Bibliomanie

Tra le pieghe sonore del potere: risonanza e ascolto in ‘Un re’ di Manganelli e ‘Un re in ascolto’ di Calvino
di , numero 57, giugno 2024, Didactica, DOI

Tra le pieghe sonore del potere: risonanza e ascolto in ‘Un re’ di Manganelli e ‘Un re in ascolto’ di Calvino
Come citare questo articolo:
Lorenzo Demma, Tra le pieghe sonore del potere: risonanza e ascolto in ‘Un re’ di Manganelli e ‘Un re in ascolto’ di Calvino, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 41, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11647

1. Introduzione
La predominanza dell’opticentrismo nella cultura occidentale ha da sempre esercitato una grande influenza nel modo di rappresentare il legame tra soggetto e mondo. Nella tradizione letteraria, la tendenza a enfatizzare la vista come strumento cognitivo primario e razionale, attraverso il quale gli esseri umani percepiscono e comprendono la realtà che li circonda, ha reso le descrizioni e le metafore visive il mezzo fondamentale per narrare storie e costruire significati. Tuttavia, questa centralità assegnata alla rappresentazione del visibile implica una gerarchizzazione che svaluta o marginalizza altri modi di conoscere e di rappresentare. Se infatti il visibile è considerato presente, stabile e significativo, tutto ciò che è al di fuori di questa logica è relegato all’assenza, all’indeterminazione o all’insignificanza e quanto di più sfugge alla piena presenza e chiarezza della vista è la realtà sonora:

«In effetti, la sonorità è naturalmente caotica mentre la visibilità è naturalmente cosmica. La virtù cosmica del visibile si impone a noi poiché è l’occhio che proietta ordine nella realtà circostante. Il rumore, d’altra parte, rimane sempre caotico anche se ci rimanda a una fonte, per esempio una voce o uno strumento1

Nella nostra letteratura contemporanea non sono mancati autori che hanno problematizzato e messo in crisi la percezione visiva e si sono confrontati con quest’altra realtà profondamente caotica2. Un caso esemplare ci appare quello di due testi legati da un rapporto di gemmazione e dotati di un corredo tematico molto particolare, che ha nel suo centro proprio il mondo dell’udibile e che connota entrambi i protagonisti: due sovrani, all’ascolto maniacale del loro regno. Si tratta del racconto di Giorgio Manganelli Un re, presente all’interno di Agli dèi ulteriori (1972) e del racconto di Italo Calvino Un re in ascolto scritto tra il 1979 e il 1984 e presente nella raccolta postuma Sotto il sole giaguaro (1986). Tra i due testi vi è una grande affinità nella quale è possibile individuare un comune nucleo epistemologico, ispirato dal paradigma indiziario della traccia3, tramite il quale si sviluppa un’indagine sulla complessità dell’esperienza sensibile, condotta attraverso il senso dell’udito.

2. Manganelli e la musica
Per quanto riguarda Giorgio Manganelli, la sua relazione con il mondo sonoro ci appare oggi lunga e proficua. Numerosi studi hanno permesso di portare alla luce quel mondo dei suoni e delle strutture musicali che hanno agito da nuclei fondamentali nella sua scrittura. Tuttavia, bisogna evidenziare come questo grande legame con la musica, dimostrato da una discoteca «non meno ricca della biblioteca conservata nel Fondo pavese4», sia passato per parecchi anni sottotraccia in ogni forma di discorso praticato in pubblico da Manganelli5. Certamente aveva già disseminato nei suoi scritti una particolare sensibilità verso la tematica dell’ascolto, fin dal primissimo Iperipotesi del 1963, ma sarà solamente con la serie di interviste radiofoniche rilasciate all’interno della rubrica di Paolo Terni nel luglio del 19806 che parlerà direttamente di musica. Continuerà poi come osservatore critico scrivendo articoli a tema musicale7, ma questa inclinazione verso il sonoro diventerà sempre più riconoscibile nella forte incidenza con la quale ha operato nel suo pensiero letterario8.
Indubbiamente, tale tendenza era presente già ai tempi della sua terza pubblicazione del 1972, Agli dèi ulteriori, dove Manganelli prosegue il suo percorso di sperimentatore di fantasie inconsuete. Dopo essere sceso nella virtus “discenditiva” di Hylarotragoedia, abisso in cui ha proiettato i valori sacrali e mitici della letteratura9, risale in questo libro parlando la voce dei morti, la “tanatocomunicazione”, la grande finzione con cui tenta di sfuggire «a ogni forma che rassomiglia a sagoma di individuo, lasciandosi in quelle libere evoluzioni nel vuoto che vorrebbero obbedire solo a leggi retoriche10». Una finzione portata all’estrema menzogna in quanto rappresentazione rigorosamente senza referenti, che trionfa in Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, indubbiamente il più emblematico dei pezzi raccolti nel volume, dove i referenti sono appunto i defunti, tramite i quali l’autore cerca di esprimersi. Parla attraverso la loro lingua congrua ad una non-esistenza, «difforme da qualsivoglia lingua terrena, e in ogni modo a noi inintelligibile11» e che si espande anche negli altri cinque pezzi. Un libro, dunque, che ci proietta nell’irrappresentabile, che gorgoglia in un pirotecnico spettacolo verbale; siamo nel regno della simulazione e non a caso Simulazioni è proprio uno dei titoli dei sei racconti. Ma è a nostro parere nel primo dei racconti, Un Re, ad emergere una particolare cifra che adotta Manganelli nella sua contestazione alla letteratura: lo sproloquio, la lingua con cui l’inferno arriva in superficie, qui in forma di monologo interiore o flusso di coscienza. Uno sproloquio che Walter Pedullà nella sua indagine sulla letteratura degli anni Settanta riconosce nella “parola inopportuna”:

«che pare sia immancabile, secondo Bachtin, in ogni letteratura che, come la satira menippea di tutti i tempi, vuole smascherare il decoroso, il classico, il ben fatto, il rifinito, attraverso parole e idee scandalistiche e bruschi contrasti e stridenti combinazioni12

“Parola inopportuna” spiega Pedullà per via della sua «cinica franchezza, o per il profanante smascheramento del sacro, o per la brusca violazione dell’etichetta13». Ebbene tutti questi tre aspetti ci sembrano confluire nella prosa barocca di questo racconto, questo delirio mosso dal “sovrano letterato”14.

