Bibliomanie

Ripetizione, ritmo e ripresa: la scrittura mensurale di Vitaliano Trevisan
di , numero 57, giugno 2024, Didactica, DOI

Ripetizione, ritmo e ripresa: la scrittura mensurale di Vitaliano Trevisan
Come citare questo articolo:
Valeria Tacconi, Ripetizione, ritmo e ripresa: la scrittura mensurale di Vitaliano Trevisan, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 42, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11651

1. Camminare, scrivere, destrutturare.
Non è difficile, per il lettore delle prime opere1 di Vitaliano Trevisan, constatare la presenza di un tratto stilistico ricorrente: la narrazione è in prima persona, in un monologo interiore costruito attraverso ripetizioni ossessive. Ricorrono, inoltre, le trascrizioni delle angosciose manie del protagonista, il tema del doppio-specchio, la fuga, l’invettiva politica, la critica ai falsi valori borghesi e democristiani, lo sfondo della città di Vicenza, le tinte gotiche della narrazione, la scomparsa, la morte sulla scena; con Andrea Gialloreto, si può iniziare constatando che «l’azione letteraria che [a Trevisan] preme avviare si definisce ancora entro i parametri del modernismo novecentesco e concerne la dialettica tra soggettività in crisi e istanza (auto)biografica»2. I primi scritti di Vitaliano Trevisan sono una fedele e delirante trascrizione della «finitudine senza infinito»3 a cui ogni essere umano è condannato per nascita: una tensione che scaturisce «da un disagio, da una sofferenza, da una crisi […] dei rapporti tra letteratura e mondo»4 e che lo accomuna ai grandi «maestri della disperazione novecenteschi»5. La posizione marginale di osservatore escluso dell’io narrante, costantemente «sull’orlo del precipizio»6, è infatti un di origine bernhardiana7. Questa postura esistenziale accomuna scrittore e personaggio: lo stile infatti – come afferma Trevisan in un’intervista8 – è conseguenza naturale del carattere dell’autore: «Certo. Beckett e Bernhard, ad esempio, il loro stile non si può slegare dal fatto che loro erano così».
La ripetizione pervade i vari livelli del testo scritto, come una voce che, incarnandosi nel supporto librario, fa eco a sé stessa e dichiara apertamente i debiti con Beckett e Bernhard. Sempre per Gialloreto, «l’aspetto della realtà, la sua resa sulla pagina dipendono dall’addensarsi o dal rarefarsi del linguaggio intrappolato nella grana della voce, il vero organo della rappresentazione nei monologhi narrativi e teatrali di Trevisan. La voce, il corpo, la psiche sono infatti le sole superfici di aderenza alla materia del mondo»9. Questa prosa scaturisce dalla messa in discussione di qualsiasi valore assoluto e dalla scissione dell’identità tra il vero e il reale: «un’ontologia di tipo narrativo, la stessa che dimora da sempre in ogni tipo di storia. L’interesse dei pensieri non risiede più nella loro pretesa di esprimere una verità assoluta, ma nella loro natura di eventi, e la realtà non converge verso l’unità degli universali, ma prolifera in trame potenzialmente innumerevoli»10.
La scrittura è «un enunciato che produce ciò che dice»11: il trauma. Una visione disforica della realtà porta a una testualizzazione del mondo ambigua e raccapricciante, in cui il camminare, metafora dello scrivere, è l’unica azione possibile. Trevisan scrive perché deve, perché non c’è vita senza scrittura: «Esiste un altro punto di vista che non sia il punto di vista della scrittura?, c’è qualcosa che non sia scrittura?»12.
Il racconto è scandito dalla camminata: «il tempo non scorre, occupa uno spazio»13, infatti, i personaggi compiono «ossessive perlustrazioni […]su frazioni ben delimitate del (sotto)suolo vicentino»14. I «tristissimi giardini»15 della periferia fungono da ambientazione per la messa in scena dei paralogismi involontari che si succedono nella mente del narratore, come spiega Gregory Pell: «[…] il narratore descrive i pensieri come se fossero fatti. Tutto è forzato all’interno del cronotopo chiuso che è la mente dello stesso narratore; ogni passo equivale ad attimi, giorni o anni che si dilatano in un eterno presente»16. Camminare è «[…] una forma sostanzialmente ossessiva, legata al bisogno di sopravvivenza, una disperata risposta del protagonista, affetto da evidenti turbe psichiche, all’che lo sovrasta»17, una fuga sia spaziale che temporale, un modo per misurare lo spazio, un tentativo di liberarsi dalla contingenza del tempo, dal proprio «dolore esistenziale»18.
I primi «non romanzi»19 e le raccolte di short stories20 sono difatti accomunate anche dalla presenza della musica jazz, come materia narrativa, nel paratesto, nella lingua, nella struttura. A partire dal XX secolo, la musica, a causa della «costatazione dell’insufficienza degli schemi formali del romanzo ottocentesco a esprimere le contraddizioni della realtà»21 diviene una fonte formale di molte opere letterarie. Nella musica vengono ricercati «agenti di disgregazione della forma»: una traduzione che trasmetta una problematica «percezione del reale»22. La scelta del jazz risulta in linea con questo intento destrutturante, proprio perché si pone come alternativa all’egemonica musica classica tonale occidentale, «facendo spazio all’idea […] di una narrazione libera e fluttuante»23. Proprio dalla musica viene mediato il meccanismo compositivo della ripetizione e della successiva variazione, Quest’ultima, infatti, per usare le parole di Gruber, «necessita di tecniche tettoniche quali la ripetizione, la dialettica identità-differenza, il contrasto o la simmetria, come elementi essenziali per la produzione dell’insieme strutturale, e rimane impressa nella memoria solo per mezzo della ripetizione e della correlazione di “figure formali” e della loro elaborazione»24. Il principio della variazione, nel jazz, confluisce «nella tecnica dell’improvvisazione»25 che diviene una «struttura»26 funzionale all’espressione dello sguardo «più disincantato, cinico e politicamente scorretto, il più visceralmente violento e il più gelidamente accorato, che nella nostra letteratura si posi, oggi, sull’inconveniente di essere nati»27.

