare nella stanza e ci fece avvicinare alla finestra: una casa vicina stava bruciando. A questo punto Graziani ci disse che dovevamo uscire subito visto che i tedeschi si erano allontanati e che sicuramente sarebbero tornati per incendiare anche le altre case. Mi chiese se sapevo dove andare e io gli risposi che avrei raggiunto mio padre nel vicino canalone. Mi raccomandò di non fermarmi qualsiasi cosa avessi visto: neanche per la mamma morta, ma di correre subito da lui. Le sue ferme parole mi salvarono la vita. La botola fu aperta e tutti scendemmo al piano sottostante. Lì, alla base della scala, io trovai il corpo di mio nonno materno, Angiolo Guidi – prosegue il racconto sorprendentemente pacato ma puntuale di Renato Bonuccelli, allora bambino di sette anni – e vicino quello di mia madre, la quale teneva ancora in mano la borsa da cui non si separava mai. Non vidi altri miei parenti, probabilmente nascosti sotto i tanti corpi che giacevano a terra. Mi ricordai allora la raccomandazione spesso ripetutami da mio padre di non abbandonare, in nessun caso, la borsa che conteneva documenti, denari e gioielli e, d’istinto, la presi8, quindi uscii con circospezione per andare nel canalone dove mio padre si nascondeva; a tale scopo, io avrei dovuto passare davanti alla nostra abitazione ma un lanciafiamme – poggiato su un treppiedi che stava ancora incendiando la casa adiacente – mi sbarrava la strada. Dopo alcune esitazioni, mi decisi e, nonostante il calore, lo superai passando nello stretto spazio tra la sua parte posteriore il muro che delimitava l’aia. Disceso un tratto di mulattiera, io imboccai il sentiero per raggiungere il nascondiglio di mio padre, ma presto mi persi. Disperato cominciai a chiamarlo ripetutamente; una pattuglia che percorreva la mulattiera, udendo la mia voce cominciò a sparare ripetute raffiche di mitra nella mia direzione. Vedevo gli arbusti sbriciolarsi davanti a me, ma non mi rendevo conto del pericolo che stavo correndo. Finalmente vidi mio padre poco distante che mi fece cenno di tacere e di stare giù. Pian piano, quasi strisciando sul terreno, lo raggiunsi e ci rifugiammo insieme in quella “buca” dove ritrovai anche lo zio materno Amerigo Guidi”.
Poco dopo essersi ricongiunto con il padre e lo zio, Renato ricorda di essere scoppiato a piangere disperatamente, senza riuscire a comunicare la morte della mamma e rimanendo muto per qualche tempo. Il padre, sino ad allora ignaro della strage da poco perpetrata, aveva imputato quel pianto ininterrotto a una crisi di fame e lo aveva rassicurato garantendogli che presto la mamma sarebbe venuta e avrebbe portato anche qualcosa di buono da mangiare. Quelle parole erano però servite soltanto ad accrescere i singhiozzi del piccolo Renato9.
Mentre eravamo nella buca di Daniele, attraverso le fronde che nascondevano l’ingresso della grotta e ad appena qualche metro da noi, noi vedemmo degli uomini armati che scendevano il canalone. Alcuni impugnavano un mitra e avevano bombe a mano appese alla cintura. Non riuscimmo a capire se fossero dei partigiani o dei tedeschi poiché erano piuttosto malmessi e sudati, indossavano divise in disordine, di foggia e colori diversi. Forse era la stessa squadra di tedeschi che poco prima mi aveva sparato senza colpirmi, quando essendomi smarrito chiamavo mio padre poiché ed era scesa nel canalone convinta che vi fossero nascosti dei partigiani”.
La sua testimonianza prosegue riferendosi al successivo arrivo, verso quella buca, anche del nonno paterno – Nello – qualche tempo dopo la fine degli spari; il quale, dall’alto del canalone, aveva chiamato ripetutamente il figlio: “Noi, usciti dal rifugio, vedemmo sulla mulattiera mio nonno: tutto insanguinato. Sebbene ferito da due proiettili alle gambe e da numerose schegge di bomba alle braccia e alle mani era riuscito comunque trascinarsi fin lì. Appena vicini, ci disse incrociando ripetutamente le braccia, che tutti i nostri familiari erano morti.
Raccontò che dopo la sparatoria, grazie alla polvere e al fumo causati dagli scoppi era riuscito, camminando carponi, a sortire fuori dalla stanza e a nascondersi sotto una vicina gabbia da conigli, dove era rimasto fino a quando la squadra, che aveva poi incendiato anche quella casa, si era allontanata10.
Renato Bonuccelli non ritiene di potere fornire un numero certo su quanti plotoni operarono a Sant’Anna; tuttavia, dovevano essere molteplici e concorda con chi (v. i testi di Alessandrini, Graziani e di Piccolino) parla di almeno una decina di unità impiegate, necessariamente a composizione mista. Ciascun plotone, presumibilmente, era composto da almeno una dozzina di uomini e alcuni dei quali erano sicuramente italiani e locali: proprio per riuscire a controllare tanto le mulattiere note ai tedeschi tramite le mappe militari, quanto i viottoli più agevoli o le vie di fuga conoscibili soltanto da abitanti della zona.