3. Il Re di Manganelli: suoni e gerarchia nella reggia barocca
Il protagonista ed unico personaggio dello sproloquio è appunto un re, che abita al centro di una reggia, una sorta di «allucinazione elaboratamente arredata15», dall’interno della quale tenta di esplorare la propria condizione di sovrano. In questo testo non vi è intreccio narrativo, che cede invece il passo al percorso che compie il pensiero del re, il quale si sviluppa attraverso una serie di ipotesi, sotto-ipotesi, inserti, dettagli; la forma cioè dello «pseudo-monologo teatrale, affannosamente fatico già sperimentato con Iperipotesi16». Come si svolge allora questo pensiero-sproloquio? Abbiamo una voce narrante circoscritta in una solitudine assoluta e meditante, dalla quale sgorgano una serie di immagini «un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce mai di stupirmi17». Il re è disteso nel suo grande letto deserto, siamo nella regalità totale, il centro assoluto della reggia, e di fatti scaturiscono le immagini di tre animali allegorie del potere regale presentati con una certa serialità. Abbiamo l’aquila, che tutti gli altri animali – suoi sudditi – sorvola e sovrasta, e che agisce sulle sue prede da divino carnefice, innalzandole nel momento della morte alla «vertigine verticale del volo […] che tutta la sua breve e mortificata vita ha insieme paventato e bramato18». Poi è la volta del leone, che con il suo odore di predatore colma «la camera, la campagna, l’intero mondo, il cosmo sa di orina, di erba e di carne maciullata19». Il leone per uccidere chiama la sua preda per nome «solo l’animale che egli divorerà sarà nominato; gli altri, anonimi ed empi, forse meri segni d’aria, inesistenti20» e con la sua bocca «battezza l’animale divorato”21. Infine, il serpente “lungo gelo taciturno e pieghevole22» che «non artiglia né maciulla ma inietta sé stesso; entra come liquido nel corpo della sua preda che perciò partecipa, nel suo morire, alla medesima natura della serpe23». Tra questi tre animali, il serpente svetta per la sua alta simbolicità. Viene descritto come corpo senza forma, che può «avvolgersi come filo d’acqua; può essere una retta totale, coprire di un infinito volume di spire l’intero mondo24». È chiaro, dunque, che non sono animali terrestri quelli rappresentati in questo sproloquio, ma appartengono al mero spazio del pensiero del re, che solo può percepirne l’esistenza. Il loro agire è emblematico: elevazione, battesimo, indiamento della preda che si uccide. Una costruzione del potere regio nella sua forma più spietata, di cui il Re si sente incoronato, infatti i possibili cortigiani da questo re non possono che essere “animali minori” caratterizzati da qualità volgari e abiette, «bruchi, vermi e ragni; costoro non possono essere re, così deformi e notturni25». Sono sudditi pensati, immaginati, modellati, accesi o spenti, mossi o fermati, resi allegri o preoccupati dal re al centro della reggia. A questo punto si apre il vero e proprio esercizio conoscitivo messo in scena dal re; mettersi all’ascolto del mondo circostante, considerare la reggia e tutto ciò che la circonda unicamente attraverso la rappresentazione sonora. Si pone cioè «il problema della trasformazione del mondo attualmente percepito in un mondo obiettivamente reale26». Emettendo un suono, una risata, nello spazio circostante e attendendo il suono di ritorno, il re grazie al suo orecchio trae a sé tutto il percepito al quale è copresente:

«Il mio breve riso suona nella reggia: tutti i metalli ne vibrano, per quanto esso sia sommesso giacché il rame, il bronzo mi amano, lo stagno e il peltro mi ubbidiscono, il ferro e l’acciaio sono felici di servirmi […] essi non lo capiscono, ma sono coinvolti, come in una grande prova di fiducia; sfavillano, sono certo che si nutrono del mio riso27

E ancora:

«Ma ora tutta la reggia è stata commossa, brevemente, e il mio riso mi viene restituito con fierezza […] e io devo accettarlo come un bizzarro dono che uscito da me a me stesso torna, arricchito della complice collaborazione dei metalli cortigiani28

Assistiamo a una pluralità di sorgenti sonore – il re e i cortigiani che rispondono in maniera strumentale o vocale – che non producono suoni in modo isolato, bensì ognuna riconosce i propri suoni e, nel farlo, identifica anche quelli degli altri. Sembra di assistere al concerto barocco con tutti i tratti della serialità leibniziana (o meglio del Leibniz di Deleuze):

«Le fonti sonore sono monadi o prensioni che si colmano di una gioia di sé, di una soddisfazione intensa, man mano che si riempiono delle proprie percezioni e passano da una percezione all’altra. E le note della scala sono oggetti eterni, Virtualità pure che si attualizzano nelle fonti, ma anche Possibilità pure che si realizzano nelle vibrazioni o nei flussi29

Vibrazioni sonore che percorrono l’intera reggia, ispettori senza forma che perlustrano gli angoli più nascosti, la cui finalità si realizza nel toccare tutto ciò che ha un corpo e nel restituire alla propria sorgente «il suo antico consuetudinario segno d’assenso, o anche meno, il riconoscimento di sé come legittimo obietto del riso, forse suo possesso, anzi suo schiavo30». È in questo processo di self-enjoyment con il quale trae da sé tutto il percepito che si concretizza il dominio del re: «Il mio riso avverte l’intera reggia che io sono nella mia stanza, ed esercito il mio potere31». Un potere che si esprime anche nella possibilità di modificare le aspettative dei propri sudditi in base al suono emesso, creare ansie o paure:

«mando un brivido […] e ascolto il suono goffo e spaurito dei metalli; […] Talora mando uno schiocco delle dita che rimbalza villano di sala in sala, o uno scatto di denti che intimidisce l’aria, e sgomenta gli arazzi32

In questa continua modulazione, il suono si è trasformato da oggetto a evento in grado di modificare le reazioni di tutto ciò che lo circonda. A seconda del messaggero sonoro che il re invia piega alla sua volontà lo svolgersi del reale:

«Muta il colore dell’aria, e la temperie del cielo […] Così non solo la mia reggia, ma tutto ciò che è intorno alla reggia si accentra come ruota al suo mozzo, partecipa all’obbedienza della mia regalità […] E tutto ciò che mi circonda mi indaga e mi ubbidisce33