2. Musicalizzazione della letteratura.
In28 e vengono ripresi elementi mediati dalla musica e inseriti all’interno delle composizioni letterarie: tali relazioni intermediali sono riconoscibili attraverso un’attenta analisi del testo. Werner Wolf29, riprendendo e approfondendo la triade di Scher30, in cui venivano definiti i rapporti intersemiotici tra letteratura e musica, definiva la presenza della musica in componimenti letterari come una forma di , dato che vengono usati i segni e la notazione propria di un determinato dominante, in questo caso la lingua scritta, in cui è però al contempo individuabile e verificabile la presenza della musica quale secondario. In questo senso, infatti, le opere di Trevisan, in particolare , possono essere considerate un esempio di intermedialità nascosta su più livelli.
La presenza della musica come secondario e nascosto può presentarsi in due modalità: 1. quella del «telling» o , ovvero quei casi in cui l’autore (tematizzazione autoriale), il narratore o un personaggio (tematizzazione figurale) si riferiscono o raccontano la musica: in cui, cioè, la musica diviene materia narrativa; 2. quella dello «showing» o imitazione, definito appunto , che riguarda invece la ripresa della musica come struttura e l’imitazione di espedienti compositivi propri di tale 31.
Sia la che l’ sono riscontrabili nelle opere di Trevisan. In particolare, la è più evidente nelle opere d’esordio, in cui vengono raccontate le vite di aspiranti musicisti. Tuttavia, non manca l’imitazione: una più generale intenzione compositiva32 che consiste in similitudini e analogie strutturali «verifiable or at least identifiable»33, nei termini di Wolf, con la musica e gli effetti che essa produce.
Del resto, secondo Wolf, nella maggior parte dei testi musicalizzati i due fenomeni sono compresenti; la è una ecfrasi musicale, un racconto della musica, che funge da indizio di , ovvero di una volontà compositiva dello scrittore che si serve intenzionalmente di mezzi mediati dalla musica per costruire il testo. L’imitazione può essere sia microstrutturale ̶ la34– che si costruisce attraverso allitterazioni, rime interne, figure retoriche della ripetizione, slittamenti sintattici, anadiplosi, epifore, epanadiplosi ̶ che macro-strutturale ̶ le analogie più complesse e strutturali35 ̶ che nei termini di Wolf si definiscono modi di «informing»36, o di «shaping»37: processi che danno una forma al testo e modificano la struttura e i significanti del dominante rendendolo simile al secondario. Inoltre, Wolf38 reputa notizie contestuali e vicende biografiche inerenti alla vita privata dell’autore, fonti utili, indizi e conferme dell’intenzionalità di tale processo compositivo mediato dalla musica. Trevisan era un batterista, così lo ricorda Emanuele Trevi: un «esperto musicista oltre che scrittore, […] ossessionato dal ritmo della prosa, che per lui non era un orpello, un abbellimento secondario, ma lo strumento più adatto a creare quella che è una vera e propria suggestione, una specie di contagio emotivo e simbolico di rara efficacia. È il ritmo a sprigionare, nei primi libri di Trevisan, il fantasma credibile di una voce, con le sue pause, i suoi affanni, le sue ripetizioni e variazioni sul tema»39. Gli elementi circostanziali e biografici inerenti alla vita e alla cultura dell’autore testimoniano una conoscenza approfondita del jazz da parte dello scrittore e sono, quindi, delle conferme della presenza della musica sotto forma di e