Suddette considerazioni inducono a sospettare ulteriormente o a ritenere fondata la convinzione che la guida di molteplici reparti nazi-fascisti era stata assegnata a militi della RSI; in effetti, soltanto dei soggetti ottimi conoscitori del territorio avrebbero potuto contribuire a programmare e assicurare un arrivo in quei luoghi quasi sincronizzato, effettuato da una pluralità di plotoni, aventi ciascuno una provenienza e destinazione diversa. Essi, inoltre, erano giunti in prima mattina: ciò fa presumere necessariamente di avere percorso quella viabilità anche in ore notturne per non essere avvistati e, perciò, utilizzando guide esperte – dunque fascisti locali – che non avrebbero commesso scelte sbagliate al momento di optare per il percorso più opportuno in prossimità dei bivi di mulattiere e viottoli semi nascosti dal cascame dei castagneti o dei tratti boschivi attraversati.
Questi reparti avrebbero tenuto poi comportamenti difformi verso la popolazione della zona: in taluni casi, del tutto inoffensivi; in altri, limitati ad attività di rastrellamento di uomini fisicamente validi; in altri, invece, finalizzati a sterminare senza scrupolo tanto gli anziani, quanto le donne e addirittura i bambini nonché a incendiare poi case e cadaveri11.
Una motivazione documentata e definitiva sulle cause di queste stragi nonché sulla diversità di condotta non è ancora stata raggiunta. Le ipotesi attendibili sono molteplici: forse, alcuni asseriscono, l’allora recente rifiuto di qualche residente o sfollato a coadiuvare il parroco per dare la sepoltura a quattro fascisti ammazzati sulle pendici del monte Gabberi da una brigata partigiana; o la richiesta di una correlata vendetta che proprio alcune vedove o parenti di quei quattro fascisti avrebbero sollecitato alle autorità locali militari tedesche e repubblichine; oppure il gusto o il diritto nazi-fascista finalizzato a compiere una rappresaglia contro le comunità ritenute lesive della fedeltà al “patto d’acciaio” fra il governo fascista di Mussolini e quello nazista di Hitler; ovvero l’odio e il disprezzo nutrito dagli aderenti alla RSI e dai nazisti verso la guerriglia dei partigiani – da loro appellati banditi o ribelli che, agendo privi di divise o altri elementi distintivi, erano considerati delle spie o dei traditori.
Oppure, invece, una qualche altra causa come la scoperta di armi nascoste da civili che sostenevano la Resistenza o magari di partigiani che supportavano ed erano supportati dai servizi segreti americani o inglesi?
Al riguardo, Renato Bonuccelli precisa: “Lo sterminio davanti alla chiesa di Sant’Anna è un alt66ro tragico evento; esso concerne altre persone rastrellate in loco; poi, falcidiate con il parroco e altri fanciulli, tutte ammassate mitragliate e infine bruciate tramite lanciafiamme; una squadra aveva addirittura sparato e ucciso pure il segretario fascista di Sant’Anna di Stazzema. In effetti, ogni plotone nazi-fascista aveva attuato una propria condotta diversa da quella di altri: alcuni avevano perpetrato una strage nella borgata dove era inizialmente giunto, per poi sterminare ulteriori abitanti dove reperiti; mentre altri reparti si erano limitati a eseguire dei rastrellamenti. Non mancò neppure un soldato che rimasto solo con un gruppo di italiani, disse loro di allontanarsi velocemente, sparando in aria per far presumere ad altri camerati di averli uccisi”12.
Renato Bonuccelli prosegue poi il racconto sulla condotta dei familiari durante quella giornata. “Appena raggiunti da mio nonno, Nello Bonuccelli, ci fermammo poco distante dalla mulattiera, forse per più di un’ora; durante questo tempo mio padre e mio zio con fazzoletti e brandelli di camicia, per impedire emorragie, effettuarono fasciature sulle ferite di mio nonno; il quale – con molta difficoltà – riuscì a persuaderli di non andare a vedere il luogo della strage perché avrebbero potuto incontrare qualche soldato rimasto indietro. Cominciammo quindi a scendere verso Valdicastello13. Presso un metato, lungo quella mulattiera, incontrammo una donna davanti a un forno acceso. Mio padre le raccontò brevemente quanto era accaduto e le chiese qualcosa da mangiare per me. Lei gli dette due piccole focacce di farina di grano integrale ancora calde e disse che le avrebbe regalate volentieri, ma che siccome aveva dei figli anche lei, chiese 20 lire: somma non modesta perché lo stipendio mensile di un operaio era allora di circa 1000 lire. Dopo avere superato Valdicastello, percorrendo viottoli e attraversando campi per evitare sgraditi incontri lungo la viabilità principale, arrivammo verso sera a Capezzano Pianore: dove, finalmente, andammo a dormire nella casa di un contadino che lavorava su dei nostri campi: poiché la casa di mio nonno e la nostra erano occupate dalle truppe tedesche”.
Al tramonto, le voci su quella strage si stavano diffondendo di bocca in bocca, tramite chi scendeva dalle colline verso valle o chi si era imboscato per sfuggire al rastrellamento effettuato dai tedeschi.