Questo di Manganelli è un sovrano assoluto che ha inserito ogni forma possibile in una gerarchia privata di cui riveste il vertice. D’altronde è egli stesso che ha creato e modellato ogni cosa:

«Tuttavia una esplorazione della reggia sarebbe solo una forma di demagogia, giacché la reggia è stata pensata da me […] io dunque la conosco interamente, sebbene non l’abbia mai percorsa, e mentre io la abito essa mi abita34

Ma di certo la ricerca di Manganelli non conduce alla formulazione di soluzioni rassicuranti e la sua scrittura segna «l’arabesco stesso dell’inesistenza di risposte concilianti e definitive. Il dubbio manipola il senso e lo destabilizza, rendendo la parola uno spazio aperto35». Dopo che il sovrano ha raggiunto l’apice della sua ispezione-costruzione con la quale la reggia è diventata uno «sterminato rudere, quasi non una sola città, ma una regione, un continente36», e in cui ha inserito «ogni forma e simulazione di forma37», comincia ad emergere una paura sottile ma lacerante, il pensiero di un qualcosa sfuggito al suo controllo che corrisponda con maniacale esattezza a «quell’unica forma che io non ho pensato38». La possibilità che possano esistere «lacune della regalità, interruzioni e decadenze39» fa sorgere tutta l’ansia ermeneutica del re, subito concretizzata nell’arrivo del suono estraneo di un’ocarina; un suono che non ha pensato, generato da una fonte che non conosce, un oggetto da poco ma che può intaccare la compattezza della sua regalità. Questo suono infatti va a spezzare quell’appropriazione sonora dello spazio40 che il sovrano ha condotto fino adesso e tramite la quale ha costruito una realtà ordinata e sicura. Allarmato da questa novità che destabilizza la sua «sinfonia domestica41», aziona nuovamente il dispositivo sensorio mettendosi all’ascolto, questa volta non con l’arroganza di chi si appropria del reale attraverso la coalescenza acustica, ma con la stessa tensione del cacciatore che si apposta in attesa della preda, situazione che però sarà ben presto capovolta. Inizialmente il re tenta di sorprendere il soggetto che produce questo suono con trappole, agguati, lunghi appostamenti ma non riesce a ricavare nulla:

«Eccomi in cammino tra le rovine nascondermi dietro a colonne; mimetizzarmi, nascondere la luna per procedere con più furtiva cautela […] Avvicino la luna, cerco di cogliere le fattezze dell’essere che zufola […] Ma sta acquattato, e sebbene non sembri temere la luce abbagliante della notte, io non riesco a coglierne il profilo se ne ha uno42

È un suono che sembra indicare un pericoloso altrove e che elude continuamente ogni tentativo di appropriazione da parte del re. Si innesca così una tensione che lo costringe a una prima imposizione interpretativa, ovvero «deve fare i conti con l’angosciosa sfinge del confronto con l’alterità43», un’alterità che però in questo caso resta nascosta, resta un segreto «ossia qualcosa che, sepolto nella realtà, non può presentarsi alla coscienza umana se non tramite un codice44». Si ritorna perciò al problema del trasformare un mondo attualmente percepito in obiettivamente reale, ma ora non ci sono più dei sudditi pronti a rispondere, a fare eco alle vocalizzazioni lanciate dal re, bensì c’è uno zufolo, un soffio minuto che non si fa prendere e adottando la prospettiva di Barthes possiamo dire che l’indizio si è trasformato in segno e dunque ascoltare questo segno vuol dire «far apparire alla coscienza il di sotto del senso45». Il postulato che il re legge in queste tracce lasciate nell’ignoto sonoro sembra realizzare il suo desiderio più profondo, che aveva lasciato cadere in sordina mentre era preso a riflettere sulla condizione e i diversi caratteri della sudditanza e della regalità:

«Può la menzogna farmi diverso a me stesso, così che una parte di me abdichi e dimetta la sua regalità, e si faccia suddita di un’altra? Una ribellione dentro a me stesso? O io delegare a me la regalità e farmi suddito e riluttante, se non ribelle46

Spesso durante la ricerca del suono ha associato ad esso il concetto di menzogna:

«Ma dunque è costui un solitario, quale si sia? Donde viene? Ecco, io mento, sebbene non veda perché e come io menta, né a chi […] Fu allora che udii l’ocarina. Mento nuovamente. […] Perché mentivo? Avevo una tale fame di suddito da abdicare al mio intero mondo?47

È il re stesso a spiegarci quale sia questo inganno che scopriamo coincidere con tutto il racconto fatto finora: «Vi fu un momento in cui decisi di cessare di esercitare la mia regalità tra i triangoli e i cubi mentali48», è così che il re ha cominciato a costruire le sue simulazioni, dapprima nelle similitudini del “remeggio spietato” nelle forme regali di aquila, leone e serpente. Poi ha inventato le figure dei sudditi ed infine ha immaginato la reggia «io l’avevo fatto sperando che quella simulazione fosse capace di trarre a sé esseri ignari della mia macchinazione49». Quando poi davvero sente lo zufolo, preso dallo sgomento si domanda: «Ero giunto così lontano da me da trovare l’altro?50». In realtà succede l’opposto, potremo dire che il re ha cercato così tanto l’altro da trovare sé stesso, ed è proprio nell’ ascolto di quel suono che è riuscito ad addentrarsi nel terreno sconosciuto del suo desiderio. Secondo Barthes infatti nel campo dell’ascolto non è incluso solo «l’inconscio, nel senso del termine, ma anche le sue forme laiche: l’implicito, l’indiretto, il supplementare, il differito51», e dunque il nostro sovrano, oramai succube di questo suono indispensabile, è pronto ad aprire le porte della sua reggia:

«Io, la regalità, ubbidivo. […] la mia reggia è pronta; i miei innumerevoli orologi scandiscono tutti i tempi possibili; porte e finestre sono spalancate52

Chiudendo tuonante la sua storia: «Purché l’ordine sia chiaro io ti ubbidirò; ti ubbidirò mio suddito, mio re53

