Bibliomanie

La grammatica della rovina
di , numero 57, giugno 2024, Letture e Recensioni, DOI

La grammatica della rovina
Come citare questo articolo:
Matteo Bensi, La grammatica della rovina, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 27, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11480

La recente pubblicazione di Matteo Marcheschi, Storie naturali delle rovine. Forme e oggetti del tempo nella Francia dei Philosophes (1755 1812), Carocci editore 2023, ha un duplice campo di indagine: uno più circoscritto e documentatissimo, di carattere storico-filosofico, e uno più largo, che descrive un itinerario filosofico-teoretico. Il primo attraversa alcuni testi fondamentali della Francia dei philosophes nell’intervallo temporale che va dal terremoto di Lisbona (1755) alla pubblicazione delle Recherches sur les ossements fossiles de quadrupèdes di Couvier (1812); il secondo dà l’abbrivio per una riflessione sulle forme di rappresentazione del tempo e della storia che oltrepassa i limiti dell’epoca in cui è inscritto.
Il mezzo di contrasto del primo e del secondo campo dell’indagine di Marcheschi è la rovina. Gli effetti terribili del terremoto di Lisbona da una parte, e lo stupore, quasi contemporaneo, della scoperta degli scavi di Ercolano e Pompei, dall’altra, portano sulla scena del Settecento europeo la rovina, che quel Settecento lo apre, squarciandone l’idea di tempo e di storia.
La rovina per Marcheschi non è un oggetto, ma una forma che ha la capacità di far transitare significati e di mettere in relazione frammento e intero, presente e passato, memoria e oblio; in questo senso la rovina ha una consistenza non solo metonimica, della parte che significa il tutto, ma anche metaforica, perché attraversa i limiti del tempo, presentandosi come il residuo attivo di una temporalità irreversibile. Irreversibili sono gli effetti di un terremoto e dell’eruzione di un vulcano, eventi che sovrappongono il tempo naturale e il tempo storico e sostituiscono prepotentemente l’immagine del movimento ripetuto e ciclico della natura che non facit saltus, con quello unico e catastrofico della storia.
Se la natura procede come la storia, linearmente, anche la storia può modellarsi sulla natura. È quello che accade con la Rivoluzione francese, che stabilisce intenzionalmente un nesso cognitivo tra rivoluzioni naturali e politiche, assumendo come sua metafora auto-interpretativa l’incommensurabilità di un tempo che inizia sempre di nuovo, come una catastrofe costante. Così facendo perde di vista la dimensione antiquaria della presenza della rovina. La Rivoluzione non sa delle sue rovine mentre si fa, manca la distanza.
Dell’intreccio tra storia civile e storia naturale sono testimoni Buffon e Boulanger. Il primo, nell’apertura de Le epoche della natura (1778), stabilisce un confronto tra le medaglie e le iscrizioni della storia e quelle della natura: «Come nella storia civile si consultano i documenti, si ricercano le medaglie, si decifrano le antiche iscrizioni, per determinare le epoche delle rivoluzioni umane e verificare le date degli eventi morali; così nella storia naturale si deve rovistare negli archivi del mondo, si devono estrarre dalle viscere della Terra i vecchi monumenti, raccogliere i loro resti per poter stabilire le differenti stagioni della Natura».
È curioso che lo stesso paragone tra storia civile e storia naturale lo proponga anche Giambattista Vico – al di fuori del campo della ricerca di Marcheschi – con uno spostamento epistemologico, però: la nuova scienza di Vico non è storia della Natura, e neppure storia civile nel senso di Buffon; è bensì filologia critica, e ha come oggetto le favole, vera narratio degli Autori delle Nazioni gentili: «le Favole, che sono le medaglie de’ tempi».
Il mito e le favole sono le medaglie dei tempi e non sapienza riposta; esse devono essere interpretate, esercitando la corretta distanza filologica, come originaria modalità di pensiero dell’umanità ai suoi albori. Dinanzi all’immensa congerie di fatti, frammenti e macerie che queste sterminate antichità possono offrire, lo strumentario della filologia, risemantizzata su nuove funzioni – fanno parte della nuova filologia anche l’epigrafia, la numismatica e la cronologia (Vico, De Constantia) – è il più idoneo a raccogliere le sfide di una nuova scienza.
Così come la Rivoluzione non sa delle sue rovine, perché annulla la distanza prospettica tra l’agente e l’atto rivoluzionario, anche il mito e le favole di Vico, se possono raccontare qualcosa di vero, possono farlo solo dinanzi a uno sguardo che interpreta e non confonde. Un tale sguardo non pretende di oggettivare o di sussumere sotto un concetto il contenuto materiale della rovina, formulando giudizi determinanti sul mondo. La rovina oppone resistenza, è una finalità senza un fine, chiede di essere interpretata, come un geroglifico e una metafora.

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