Una maestra di Capezzano Pianore, Maria Anastasia Bonuccelli, allora bambina e coetanea di Renato Bonuccelli, ma non parente stretta, mi ha poi raccontato un ricordo di cui era certa: essersi trovata a lungo fermata con la madre, nel tardo pomeriggio di quel sabato, alla base della collina dominata dalla fortezza di Rotaio – in località La Dogana presso Capezzano – e in attesa di poter raggiungere la nonna abitante la frazione collinare di Santa Lucia. Lì, loro due erano state “bloccate da uomini in divisa fascista finché, intorno alle 18, uno di quelli si era rivolto a loro limitandosi a comunicare: “adesso potete salire”. Una conferma ulteriore sulla sempre più certa programmazione a tavolino e sul reciproco e sistematico raccordo da parte delle autorità nazi-fasciste, finalizzato alla esecuzione, in quella data, di quella rappresaglia terroristica.
Renato Bonuccelli, infine, richiama un agricoltore: “Molti anni dopo, Emilio D’Alessandro – residente a Capezzano Pianore, in località Vallina – mi raccontò che, nel pomeriggio del 12 agosto 1944, che il comandante del vicino accampamento della Wermacht disse a sua madre che quel mattino a Sant’Anna “loro avevano eliminato molti banditi”; e lo disse convinto di averle dato una buona notizia, mentre sua madre inorridita si allontanava senza dire una parola”.

B) I giorni seguenti
Il nostro testimone prosegue descrivendo le contestuali condizioni dei propri familiari e delle persone che abitavano ancora nella Versilia costiera. “Il giorno successivo ci trasferimmo in località Bocchette – al confine tra Camaiore, Massarosa e Viareggio – presso un altro mezzadro legato alla nostra famiglia, il quale aveva un’abitazione più grande. Qui, nei locali già destinati a rimessa di attrezzi agricoli, si erano trasferiti anche i Vigili del Fuoco di Viareggio con le autopompe e le loro attrezzature, in conseguenza del bando di sfollamento emesso dalle autorità militari germaniche. Per tutti gli estranei noi eravamo degli agricoltori locali occultando, inoltre e accuratamente, di far capire che eravamo fra i pochi superstiti della strage di Sant’Anna; in effetti, avremmo potuto essere scambiati per partigiani o loro fiancheggiatori: con tutte le nefaste conseguenze del caso”.
Gli uomini superstiti dovevano, contestualmente, procedere alla sepoltura delle salme. In merito, Renato Bonuccelli ricorda e racconta: “mio zio Amerigo Guidi, in quanto celibe e rimasto senza genitori, aveva evidenziato questo suo aspetto a mio padre convincendolo a non rischiare per risalire a Sant’Anna e non lasciare da soli né il padre ferito né il figlio; pertanto, appena due giorni dopo, mio zio era tornato lassù allo scopo di recuperare e inumare provvisoriamente le salme dei familiari, accompagnato da due conoscenti e da un vigile del fuoco, Tommaso Vassalle, che prestava servizio nella caserma ospitata nella cascina del podere dove stavamo. Come saputo molto tempo dopo, durante la salita a Sant’Anna, quest’ultimo corse però un grave pericolo: un amico dello zio, nascosto dietro gli alberi e armato di fucile, scambiò il vigile in uniforme per un nazista che mio zio riportava sul luogo della strage per poi ucciderlo con una pistola e vendicare così la morte dei suoi genitori. Vassalle fu tenuto sotto tiro per un tratto di mulattiera e sarebbe stato sicuramente ucciso qualora avesse fatto un gesto interpretato come ostile nei confronti del Guidi14. In questo periodo, anche l’aspetto poteva giocare a favore o contro: la casualità e l’incertezza erano la regola. Fortunosamente, dopo la pietosa opera di seppellimento i due uomini erano poi ritornati.”
In località Bocchette – dove i quattro superstiti Bonuccelli (Renato con padre, nonno e zio) sarebbero rimasti poco più di un mese – anche delle truppe germaniche stavano stazionando in attesa del ritiro verso nord, effettivamente avvenuto dopo la metà di settembre. Queste appartenevano alla Wehrmacht cioè l’esercito di difesa tedesco, così denominato dalla riforma militare, risalente al 1935; alcuni componenti quei reparti militari si rapportavano pacatamente verso i residenti e qualcuno, probabilmente altoatesino ovvero sudtiroler, si intratteneva volentieri a parlare in italiano, e diceva apertamente di reputare ‘esaltate e pazze le SS’. Tuttavia, Sant’Anna non era mai stata citata in loro presenza giacché una latente diffidenza permaneva fra le parti. Così ribadisce Renato Bonuccelli: “Chi avrebbe potuto assicurare di non avere davanti una spia nazista? Inoltre – prosegue il nostro testimone – molti tedeschi ritenevano gli italiani dei traditori”. In particolare, ne ricorda uno il quale “si era mostrato sempre altero e taciturno quando andava nel frutteto per rifornirsi di pere; però, un giorno ritornando dal campo con il canestro vuoto, poiché tutti i frutti ormai maturi erano già stati raccolti (14), era passato davanti ai contadini e li aveva apostrofati con uno spezzante: italiani tutti merde!”.
Per alcune settimane i Bonuccelli superstiti si erano trattenuti in quella località per esporsi il meno possibile e avere la quasi certezza di reperire, intorno casa o fra i campi, qualcosa da mangiare pur dovendo stare in costante allarme per schivare i reparti nazi-fascisti operanti in zona.