3. La musica, i musicisti, il paratesto: tematizzazione.
In , nei racconti di e in il riferimento alla musica è esplicito già nei titoli e nei sottotitoli, che sono citazioni «quasi-intertextual»40, nei termini di Wolf, ovvero riferimenti a forme specifiche di un determinato genere musicale: standard, improvvisazioni, oscillazioni. Nel caso di , si cita nel titolo, in antifrasi, il popolarissimo brano scritto da Bob Thiele e George David Weiss e interpretato da Louis Armstrong nel 1967.
Un ulteriore esempio di41 è la denominazione del secondo e ultimo capitoletto,, alla quale siovrappone una classica. In questo epilogo il protagonista descrive la sensazione e il sogno utopico di un mondo meraviglioso, e si ritrova ad improvvisare sul palco con Keith Jarrett, Gary Peacock, senza rubare il posto al batterista Jack DeJohnette e registrare con loro l’album:42. La musica diviene materia narrativa e riferimento extratestuale su cui la fabula si appoggia; vengono citati nomi di celebri musicisti e riportato il testo della nota canzone:

Ero Fred Astaire e dicevo alla mia ragazza: , le dicevo mentre la facevo ballare come nessuno l’aveva mai fatta ballare. , le dicevo, , le dicevo ballando alla musica di quella meravigliosa orchestra, […]43.

Il tema-materiale jazzistico viene ripreso e variato in negativo: il protagonista insiste sulla solitudine insita nello stare al mondo, in un mondo che è in realtà mostruoso:

Tutto questo mi immaginai e altro ancora, e intanto pensavo che, per quanto male stesse suonando, per quanto impegno ci mettesse, la banda di Povolaro non aveva il potere di sopprimere quel tema meraviglioso, che quel tema avrebbe resistito per sempre a qualunque attacco, pensavo mentre immaginavo di cantare e di ballare, che anche dei musicisti peggiori di quelli, se pure esistessero, non ce la farebbero a distruggere quel tema, che niente e nessuno l’avrebbe mai distrutto, perché quel tema è meraviglioso e parla di un mondo altrettanto meraviglioso che, malgrado tutto e tutti, è e resterà sempre un mondo meraviglioso. Sí,pensavo, il mondo è davvero meraviglioso, siamo noi che suoniamo male, abbiamo sempre suonato male e suoniamo sempre peggio, piú passa il tempo, peggio suoniamo, e senza rendercene conto facciamo delle nostre vite degli spaventosi assoli fuori tempo, stonati, abborracciati, ognuno per conto suo; credendo di suonare insieme agli altri, pensavo, in realtà suoniamo sempre e solo da soli, uno da una parte e uno dall’altra, ognuno il suo strumento, crediamo di parlarci e non ci parliamo, facciamo a pezzi il meraviglioso tema che abbiamo a disposizione in tanti piccoli insignificanti pretestuosi presuntuosi pezzetti, creiamo una gigantesca cacofonica distonia alla quale non si può prestare orecchio senza rischiare di impazzire. […] Avevo ballato, sí, ma da solo e non avevo indosso il meraviglioso frac che mi ero immaginato […]. Non ero Louis Armstrong, non ero neanche Bing Crosby, non ero Nat King Cole né Frank Sinatra.44