4. Calvino e la musica
Abbiamo visto che per Giorgio Manganelli la relazione con il mondo sonoro ha attraversato diverse fasi prima di palesarsi al suo pubblico, ed ha poi continuato ad occuparsene soprattutto come osservatore critico. Con Calvino invece, quello musicale è stato un terreno in cui ha agito da subito come autore, contribuendo attivamente alla creazione di testi per canzoni e opere di teatro musicale, scritture queste che spesso hanno avuto un ruolo fondamentale in quanto frutto di un rinnovata vitalità stilistico-ideologica. Il primo approccio con la sonorità arriva a metà degli anni ’50 quando, nel tentativo di uscire dall’impasse della forma neorealista, effettua una cospicua attività di sperimentazione sui generi letterari54. Il terreno di prova di questa ricerca sarà proprio la composizione dell’opera in versi dal titolo La panchina del 1955, musicata nel 1956 da Sergio Liberovici, suo collega alla redazione de “L’Unità” e messa in scena nell’ottobre dello stesso anno55. Tra il 1958 e il 1959 Calvino, in conseguenza dell’amicizia con lo stesso Liberovici, fu coinvolto nelle attività del gruppo musicale torinese Cantacronache, per il quale ha scritto cinque testi per canzoni56 e ancora nel 1960 scrive per Laura Betti le canzoni Turin la nuit o Rome by night e La tigre57. Infine, arriva in questi stessi anni la conoscenza, poi sviluppatasi in incontri ravvicinati e dialoghi a distanza con due importanti compositori e registi di teatro musicale: Luigi Nono e Luciano Berio. Per quanto riguarda il primo, nonostante la reciproca stima e l’interesse di avviare una collaborazione, non si arrivò a nulla di concreto58. Malgrado ciò, è possibile riconoscere un certo parallelismo nella loro ricerca59, soprattutto per gli esiti a cui arriveranno nel 1984, con una eclatante sintonia e ad appena due mesi di distanza l’uno dall’altro; l’8 agosto avverrà il debutto di Un re in ascolto di Berio e Calvino, il 25 settembre sarà la volta del Prometeo – Tragedia all’ascolto di Nono e Cacciari60. Si possono brevemente riassumere i punti di tra le due opere nel seguente modo:

«la drammaturgia, i modi e gli strumenti dell’opera di Berio e Calvino sono molto diversi, sia musicalmente che teatralmente ma in entrambi l’ascolto è al centro dello spettacolo e del teatro, un ascolto teso a cogliere un nuovo e molteplice senso al di sotto della superficie.61

A questo punto ci appare però necessaria una breve ricognizione che ci porti all’ideazione del re in ascolto. C’è infatti un lungo percorso di ricerca tra quell’apertura all’universo sonoro di fine anni ’50 e un testo che fa della coalescenza acustica «l’orlo pulsante e turbinoso che scolpisce forme nei corpi individuali, e ne fa nodi di scambio col mondo62», che rende l’udito unico corredo sensibile63 con il quale è possibile leggere un mondo «non più organizzato dal senso comune nella forma di “cose”64» perché disciolto nel caos delle strutture dissipative, dell’instabilità, della molteplicità. Non è difficile tracciare l’insieme degli elementi che hanno portato il Calvino degli anni Settanta-Ottanta ad avere una visione del mondo sempre più pulviscolare, instabile ed entropica, a cui però continuerà sempre ad opporre come isole di ordine la circoscritta dignità formale delle sue opere letterarie65. Con la chiusura della parabola Cosmicomiche Ti con zero (1965-1967), cioè con la fine di quel «fantastico filosofico che potesse tenere insieme logica e storia66», Calvino comincia ad elaborare «meccanismi narrativi basati su una combinatoria ristretta di serie finite altamente simboliche67» che portino già con sé, ed in sé, una rappresentazione del mondo, una storia dell’uomo. Come infatti scriverà nelle lezioni americane:

«In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze. L’altra che si muove in uno spazio gremito d’oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole68

La prima strada, quella della «razionalità scorporata» è la macchina combinatoria dei ventidue tarocchi nel Castello dei destini incrociati (1969)69, dello schema a scacchiera delle undici città permutabili in Le città invisibili (1972), dei dieci incipit seriali in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Una strada che però si trova sbarrata perché come afferma lo stesso Calvino:

«le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l’essenzialità dell’informazione70

E così alternerà i propri passi anche sulla seconda strada, quella affollata di «ékphrasis cognitive»71, che più ricalca la pulsione verso l’esattezza, ma che non arriverà al suo scopo perché:

«nel render conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile72

Così dagli esercizi combinatori sulla struttura del racconto si passa all’esercizio della descrizione, ed è infatti già a partire dal 1975 che Calvino scriverà sul “Corriere della sera” ben trentasei avventure del signor Palomar, dieci delle quali saranno riprese nell’omonimo volume pubblicato nel 1983.

5. Il Re di Calvino: l’orecchio come dispositivo di potere.
Con Palomar, personaggio che pensa solo quello che vede, Calvino analizza la complessità e le restrizioni dell’esperienza visiva e, parallelamente, sviluppa un piccolo sistema di Racconti per I cinque sensi73, sottolineando così un’evoluzione dal primato della vista verso la valorizzazione di altri canali sensoriali. Il focus viene infatti trasferito dall’utilizzo della vista come strumento di comprensione, agli altri sensi. Con questa serie di racconti, Calvino va a rovesciare il dominio secolare degli idoli epistemici così strutturati:

«l’oggetto di conoscenza pensato come un solido, orlato da uno spazio metrico; la funzione percettiva ridotta a vista; la conoscenza costretta nell’ ascesi della contemplazione e dello svelamento74