“Un tardo pomeriggio di settembre – lui ci illustra – il solito passa parola avvisò che una pattuglia tedesca era in perlustrazione nella zona. Immediatamente mio padre, lo zio Amerigo ed io ci andammo a nascondere in una zona del frutteto dove le piante erano talmente fitte da sembrare quasi una boscaglia. Guardando per terra, notai proprio sotto i miei piedi due fili elettrici rossi, tipici delle linee telefoniche dei tedeschi15 e lo segnalai a mio padre. Subito ci spostammo in una fossa vicina e ci acquattammo. Di lì a poco, una pattuglia della Wehrmacht transitò proprio dove prima eravamo per controllare l’integrità della linea”.
Questo piccolo evento induce a considerare le condizioni in cui italiani e tedeschi sopravvivevano: il colpo d’occhio di quel bambino aveva salvato probabilmente la vita agli adulti, in quei mesi costantemente affidata alla casualità degli eventi favorevoli o sfavorevoli; mentre alcuni reparti tedeschi, pur disponendo di tecnologie o prodotti innovativi utilissimi – come già risultava dallo impiego di un primitivo tipo di plastica come isolante dei fili telefonici – dovevano al contempo diffidare degli italiani nonché stare sulla difensiva poiché versavano ormai in carenza di rifornimenti: dal carburante, agli esplosivi, agli alimenti già di cattiva qualità.
Intanto le voci sui progressi territoriali alleati si facevano sempre più insistenti, mentre la controffensiva tedesca e della RSI stava perdendo di intensità stando ormai sulla difensiva. Pertanto, le armate tedesche avevano iniziato a ritirarsi verso nord durante la prima settimana di settembre16; mentre gli ultimi reparti – fra cui c’erano i guastatori – avevano abbandonato le loro postazioni versiliesi successivamente alla notte fra il 12 e il 13 settembre; ovviamente, dopo avere sabotato la ferrovia e il locale campanile nonché avere minato, dove possibile, anche ogni ponticello sui vari fossi o altre canalizzazioni. Malgrado questo loro disperato sforzo difensivo, le truppe alleate avevano già oltrepassato il fiume Serchio tra il 15 e il 16 settembre ed erano poi velocemente giunte in Versilia: il tratto costiero appartenente alla provincia di Lucca.
Questa striscia di terra stretta fra le erte Alpi Apuane e il mare – caratterizzata da una serie di corsi d’acqua prevalentemente torrentizi, da dossi naturali, da dune marine o da avvallamenti in gran parte occupati da stagni e laghi progressivamente ridotti o prosciugati dopo il tardo medioevo – era stata bonificata nei secoli più recenti dalle canalizzazioni realizzate da Pisani, Lucchesi e Fiorentini17 .
Essa era ed è tuttora percorsa soltanto da due corsi aventi carattere fluviale oltreché da una rete di fossi e rii: questi, privati dei ponti in massima parte distrutti dai guastatori tedeschi, erano stati valutati da loro quale utile ostacolo all’avanzata dei carri-armati americani. Probabilmente così sarebbe risultato. Sennonché la fanteria motorizzata americana disponeva abbondantemente di agili ed efficaci mezzi: le jeep a quattro ruote motrici e talvolta pure cingolate; le manovre delle quali si erano trasformate, per gli abitanti rimasti, quasi in uno spettacolo. Così, la gente – sempre più rasserenata dal loro arrivo – accorreva quasi per assistere a quel loro modo di avanzare: allorché un reparto USA incrociava un corso d’acqua da superare un sergente del genio-fanteria faceva creare due o tre buchi in prossimità dell’argine, vi faceva inserire dell’esplosivo e innescava la carica; urlava qualcosa in americano e si sbracciava verso le persone accorse per farle allontanare, poi faceva deflagrare la carica e subito dopo l’esplosione scendeva sul terreno che aveva smosso e guadava a piedi il corso per far scavare altre due o tre buchi nell’altro argine; faceva ripetere le solite operazioni per ottenere il cedimento dell’argine anche sull’altra parte, poi lo risaliva per visionare la strada o il viottolo che costeggiava quel fosso, giusto per essere quasi certo sulla inesistenza di mine anti-carro o anti-uomo. Infine, lui dava il segnale agli autisti i quali, guidando con perizia le prime jeep, scendevano nell’alveo con sicurezza per risalire l’argine opposto 18.
Ultimato il transito di quelle insolite auto cariche di sei soldati – dotate tutte di quattro ruote motrici e capaci, al contempo, di ampliare il varco e compattare la terra smossa dall’esplosione – le autoblindo, seguite poi dai carriarmati meno mastodontici, cominciavano a muoversi: si avvicinavano sino al bordo di quella specie di rampa, costituita da terra smossa e poi pressata, per prendere a occhio le misure e inclinarsi prudentemente verso l’alveo e, infine, sfruttare la massima potenza per risalire dall’altra rampa e stabilizzarsi nel campo oltre la strada.
Ogni persona presente aveva guardato prima con perplessità e poi con malcelato compiacimento quelle operazioni; alla fine, riemerso da quel vallo l’ultimo mezzo blindato che aveva affiancato gli altri già parcheggiati in un campo coltivato a frutteto, un bambino meravigliato e contento aveva battuto le manine: conseguentemente, un applauso era scoppiato pure fra gli adulti19. I soldati erano allora usciti dai loro mezzi e avevano cominciato a sorridere; le persone presenti pure e si erano avvicinate rassicurate circondando quei militari sorpresi e sorprendenti: loro erano arrivati quali nemici e poi avevano cominciato a distribuire anche del cioccolato e a ricevere fiaschi di vino; così in pochi secondi i motori erano stati spenti.
I reparti americani, inoltre, erano arrivati sicuri dei propri mezzi: dove avevano trovato qualche piccolo ponte carrabile ancora utilizzabile lo avevano sfruttato, però erano pochissimi quelli non distrutti e ancora meno quelli capaci di sorreggere i mezzi corazzati più pesanti; cosicché altri reparti erano sopraggiunti quasi subito, forse i genieri e molto attrezzati.
Questi risultavano muniti di camion enormi in grado di trasportare o trainare altri macchinari meccanici di dimensioni mai viste prima in Italia: dei “mega bulidozers”, martelli pneumatici, possenti schiacciasassi, benne gigantesche o addirittura delle inchiodatrici; gli adulti erano rimasti sorpresi dagli equipaggiamenti di cui anche la truppa era dotata: “guarda questi soldati come sono signorini” – ricorda Bonuccelli riportando un loro stupefatto commento – “per lavorare sono avvezzi a indossare anche i guanti!”. Lui e gli altri bambini, invece, erano rimasti colpiti dalla rapidità di costruzione di un ponte: la terra e i sassi rapidamente spostati o pressati per la massicciata, l’arcata innalzata soltanto grazie a strumenti meccanici, gli assi e le tavole aventi un palmo di spessore ricavati da un inatteso e per loro immaginifico gigantesco tronco di legno rosso.
La guerra in Versilia, cioè a sud della Linea Gotica, stava per concludersi; le città di Viareggio, Camaiore, Pietrasanta, Forte dei Marmi e Seravezza erano e liberate fra il 15 e il 20 settembre 1944; mentre le città ubicate a nord della medesima avrebbero dovuto attendere la primavera del 194520.

C) La cognizione sull’eccidio di S. Anna di Stazzema
Questo testo è largamente debitore della cortese disponibilità al racconto di quanto vissuto personalmente da Renato Bonuccelli: testimone oculare di riferimento per il Tribunale militare di La Spezia e fra i pochissimi sopravvissuti a una delle varie stragi perpetrate sabato 12 agosto 1944 da alcune squadre nazi-fasciste nelle borgate circostanti Sant’ Anna di Stazzema. Inoltre, approfittando di una amicizia che decorre da decenni, chi scrive si è permesso di formulare ulteriori quesiti – anche personali – correlati alla medesima.
Innanzitutto, alla domanda su quando aveva ripreso a parlare dopo la strage, se i familiari ogni tanto la richiamavano e perché il silenzio era calato sulla strage di Sant’Anna, rimasta nell’oblio per molto tempo, lui risponde: “il mio mutismo durò poche ore; ma in casa si ricordava Sant’Anna raramente e sempre senza entrare in particolari”.
Anche in Versilia si parlò poco della strage per quasi un decennio finché i pochi santannini rimasti in paese, ormai quasi deserto e senza vie di comunicazione, decisero di fare un gesto eclatante: se nessuno si interessava di loro, era inutile che partecipassero alle votazioni e riportarono in Comune tutti i loro certificati elettorali, rinunciando al voto. Questa protesta trovò vasta eco nella stampa locale e fu ripresa anche da qualche quotidiano nazionale. In merito, Renato Bonuccelli evidenzia: “ancora alla fine degli anni Cinquanta tuttavia, in La Gazzetta delle vittime civili di guerra, quindi un periodico ‘specializzato’, a una lettrice che chiedeva notizie sulla strage di Sant’Anna dove aveva perso dei parenti, quella redazione rispondeva che non aveva notizia di tale eccidio. La ‘Gazzetta’ rimediò poi dedicando all’eccidio l’intero numero successivo, utilizzando ampiamente la documentazione che avevo inviato alla redazione per raccomandata”.
I motivi del silenzio sull’eccidio erano molteplici: per reticente pudore o per rabbia delle persone sopravvissute; nonché per ignoranza del fatto e altresì per opportunismo politico: nessuna delle parti pareva avere interesse a mettere in luce qualche lato oscuro delle rispettive condotte né a indagare sui motivi che l’avevano causata, sulla partecipazione ad essa di connazionali o sui particolari poco chiari della vicenda. In effetti, per alcuni anni, gli stessi santannini avevano mostrato una diffusa insofferenza rivolta verso le commemorazioni in onore delle brigate partigiane; in merito, il nostro testimone constata come questo “risentimento verso i partigiani fu comune a quasi tutti i santannini, perché i primi venivano, almeno in parte, ritenuti responsabili della strage per alcune operazioni che avevano suscitato la reazione dei tedeschi e soprattutto per aver abbandonato il paese nonostante la promessa di difenderlo. Durante le celebrazioni del primo anniversario della strage, nel 1945, la loro partecipazione fu addirittura impedita dalla popolazione”.
Soltanto durante gli ultimi decenni, la strage è stata sistematicamente ricordata e divenuta progressivamente un evento sempre meno divisivo.