In particolare, in Un re in ascolto, il terzo di questa serie, Calvino attua una vera e propria decostruzione di questi idoli; l’oggetto della conoscenza è il suono, costituito dai rumori e dalle voci che il re protagonista ascolta dal centro del suo palazzo-orecchio. Qui la sola via per interpretare la realtà risiede nell’atto dell’ascolto, secondo quanto illustrato da Barthes nel suo saggio e attivamente ripreso da Calvino75. In questo contesto, non si attua più una contemplazione passiva del sensibile, poiché «il silenzio dell’ascoltatore sarà tanto attivo quanto la parola del locutore: l’ascolto parla, si potrebbe dire76». Ad agire su questa scrittura però non è solo il saggio di Barthes, o la scoperta filosofico-scientifica dei processi d’organizzazione spontanea e delle strutture dissipative di Monod e Prigogine77; c’è anche la lettura di Un re di Manganelli, dal quale riprende la stessa situazione di un sovrano colto nella solitaria auscultazione maniacale di ogni suono che riesce ad intercettare.
Calvino già nel 1965 su “il Menabò” aveva presentato Manganelli78, apparso da appena un anno sul panorama editoriale, e nelle stesse pagine aveva fatto pubblicare il Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, pseudo trattato manganelliano che poi nel 1972 confluirà nel volume Agli dèi ulteriori, che appunto contiene anche Un re, ed a cui Calvino stesso scrive il risvolto di copertina79. Non deve perciò sorprenderci che lo schema di fondo dei due Re sia molto simile. Un monarca, timoroso di essere deposto, rimane immobile nel cuore della sua reggia e da questa centralità comincia a esplorare l’ambiente circostante alla ricerca di rumori sospetti. Questa esplorazione si evolve in una crescente nevrosi interpretativa che culmina nel momento in cui si materializza un suono o una voce, ovvero la concretizzazione della minaccia che destabilizza il potere del sovrano. Per quanto riguarda la prima parte cioè il momento dell’esplorazione acustica, in Manganelli si aveva un complesso sonoro che era frutto della rappresentazione uditiva dei corridoi e delle sale del palazzo; un’immagine tutta mentale dato che era emessa da sudditi immaginati dallo stesso sovrano. Con Calvino il groviglio sonoro arriva sempre dagli stessi luoghi della reggia, ma non è più specchio di un antecedente groviglio mentale, quanto piuttosto risultato della funzione sineddotica che il proprio timpano – coincidente con il palazzo – assume del personaggio stesso80, e cioè la tendenza a inglobare tutto ciò che lo circonda:

«Sprofondato nel tuo trono, tu porti la mano all’orecchio, scosti i drappeggi del baldacchino perché non smorzino nessun sussurro, nessun’eco. Le giornate sono per te un succedersi di suoni, ora netti, ora quasi impercettibili; hai imparato a distinguerli, a valutarne la provenienza e la distanza, ne conosci la successione81

Vi è infatti una piena coincidenza tra il timpano e il palazzo che attraverso le sue tubature incanala i suoni da ogni angolo della reggia per portarli al re:

«ogni passo, ogni scatto di serratura, ogni starnuto echeggiano, rimbombano, si propagano orizzontalmente per un seguito di sale comunicanti, vestiboli, colonnati, porte di servizio, e verticalmente per trombe di scale, intercapedini, pozzi di luce, condutture, cappe di camini, vani di montacarichi, e tutti questi percorsi acustici convergono nella sala del trono82

Condutture, cappe, vestiboli, altro non sono che le mille pieghe di un palazzo-orecchio, il cui ruolo è trasformare ciò che è confuso e indifferenziato in distinto e pertinente; come un imbuto orientato dall’esterno verso l’interno, «esso raccoglie il maggior numero possibile d’impressioni e le incanala verso un centro di sorveglianza, di selezione di decisione83». Sono quelle le parole di Barthes, subito attivate da Calvino nel testo:

«Il palazzo è tutto volute, tutto lobi, è un grande orecchio in cui anatomia e architettura si scambiano nomi e funzioni: padiglioni, trombe, timpani chiocciole, labirinti; tu sei appiattato in fondo, nella zona pi interna del palazzo-orecchio, del tuo orecchio; il palazzo è l’orecchio del re84

Nel cuore più segreto del palazzo, analogamente alla posizione del re nelle parti interne dell’edificio-orecchio, risiede l’essenza del sovrano, la sua vera natura precedente all’ascesa al trono. Il re, avendo rovesciato il suo predecessore, si inserisce in un ciclo ininterrotto di deposizioni e incoronazioni, subendo un progressivo avvilimento. La paura di finire come il suo predecessore lo porta a temere, in quell’«ordito di suoni regolari» che è il palazzo, ogni suono che non risulti familiare: «A chi sta in ansia, ogni segno che rompe la norma appare come una minaccia. Ogni minimo evento sonoro ti sembra annunci l’avverarsio dei tuoi timori85». Questa dualità si collega a due temi chiave che permeano la parte centrale del racconto: l’insorgere dell’usurpatore e la presenza della voce o del canto86. Mentre il re attende l’arrivo dell’usurpatore, dirige l’orecchio verso le zone più profonde del palazzo udendo un riverbero e colpi ritmati provenienti dai sotterranei:

«Vicino al trono c’è uno spigolo del muro da cui ogni tanto senti venire una specie di rimbombo […] Colpi che emergono da una profondità buia, sì, dal basso, colpi che salgono da sottoterra. Sono segnali?87»

Ansioso, si interroga sulla possibilità che tali suoni siano segni decifrabili, un messaggio, forse inviato da qualcuno desideroso di rivalsa o vendetta:

«Una serie di colpi in successione, una pausa, altri colpi isolati: sono segnali traducibili in un codice? […] É questo che ti stanno dicendo? È questo che riesci a decifrare tentando d’applicare tutti i codici immaginabili?88»

Dopo un primo pensiero ossessivo il re sembra riprendersi: «è te stesso che stai sentendo, è dentro di te che i fantasmi prendono voce89», anzi in questo barlume di lucidità trova una via d’uscita da questa fissazione dell’usurpatore: «Non fissarti sui rumori del palazzo, se non vuoi restarci chiuso dentro come in una trappola. Esci! scappa! spazia! Fuori del palazzo s’estende la città90». Dopo essersi confrontato con l’incertezza e la sfida di interpretare questi suoni provenienti dal di sotto e aver cercato di dar loro un significato organizzato, avviene un passaggio cruciale, dove la sua percezione si spinge al di fuori dei confini conosciuti del palazzo, aprendo la porta a un mondo sonoro più ampio e complesso:

La città è un rombo lontano in fondo all’orecchio, un brusio di voci, un ronzio di ruote. […] La città è una ruota che ha per perno il luogo in cui tu stai immobile, ascoltando […]91

L’angoscia ermeneutica del re, per la quale interpretava ogni rumore come il presagio di una congiura imminente, sembra attenuarsi nella moltitudine sonora della città, ma la modalità con cui il re fruisce del sensibile non cambia. L’ambiguità tra il fuori e il dentro persiste: il rumore proveniente dalla città acquista significato solo all’interno dell’orecchio:

«La città trattiene il rombo d’un oceano come nelle volute della conchiglia, o dell’orecchio: se ti concentri ad ascoltarne le onde non sai più cos’è il palazzo, cos’è città, orecchio, conchiglia92

E ancora «Da ogni scheggia sonora tu continui a raccogliere segnali, informazioni, indizi93». Nell’atto di aprire l’orecchio alla città, il re si rende conto di un mondo da cui si era costantemente tenuto lontano, guidato dalla paura dei possibili pericoli che avrebbe potuto incontrare, e riscopre la leggerezza in un corpo che ha sempre vissuto come «centro gravitazionale dell’auscultazione94», finché una notte, spalancando le finestre della sua stanza sui tetti della città, tra tutti i rumori indistinti, viene raggiunto dalla voce di una donna che intona una canzone d’amore. Quest’esperienza risveglia in lui la memoria della vita e rinnova i suoi antichi desideri. La nuova emozione del re non dipende certo dalla canzone sentita troppe volte e nemmeno, precisa Calvino, da «quella donna che non hai mai visto: t’attrae quella voce in quanto voce, come si offre nel canto […] Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere: nell’esistere come voce95». Il re riesce a cogliere quella che potrebbe dirsi, secondo le parole di Barthes «la sua «grana»; la voce non è soffio, bensì la materialità del corpo che sgorga dalla gola, là dove si forgia il metallo fonico96». L’origine di questa voce dal mondo dei vivi, al di fuori della logica mortifera del potere, apre un nuovo orizzonte di percezione per l’orecchio regale. In questo contesto, l’ascolto non riguarda più la captazione e la decifrazione di suoni minacciosi, ma piuttosto il piacere di percepire «la vibrazione di una gola di carne», che a sua volta si trasforma in desiderio di rispondere a questo corpo:

«C’è una parte di te stesso che sta correndo incontro alla voce sconosciuta, contagiato dal suo piacere di farsi udire, vorresti che il tuo ascolto fosse udito da lei, vorresti essere anche tu una voce, udita da lei come tu la odi97

Il re, affascinato dal piacere di plasmare le onde sonore e contagiato dal desiderio di farsi udire, cerca di intrecciare un duetto con la voce femminile, ma non può esserci possibilità di riscatto98. Se nel contesto di Manganelli davanti al re si aprivano due strade, la menzogna o la sottomissione, qui il sovrano è intrappolato nel suo ruolo di potere incarnato dal corpo-palazzo panottico. Ma, come c’era da aspettarsi, l’infelice non sa cantare; se sapesse cantare, dice Calvino, mediante la finzione di un discorso che il re rivolge a sé stesso, allora «quello che nessuno sa che tu sei, o che sei stato, o che potresti essere si rivelerebbe in quella voce99». Questa condizione gli impedisce di incontrare liberamente la voce della donna (ed il suo corpo), creando una situazione in cui la sua posizione di dominio e controllo diventa un ostacolo insormontabile per l’esplorazione di nuove connessioni e significati: «Ogni tuo tentativo di uscire fuori dalla gabbia è destinato a fallire: è inutile cercare te stesso in un mondo che non t’appartiene, che forse non esiste. Per te c’è solo il palazzo100». Ormai ogni possibilità di uscita è compromessa:

«Ma troppi suoni si frappongono, frenetici, taglienti feroci: la voce di lei sparisce soffocata dal rombo di morte che invade il fuori, o che forse risuona dentro di te101

L’unico contesto riconosciuto al protagonista è il palazzo, con le grandi volte rimbombanti, i turni delle sentinelle, i carri armati che fanno stridere la ghiaia, i passi concitati per lo scalone «che potrebbero ogni volta essere quelli che annunciano la tua fine102». In questo scenario, i segni del mondo sono limitati a un frastuono apocalittico:

«La città è esplosa in fiamme e in grida. La notte è esplosa, rovesciata dentro se stessa. Buio e silenzio precipitano dentro sé stessi e gettano fuori il loro rovescio di fuoco e d’urla. La città s’accartoccia come un foglio ardente. Corri, senza corona, senza scettro103

L’amara conclusione suggerisce che ogni tentativo del protagonista di uscire dalla «gabbia dei suoni» è destinato al fallimento. L’invito a cercare sé stesso in un mondo estraneo o forse inesistente è considerato inutile. Come un novello Orfeo, il re perde la sua Euridice dal momento che non si accontenta più solamente della sua voce ma desidera anche vederla104, venendo sopraffatto dal caos acustico, da quella sonorità naturalmente caotica, ma forse la punizione che riceve è ancor peggiore di quella mitica. Nell’impotenza di fronte alla catastrofe della città, il re comincia a fuggire attraverso dei passaggi che per anni aveva fatto scavare sotto il palazzo, sotto la città, per fuggire in caso di necessità. Proprio in questo spazio tellurico torna a sentire entrambi i rumori: «Dei colpi. Nella pietra. Sordi. Ritmati. Come un segnale! Da dove vengono? Tu conosci quella cadenza. È il richiamo del prigioniero!105»; e poco dopo la voce della donna:

«Sì, è lei, è la sua voce che modula quel motivo come un richiamo sotto le volte di roccia […] Rispondile, fatti sentire, mandale un richiamo, perché possa trovare la strada nel buio e raggiungerti. Perché taci? Proprio in questo momento ti manca la voce?106»

Anche in questo momento il re tace, non ha voce. Sarà un’altra voce a rispondere alla donna, una voce che sorge dal buio, nel punto da cui provenivano le parole del prigioniero. La donna replica a sua volta, le due voci vanno l’una incontro all’altra, si sovrappongono, finché il re non le sente uscire dal cunicolo, e resta solo con i propri sospiri. Intrappolato in una realtà sonora claustrofobica, senza possibilità di fuga o comprensione di un mondo esterno le parole, incarna il tragico eroe che vive nel teatro dell’ascolto teorizzato da Barthes:

«L’ascolto, questa nozione apparentemente modesta (che non figura nelle enciclopedie del passato e neppure appartiene ad alcuna disciplina riconosciuta) è in fondo come un piccolo teatro sul quale si affrontano due moderne deità, l’una negativa e l’altra positiva: il potere e il desiderio107