Le informazioni su questa tragica vicenda sono state progressivamente pubblicate dalla carta stampata e dalla televisione, tanto a livello locale quanto nazionale; pertanto, è sembrato opportuno chiedere a Renato Bonuccelli se ritiene che ciò sia avvenuto sempre in modo corretto e diffuso anche in ambito scolastico. Al riguardo, emergono alcune sue distinzioni. “Diverse volte le notizie diffuse dalla stampa sono state sommarie e non rispondenti alla realtà. In un volumetto edito verso il 1950, fu scritto che io ero riuscito a salvarmi ‘saltando da una finestra’ e tale versione divenne la vulgata per diverso tempo. Alla presentazione di un libro, non ricordo quale poiché sono trascorsi parecchi anni, l’autore affermava perentoriamente che a Sant’Anna i lanciafiamme quel giorno non c’erano e non ci potevano essere, dando praticamente del visionario a chi lo aveva detto e, allora, io lo avevo dovuto apostrofare ricordandogli: ‘Lei non c’era. Almeno stia zitto!’. In altri casi, alcuni cittadini pur essendo assenti quella mattina, si sono prodigati per salvare e diffondere la memoria di quella strage. Duilio Pieri, che nell’eccidio perse diversi familiari (lo ricorda anche la lapide sulla facciata della sua vecchia dimora) fu tra i santannini colui che più si attivò per far conoscere l’eccidio, promuovendo varie manifestazioni e proteste, poi riportate dalla stampa, per far costruire la strada carrabile che togliesse il paese dall’isolamento, oggi a lui intitolata. Alla sua morte, il posto quale memore attivista dell’eccidio era stato assunto dal nipote Enrico Pieri, recentemente scomparso. Tra coloro che maggiormente hanno contribuito diffondere quanto avvenuto a Sant’Anna si ricordano: il regista camaiorese Giuseppe Santini – paracadutato in Versilia quale agente dell’OSS (Office Strategic Service) ossia del servizio segreto americano, incaricato del collegamento fra le forze della Resistenza e gli Alleati, il quale – negli anni Sessanta – realizzò il primo documentario su Sant’Anna diffuso dalla RAI; l’onorevole Carlo Carli primo firmatario della legge istitutiva del Parco della Pace; il santannino Ennio Mancini, superstite della strage, che ha dedicato una vita ad illustrare ai visitatori del museo quanto era avvenuto il 12 agosto 1944; infine il dott. Marco de Paolis, Procuratore Generale Militare che ha condotto le indagini militari sui responsabili dell’eccidio. Ultimamente, infine, hanno fatto ricerche approfondite sul caso portando alla luce inediti documenti il professor Marco Piccolino e il dottor Luciano Alessandrini.
Riguardo alla scuola, a volte, alcuni colleghi e studenti si erano rivolti a me per acquisire qualche precisa informazione; conseguentemente, organizzai presso l’istituto dove insegnavo anche alcune visite a Sant’Anna, ma poi cessai l’occasione solo per fare una scampagnata ed ascoltare da un mangianastri musica a tutto volume.”
Poi sollecitato da altre domande, ha aggiunto: “Sono stato intervistato diverse volte da cronisti delle reti locali e nazionali. Partecipai anche alla realizzazione del primo cortometraggio in B/N (Sant’Anna venticinque anni dopo) del regista Giuseppe Santini, per conto della RAI. Un articolo con fotografie del giornalista Ranuccio Bastoni che narra delle mie vicende fu pubblicato sul settimanale Gente n. 42 del 16/10/2012; inoltre, diverse notizie che mi riguardano sono riportate in varie pubblicazioni”.
Sicuramente, la testimonianza diretta e fondata come quella che qui è stata raccolta, grazie alla disponibilità di Renato Bonuccelli, dovrebbe consentire una più chiara lettura nonché una maggiore comprensione dell’effettivo contesto e degli eventi sopra descritti.
Questo testo non ambisce, infatti, a fornire certezze assolute; semmai, mira a fornire informazioni attendibilissime e talvolta inedite; inoltre, auspica di riuscire a smussare la residua reticenza a riconoscere e a discutere su alcuni comportamenti delle varie parti in conflitto nonché a indagare su tutte le cause possibili e sulle obiettive responsabilità delle condotte riscontrabili durante l’eccidio; magari tramite modalità avulse da pregiudiziali politico-ideologiche contrapposte. Al riguardo, tuttora, si ha la percezione che gli interessi di vari Stati – allora in conflitto – avevano indotto a evitare la emersione di alcune condotte e di alcuni eventi oltreché le correlate interpretazioni connesse ai decenni condizionati dalla c.d. “guerra fredda”; oppure a evitare di scoperchiare vicende configurabili come atti di terrorismo o crimini di guerra commesse da reparti militari o da bande armate in attività sui vari fronti di guerra, occidentali o orientali. Vicende che potrebbero comportare – se abbandonate a una prospettazione manipolata – un sostanziale revisionismo anziché acclarare e sopire le conflittualità documentali e analitiche connesse a una visione preconcetta. Qui si auspica di avere garantito, invece, una cognizione imparziale.

Note

  1. Così raccontavano anche i coniugi Pietro Pardini e Linda Tonini; i quali avevano dovuto convivere con i reparti nazisti che – crollata la Linea Gustav e dunque posti a edificare e difendere la Linea Gotica – avevano occupato, da inizio agosto 1944 a metà settembre 1944, la casa dove la coppia abitava con l’intera famiglia a Capezzano Pianore. Qui, essa era rimasta poiché entrambi insegnanti presso la locale scuola elementare. Con tali truppe, la coppia aveva dovuto condividere anche i prodotti del proprio orto “di guerra” e il pollaio che opportunamente non avevano dismessi.
  2. Vedi, più dettagliatamente, la nota 1 del precedente articolo sul n° 52 di Bibliomanie.
  3. Questo tipo rastrellamenti avvenivano abbastanza spesso: ovviamente all’improvviso per limitare la possibilità di fuga degli uomini ritenuti validi; per contro, talvolta, queste operazioni erano effettuate da reparti presumibilmente composti da personale non addetto alla prima linea o da militari anziani o da giovani, talvolta anche da soldati di paesi cobelligeranti. Anche Pietro Pardini, nonno di chi scrive, raccontava di essere stato costretto a seguire uno di questi reparti diretti in direzione nord; durante la prima sosta aveva prestato attenzione ai brevi dialoghi fra i soldati in divisa germanica e inteso che qualcuno non era tedesco e ne aveva osservato i lineamenti e l’espressione; perciò, alla successiva sosta effettuata all’imbrunire, si era seduto vicino a uno di questi soldati e aveva sfasciato una sua gamba, esponendo così un polpaccio che mostrava – dalla fine della Prima Guerra Mondiale – evidenti vene varicose, dovute forse a marce e posizioni erette prolungate. Quel soldato, notata quella gamba e scambiato uno sguardo con mio nonno, gli aveva fatto un fugace cenno del capo e al momento di ripartire si era alzato guardando in altra direzione, consentendo a lui di rotolarsi in una gora per la irrigazione agricola, umida e motosa: mio nonno ne aveva subito approfittato per imbrattare di fango le mani e il volto per meglio mimetizzarsi e sfuggire a eventuali occhiate di un qualche soldato che scortava quella moltitudine di uomini alla ricerca di una occasione analoga. Infatti, come lui raccontava, i soldati di scorta marciavano eretti, silenti, con uno sguardo fisso in avanti, quasi assente: probabilmente si preoccupavano soltanto di procedere verso nord e con il desiderio di riavvicinarsi alle loro terre di origine.
  4. Le autorità militari avevano affisso almeno due bandi, poi sostituiti poiché probabilmente o asportati da civili o avvicendati dalle stesse autorità. Obbedendo all’ordine di sfollamento, alla fine di luglio anche la famiglia Bonuccelli aveva Lasciato la casa di Sant’Anna e si era rifugiata in un metato in località Argentiera. Poi dopo due o tre giorni, in seguito alle assicurazioni date da persone che avevano contattato il comando tedesco era tornata a Le Case
  5. Manifestino datato 29 luglio 1944 e attribuito ai partigiani; confermato da Renato Bonuccelli
  6. Evidente pure in questo caso la collaborazione finalizzata ad assicurare un nascondiglio il meglio occultato possibile, fra il proprietario e molti santannini, con chi notoriamente non nutriva simpatie per il regime della Repubblica Sociale Italiana.
  7. In Versilia, il turismo marino si era sviluppato sino dalla fine del 1800; perciò i residenti erano abituati a incontrare dei turisti (ovvero i cd. primi “bagnanti”) provenienti dalla Toscana interna, ma pure da Milano o Torino oppure giunti dall’estero per motivi artistici o per l’acquisto di marmo – rispettivamente a Pietrasanta o a Seravezza – ovvero per accedere alle già prestigiose barche prodotte nei cantieri navali di Viareggio. Inoltre, tutte le famiglie in cui qualche componente aveva effettuato studi medi o superiori, disponevano di chi aveva studiato il francese all’epoca considerato la lingua internazionale; mentre i più giovani avevano studiato un po’ di tedesco, anche a seguito degli accordi intercorsi fra Mussolini e Hitler. La nonna di Renato Bonuccelli, invece, conosceva un po’ di tedesco poiché per alcuni anni si era recata a Schwarzau, in Austria. al seguito dei principi di Borbone; infatti, questa antica famiglia aveva in Versilia più abitazioni di cui due di rappresentanza: una villa nella pineta fra Viareggio e Torre del Lago (ramo Borbone-Asburgo) e un palazzo a Capezzano Pianore (ramo Borbone-Parma).
  8. “Questa borsa, con il suo contenuto, poi perduta mentre correvo verso il rifugio di mio padre – Renato ricorda adesso – fu restituita alcuni giorni dopo ai superstiti della mia famiglia da oneste persone che l’avevano ritrovata con all’interno anche le carte d’identità dei proprietari”.
  9. Alla domanda su come e quando era riuscito a metabolizzare poi gli eventi e le immagini della strage, Renato Bonuccelli ha risposto: “Penso dopo il 1964; quando, in occasione del ventesimo anniversario, tornai sul luogo dell’eccidio”
  10. Nessuna forma di comunicazione era possibile, perciò sino al pomeriggio di quel sabato, nessuna notizia su quella strage era trapelata nella pianura versiliese, poiché dal fumo che si levava dal paese si capiva solo che stavano bruciando delle case
  11. Alcuni reparti si erano limitati poi a una attività iniziale di perlustrazione senza compiere neppure un omicidio; un altro reparto, invece quattro giorni prima, aveva sterminato alcune diecine di persone reputate sostenitrici della Resistenza, compreso il parroco in località Molina, nella cui chiesetta delle armi da fuoco sarebbero state rinvenute.