Note

  1. Herman Parret, (Syn)esthésies du visible, in «Versus. Quaderni di semiotica», (maggio-dicembre 1993), n. 65-66, p. 61
  2. Come ha evidenziato Ulla Musarra-Schrøder “Nella letteratura moderna o postmoderna, il predominio del visibile non è così evidente. Scrittori come Calvino, Celati, Tabucchi, Del Giudice mettono in questione e drammatizzano la potenza conoscitiva della stessa percezione visiva, spingendosi verso le sue estreme possibilità o frontiere.” da Personaggi “in ascolto”. L’orecchio e l’udibile in alcuni racconti dell’ultimo Calvino, in «Bollettino ‘900», n. 1-2, 2002
  3. Silvana Borutti, Italo Calvino e l’epistemologia “continentale”. I racconti “I cinque sensi” in “Materiali di estetica”, n.VI/2, 2019, p. 81
  4. Lavinia Torti, Manganelli e la musica: un’ostinazione intermittente, in «L’illuminista: rivista di cultura contemporanea» n.61-62-63, 2022, p. 125
  5. Paolo Terni nella sua Introduzione a Giorgio Manganelli, Una profonda invidia per la musica, a cura di A. Cortellessa, L’orma, Roma 2014, pp. 7-17, ricorda che le prime conversazioni avute con Manganelli relative a musica e cultura musicale avvennero nei primissimi anni ‘70 quando si conobbero all’interno del giro delle numerose personalità che ruotavano intorno al progetto culturale sorto a partire dalla Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata (Einaudi, 1969)
  6. Pubblicate per la prima volta nella loro forma originaria in Giorgio Manganelli, Una profonda invidia per la musica, cit., pp. 19-64
  7. Raccolti da Andrea Cortellessa nella sezione Musica senza suono. Cinque pezzi facili (1976-1989) in Giorgio Manganelli, Una profonda invidia per la musica, cit., pp. 65-86
  8. Ivi, p. 126
  9. Nel brillante giudizio di Cesare Muzzioli “Una scrittura precaria, dunque, affetta da un continuo processo di discussione e correzione, una scrittura al condizionale, che mette in mostra il proprio farsi e disfarsi sotto i nostri occhi, sottolineando in tal modo la natura “costruita” (linguistica e quindi sociale) di qualsiasi narrazione”. In Il gruppo ’63: istruzioni per l’uso, Odradek, Roma 2013, p. 193
  10. Walter Pedullà, L’estrema funzione, Marsilio, Venezia 1975, p. 235
  11. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, Adelphi, Milano 1989, p. 159
  12. Walter Pedullà, L’estrema funzione, cit., p. 32
  13. L’autore riconosce la cinica franchezza nelle poesie di Pagliarani e Sanguineti; il profanante smascheramento del sacro nel ritmo del componimento religioso portato avanti dal “blasfemo” materialismo nelle Panglosse di Guglielmi; la brusca violazione dell’etichetta nell’ Aprire il fuoco di Bianciardi, racconto di un fatto contemporaneo narrato con una lingua tutta ottocentesca. Per una ricognizione più approfondita sullo sproloquio si rimanda al capitolo Il dialogo socratico, la satira menippea e la letteratura carnevalesca negli Anni Sessanta in Walter Pedullà, L’estrema funzione, cit.
  14. Ivi, p. 33
  15. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., p. 39
  16. Andrea Cortellessa, Una profonda invidia per la musica, cit., p. 116
  17. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., p. 13
  18. Ivi, p. 14
  19. Ibidem
  20. Ivi, p. 15
  21. Ibidem
  22. Ivi, p.16
  23. Ibidem
  24. Ivi, p.17
  25. Ivi, p.19
  26. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2004, p. 172
  27. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., pp. 20-21
  28. Ibidem
  29. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 133
  30. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., p. 22
  31. Ibidem
  32. Ibidem
  33. Ivi, p.23
  34. Ivi, p. 24
  35. Filippo Milani, Retorica come dissimulazione. Il ritmo della prosa manganelliana [tesi di dottorato], Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, 2012, p. 196
  36. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., p. 24
  37. Ibidem
  38. Ivi, p. 27
  39. Ivi, p. 28
  40. Ci riferiamo qui a quell’attività conoscitiva frutto dell’unione tra la funzione fisiologica (dell’udito) e l’atto psicologico (dell’ascolto) che Barthes ha costruito nel suo saggio Ascolto: “[L’udito] sembra essenzialmente connesso alla valutazione della situazione spazio-temporale. Costruito a partire dall’udito, l’ascolto, da un punto di vista antropologico, è il senso stesso dello spazio e del tempo, colto attraverso la percezione dei gradi di lontananza e dei ritmi regolari di eccitazione sonora.” in Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi 1985, p. 238
  41. Ibidem
  42. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, pp. 30-31
  43. Nicola De Rosa, Figure di sovranità, sovranità di figure. Su Un re in ascolto di Calvino, in «Status Quaestionis», 22, 2022, p. 288
  44. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 241
  45. È questo il caso che Barthes definisce come secondo tipo di ascolto, quello della decifrazione, dove il primo tipo rappresenta ‘’attenzione preliminare verso indizi rispondono a desiderio o sensazione di minaccia, mentre il terzo tipo non riguarda i suoni emessi quanto il soggetto che li emette e si svolge nello spazio intersoggettivo del transfert.
  46. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., 29
  47. Ivi, p. 31, Corsivi miei
  48. Ibidem
  49. Ibidem
  50. Ivi, p. 32
  51. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 250
  52. Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, cit., p. 32
  53. Ivi, p. 33
  54. Enrica Maria Ferrara, Calvino fra Lukakcs e Brecht: una lettura in chiave brechtiana de La panchina di Italo Calvino in «The Italianist», 27, 2007, p. 114
  55. Ivi, p.113
  56. Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Hoepli, Milano 2023, p. 247
  57. Cantate da Laura Betti il 27 gennaio 1960 al Teatro Gerolamo di Milano. Il testo della canzone si trova in Giro a vuoto. Canzoni di L. Antonioni, Arbasino, Bassani, Billa Billa, Bona, Buzzati, Calvino, C. Cederna, Flaiano, Fortini, Mauri, Moravia, Negri, Parise, Pasolini, Patti, Soldati, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1960, pp. 70-71