  12. Secondo la vulgata più diffusa, le vittime supererebbero le 560 unità; per i giudici del Tribunale militare di La Spezia, le vittime accertate di quella strage sarebbero 368.
  13. L’attuale Valdicastello Carducci – paese natale del poeta premio Nobel, così denominato dopo la fine della guerra – fa parte del Comune di Pietrasanta. Esso si trova a sud-ovest di S.Anna di Stazzema ed è prossimo all’allora strada provinciale Sarzanese oltreché alla Pieve di S Giovanni e S,Felicita; la cui competenza si estendeva su gran parte del territorio attualmente corrispondente alle frazioni di Capezzano Pianore e Lido di Camaiore sino al lodo di Papa Leone X° che, nel 1512, aveva sancito l’accordo sui confini versiliesi fra Lucca e Firenze.
  14. Il nostro testimone racconta che Tommaso Vassalle mosso da simpatia o da pietà cristiana o poiché milite della Misericordia di Viareggio, si offri spontaneamente per partecipare all’operazione. Dettaglio da segnalare, poiché entrambi potevano essere notati e interrogati da reparti nazi-fascisti o da partigiani e quindi essere positivamente o negativamente valutati; e così pure da eventuali vendicativi cecchini dell’una o dell’altra fazione.
  15. I tedeschi usavano già allora come isolante materiale simil-plastico, diversamente dagli americani che usavano ancora gomma e cotone.
  16. Le famiglie aventi la propria abitazione occupata da reparti della Wehermacht erano state solitamente avvisate della loro partenza imminente, con il preavviso che sarebbero subentrati i reparti dei guastatori per il tempo necessario. Mio nonno aiutato da due uomini, di cui uno pittore spezzino e suo ospite riuscì a scavare una piccola trincea e una fossa in cui mise l’unica vetrina non distrutta dai guastatori; vi pose dentro tutti i valori ancora disponibili in casa e riuscì a coprire il tutto tramite zolle di terra, tronchi, rami, fieno e frasche. Durante le notti dei giorni 11, 12 e 13 settembre si rifugiarono in quel manufatto mentre i guastatori provvedevano a minare ogni ponte, la ferrovia, il campanile e ogni altro immobile da loro ritenuto potenzialmente utile al nemico in arrivo; in quei giorni avevano distrutto inoltre quasi tutti i mobili della famiglia: per rabbia o per dispetto e ogni tanto lanciavano anche una bomba a mano fra le contadine e i contadini al lavoro nei campi limitrofi: soltanto per divertirsi a vederli scappare impauriti.
  17. La Versilia aveva assunto tale denominazione dai tempi dei Longobardi; essa deriva infatti dal ceppo linguistico sassone, in particolare dall’antico germanico wesser, cioè acqua; parola che, tramite una dissimilazione consonantica, si è trasformata nell’alto medioevo in “versilia”. Le cittadine di Camaiore e Pietrasanta erano state dichiarate libere, poiché ormai in mano ai partigiani, rispettivamente il 17 e il 18 settembre 1944.
  18. Quello qui considerato è il rio Paduletto, proprio in prossimità della abitazione dei maestri Pardini appena abbandonata dai guastatori tedeschi; la maestra, che aveva conteso – a suo rischio – i prodotti del suo orto ai soldati tedeschi e presente a quell’evento liberatorio, lo avrebbe raccontato ogni anno ai suoi successivi alunni mimando con le braccia il movimento dei cavalloni: ovvero, come le jeep avevano disceso un argine sino all’alveo per attraversare, senza problemi, la corrente dell’acqua e risalire dal fossato riemergendo una dietro l’altra e agevolmente dall’argine contrapposto, benché ripido.
  19. Allora, uno dei contadini anziani si era rivolto al maestro Pardini proprietario di quel terreno, parzialmente occupato da alcuni mezzi militari americani, e – con un tono rispettoso, ma intermedio fra un ordine e una richiesta – aveva quasi urlato: “o Vo’ ditegli che ora devono scende, s’ha da mangià e beve!”. Forse dava per scontato che lo stesso maestro, avendo studiato per alcuni anni alle scuole superiori, avrebbe parlato anche in americano. Comunque, individuato il comandante, lui gli aveva tradotto quel sollecito in francese con tre parole essenziali: “venez manger et boire”, risultate sufficienti per capirsi; difatti, l’ufficiale americano aveva tradotto e si era rivolto a tutti i sottoufficiali e questi ai loro subordinati.
  20. Tuttavia, nelle zone di Massa e Carrara, i reparti della Resistenza avevano raggiunto una organizzazione e una dimensione già sufficienti a condizionare le decisioni civili e militari delle autorità tedesche o a imporne il riconoscimento formale: per esempio, nei casi di scambio dei prigionieri con le autorità nazi-fasciste o nel trattenimento pre-comunicato di ulteriori soldati tedeschi poi restituiti alle autorità alleate. Massa e Carrara erano state liberate rispettivamente il 10 e l’11 aprile 1945.

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