  58. Scriverà Calvino nel 1984: «Ammiravo Nono per il suo entusiasmo innovatore e la sua simpatia umana ma mi sentivo molto lontano dal suo mondo drammatico e soprattutto dalla passione politica che voleva esprimere nella musica e nella azione scenica. Ciononostante, Nono continuava a credere che io fossi lo scrittore che andava bene per lui.» in Massimo Mila e Luigi Nono, Nulla di oscuro tra noi, Lettere 1952-1988, a cura di A.I. De Benedictis e V. Rizzardi, Il Saggiatore, Milano 2010, pp. 11-13
  59. «Calvino parla dell’ambizione della letteratura di rappresentare la molteplicità delle relazioni mentre Nono mette in scena (ma senza scena) nella sua Tragedia dell’ascolto, attraverso le molteplici fonti vocali e strumentali, i molteplici livelli sonori che consentono di rendere effettiva la molteplicità dei possibili ascolti» in Enrico Giannetto, Il Poeta della termodinamica e il Maestro di suoni e silenzi. Tempo e musica tra Ilya Prigogine e Luigi Nono, [tesi di dottorato], Università degli studi di Bergamo, 2020, p. 283
  60. Ibidem
  61. Ibidem
  62. Silvana Borutti, Italo Calvino e l’epistemologia “continentale”. I racconti “I cinque sensi” in «Materiali di estetica», n.VI/2, 2019, p. 81, DOI: https://doi.org/10.13130/mde.vi6.2.12892
  63. Così come il senso dell’olfatto in Il nome, il naso e il gusto in Sapore Sapere (questo il titolo che corrisponde a quello del secondo dattiloscritto, come indicato nelle note all’ edizione dei “Meridiani” Romanzi e racconti diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, con una bibliografia di scritti di Italo Calvino a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, p. 1218), che sono gli altri due testi che compongono la struttura, purtroppo non terminata, del sistema di racconti strutturati sui cinque sensi, pubblicati con il titolo di Sotto il sole giaguaro.
  64. Silvana Borutti, Italo Calvino e l’epistemologia “continentale”. I racconti “I cinque sensi”, cit., p. 78
  65. Cfr. Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, cit., p. 587
  66. Carlo Ossola, L’invisibile e il suo ‘dove’: «geografia interiore» di Italo Calvino, in «Lettere Italiane», 39, n. 2, 1987, pp. 230. JSTOR, http://www.jstor.org/stable/26264284
  67. Ivi, p. 234
  68. Italo Calvino, Lezioni americane, in ID., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, vol. I, p. 691
  69. Il castello dei destini incrociati, è stato pubblicato per la prima volta nel volume Tarocchi, Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Franco Maria Ricci editore, Parma 1969; successivamente raccolto insieme a La taverna dei destini incrociati dall’Einaudi nel 1973
  70. Italo Calvino, Lezioni americane, in ID., Saggi 1945-1985, cit., p. 691
  71. Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, cit., p. 614
  72. Ibidem
  73. Questo il titolo proposto dai curatori dei Romanzi e racconti nell’edizione dei “Meridiani” Italo Calvino, Romanzi e racconti, vol. III, cit.
  74. Silvana Borutti, Italo Calvino e l’epistemologia “continentale”. I racconti “I cinque sensi”, cit., p. 81
  75. Nel 1977 Calvino si dedica alla lettura della voce «Ascolto» redatta da Roland Barthes e Roland Havas per l’Enciclopedia Einaudi, (volume I, Abaco-Astronomia, pubblicata nel medesimo anno) e ne condivide entusiasta le proprie impressioni con Luciano Berio, con il quale aveva già collaborato precedentemente. Inizia da a sviluppare il nucleo concettuale di ciò che si trasformerà, dopo numerosi scontri e rifacimenti, nel canovaccio di Un re in ascolto, successivamente musicato da Berio. Al contempo, una versione narrativa con lo stesso titolo sarà inclusa nel suo libro di racconti postumo Sotto il solo giaguaro. Per un resoconto delle discussioni con Berio e delle divergenze fra i punti di vista di entrambi rimandiamo alle lettere di Calvino a Berio, A proposito di “Un re in ascolto” (due lettere inedite di Italo Calvino a Luciano Berio) in Berio, a cura di E. Restagno, Torino, EDT 1995, pp. 135-141)
  76. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 243
  77. Scienziati che con le loro scoperte sperimentali, subito assimilate e apprezzate da Calvino, hanno aperto un nuovo dialogo tra uomo e natura mettendo in gioco le nozioni di struttura, di funzione e di storia. Si rimanda in particolare al saggio di Calvino del 1980 La visione di Monod Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, «La nuova alleanza» in Saggi 1945-1985, a cura e con una introduzione di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 2038-2044
  78. Notizia su Giorgio Manganelli, «Il Menabò di letteratura», 8, (14 giugno) 1965, pp. 102-5,
  79. Il dotto acrobata, risvolto di copertina, non firmato, per Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, Einaudi, Torino 1972, poi in Il libro dei risvolti, a cura di Chiara Ferrero, Einaudi, Torino 2002, pp. 142-43
  80. Nicola De Rosa, Figure di sovranità, sovranità di figure. Su Un re in ascolto di Calvino, in «Status Quaestionis», 22, 2022, p. 283
  81. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. **.
  82. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. x
  83. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 240
  84. Italo Calvino, Un re in ascolto
  85. Italo Calvino, Un re in ascolto
  86. Cfr. MUSARRA-SCHRØDER, U., Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell’opera di Italo Calvino, Roma, Bulzoni, 1996, p. xxx
  87. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. x
  88. Ivi, p.xxx
  89. Ivi, p.xxx
  90. Ivi, p.xxx
  91. Ivi, p.xx
  92. Ivi, p. xxx
  93. Ibidem
  94. Manuele Marinoni, Le geometrie infernali del suono. Manganelli e la musica, in «Oblivio», VI, 21, 2016, p. 65
  95. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. x
  96. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 247
  97. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. x
  98. Sul fenomeno della voce nel finale del racconto si rimanda al saggio di Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 7-13
  99. Italo Calvino, Un re in ascolto, p. xx
  100. Ivi, p.xxx
  101. Ivi, p.xxx
  102. Ivi, p.xxx
  103. Ivi, p.xxx
  104. Cfr. Anna Dolfi., Calvino. L’alfabeto e la morte, in A. Dolfi, In libertà di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Bulzoni, Roma 1990, p.270
  105. Italo Calvino, Un re in ascolto, p.xxx
  106. Ivi, p.xxx
  107. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, cit., p. 241

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