Thomas, il protagonista, non suonerà mai con Keith Jarrett così come il batterista co-protagonista della novella dinon troverà mai il giusto metro: «il tempo, il cosiddetto swing, la cosa più importante per chi suona jazz»45. In questo racconto, il protagonista si trova sulla scalinata della chiesa in cui si terrà il funerale del suo insegnante di batteria e afferma che un funerale degno per lui sarebbe «un funerale jazz alla maniera di New Orleans»46; tuttavia, in una città come Vicenza, «che con il jazz, per sua propria democratica e cristiana natura, non ha né potrà avere mai nulla a che fare»47, sarebbe ridicolo. L’arretratezza di Vicenza rappresentata dall’autore rispecchia la provincialità dell’arte italiana che si crogiola nelle glorie passate: «nella città del Palladio non c’è posto che per Palladio e per quanto al Palladio, possa essere ricondotto»48. Il «suonatore di batteria»49 si è suicidato e «la sera che gli era stata fatale», è proprio quella in cui per la prima volta ha potuto ascoltare dal vivo “il suonatore” che più «ammirava»50: Max Roach. I musicisti sono sempre protagonisti soccombenti, siano essi dilettanti, professionisti o grandi interpreti, anche viene rappresentato come un uomo solo e stanco:

Paul Motian […] dopo che per anni e anni, praticamente per tutta la sua vita, non aveva fatto altro che suonare in giro per il mondo, un giorno qua, il giorno dopo là, avanti e indietro per il mondo, attraverso tutti i locali di jazz di tutto il mondo, ormai aveva detto Paul Motian, così la persona della mia vita, i locali gli sembravano tutti uguali, e, in fondo, anche il pubblico, dovunque andasse: tutto uguale. Sì, dissi, mi ricordo, e allora? Niente, disse lei guidando, mi è sembrato come posso dire?, stanco. […] non ti è sembrato stanco? Sì, dissi rollandomi una sigaretta.

Come nel51 di Thomas Bernhard, non sono solo i mediocri a lasciarsi sopraffare, anche i grandi, i virtuosi, i musicisti di successo come Paul Motian sono stanchi del logorante dovere di ripetere infinitamente le stesse prestazioni. La figura del musicista diviene, in un personaggio tipo che convive con le contraddizioni e gli insuccessi dell’essere artista.
In alcuni casi la è il mezzo di una riflessione metatestuale:

Tutto, pensavo, scrive Thomas, tutto tutto, senza tralasciare nulla, tutto devo scrivere e lo scriverò come se fosse uno standard. Ma il tema non lo suonerò all’inizio, pensavo, comincerò direttamente dall’assolo, farò un lungo lunghissimo assolo, che nasconderà il tema fino alla fine. Il tema dev’essere alla fine, solo alla fine, scrive Thomas, perché non può che essere alla fine, e prima del tema, dopo l’assolo, ci sarà una coda, quanto lunga non so, ma una coda e poi il tema e dopo il tema un finale.52

In questo caso, Thomas e narratore, attraverso uno slittamento dalla terza persona alla prima, si sdoppiano ed esplicano che la musica funge da modello macro-strutturale dell’opera, facendo della tematizzazioneun’occasione di riflessione estetica.
La tematizzazione e il ricorso al linguaggio musicale-jazzistico per definire le proprie opere non è, per Trevisan, un mero «coronamento»53 decorativo, ma l’indizio più evidente di una imitazione intermediale consapevole.

4. La musicalizzazione della lingua, la microstruttura: e ricorrenze.
Se l’unico dato certo «dell’esistenza è […]: la sua “insensatezza”»54, come scrive Andrea Cortellessa in uno scritto su Trevisan, allora la mancata possibilità di senso comporta uno slittamento semantico: le parole divengono portatrici – invece che del significato referenziale extralinguistico – di una dimensione «acoustic»55, ovvero sonora, del significante, la quale viene messa in primo piano attraverso operazioni microstrutturali riscontrabili nelle opere di Trevisan. Molti sono i possibili esempi di imitazione, nei quali la musica diviene modello per la composizione linguistica e sintattica.
Nella musica, per via dell’asemanticità ad essa propria, sono le forze figurative ad apportare «significanza»56: accumulazione, successione relazionale delle parti, durata della rappresentazione e, infine, toni e ritmi. Allo stesso modo i frammenti sonori divengono l’unica traduzione possibile di una vita non comprensibile. Il Jazz non è solo un argomento nelle opere di Trevisan, ma si fa, appunto, stile. Come afferma Molina, «il jazz non deve stare nell’argomento ma nel polso dello scrivente: cosa che implica un’attitudine morale fatta di abbandono57 e controllo, ispirazione e disciplina, tecnica e pazzia»58.
Pertanto, si può affermare che in questo caso specifico la letteratura finisce per fare proprio un dispositivo che nella musica è indispensabile: il suono è costretto a divenire eco; una frase musicale solo se ripetuta «da informe diventa organica e l’arbitrario e l’insolito acquistano un senso più profondo. Succede così […] che la reiterazione dispieghi da se stessa una progressiva forza ammaliatrice»59. Similmente la prosa di Trevisan, per usare i termini di Susanne Langer, è «basata essenzialmente su unità minime di stile»60 che, ribattute, finiscono per creare una «significanza semantica e simbolica»61, frutto dell’equivalenza di significante e significato come portatori di senso. Come accennato sopra, per Wolf62 la musicalizzazione della letteratura avviene in tre modi: attraverso la , le analogie strutturali e le analogie tematiche. In particolare, la riguarda la lingua e i significanti: il testo può essere musicalizzato attraverso la messa in primo piano dei caratteri acustico-fonetici dei significanti, a discapito del significato referenziale del testo. Inoltre, un tratto distintivo della è la «self-referentiality» intesa come l’uso di ripetizioni e ricorrenze a diversi livelli: fonologico, sintattico, semantico e tematico. In presenza dei primi due ricorre anche un allontanamento dalle regole convenzionali della narrazione e della grammatica. Questi tratti appartengono, a tutti gli effetti, alla prosa di Trevisan, in un continuo procedimento linguistico-stilistico che si fa forma. Infatti, l’epanalessi è la figura chiave che struttura la frase, i sostantivi ripetuti divengono delle frasi-parola che danno al lettore l’impressione di un linguaggio sincopato. A tale proposito, è esemplificativo l’incipit in di il qualeesibisce questo tipo di musicalizzazione della prosa:

Niente al mondo mi fa più impressione dell’idea di morire in un letto d’ospedale, pensavo entrando in ospedale, , e l’ospedale di Vicenza mi fa più impressione di qualsiasi altro ospedale, più ancora di quello di Sandrigo, dove pure sono stato ricoverato prima ancora di nascere e nel quale ritornai venti anni più tardi, per farmi asportare una cosiddetta cisti pilonidale, operazione le cui conseguenze mi costrinsero a letto a pancia in giù per undici interminabili giorni, malgrado il chirurgo avesse detto trattarsi di cosa da nulla, e di cui porto ancora il segno sotto forma di una cicatrice tutta slabbrata della lunghezza di circa tredici centimetri, causa l’imperizia sartoriale dello stesso chirurgo, cicatrice che comunque nemmeno io sono in grado di vedere, vista la sua particolare posizione. Ai chirurghi, pensavo entrando in ospedale, non bisogna mai prestar fede. Non bisogna mai fidarsi di nessuno, ma dei medici bisogna fidarsi meno ancora che di nessuno.63

Qui, il primo livello del meccanismo compositivo ripetitivo è riscontrabile nella lingua. Come scrive Wolf riferendosi a Samuel Beckett, «il significato referenziale si riduce: questa decostruzione postmodernista del significato e supportata da alcuni dispositivi discorsivi salienti»64. Le parole ripetute, che divengono motivi ricorrenti, sono, in Trevisan: «ospedale», «operazione», «chirurgo», «cicatrice», la ripetizione è simmetrica e speculare. Le prime quattro occorrenze della parola «ospedale» formano due frasi , riproducendo fonosimbolicamente la situazione di asfissia in cui si trova il protagonista. L’aggettivo «più» viene ripetuto anaforicamente, instaurando un continuo stato peggiorativo evidenziato anche dall’omoteleuto con l’avverbio «giù», in ciò che è in realtà la descrizione di una situazione precisa, definita, fissata, anche se destinata a peggiorare nel tempo. La scrittura di Trevisan procede per anticlimax discendenti che strutturalmente equivalgono a progressioni musicali, con un meccanismo testuale che Gialloreto ha definito come un movimento “ritmico” discendente che «perpetua indefinitamente – per virtù stilistica di riverberazione e ripresa di un tema variato – la catena delle narrazioni continue di sconfitta offrendo il fermo immagine di un crollo permanente, ancora più angoscioso perché sfrutta materiali desunti dal mondo reale»65. Sono frequenti le incursioni di stilemi bernhardiani: ne è un esempio l’uso esteso dei deittici, mentre è frequentissimo quello dell’aggettivo “cosiddetto”, utilizzato per sfidare ironicamente il senso comune. Tale ridondanza segnala le verità universalmente riconosciute da sconfessare, denuncia un linguaggio specialistico vuoto che nasconde sotto la polvere le ingiustizie sociali. L’avversativa finale – come in questo caso – è anch’essa peculiare dello stile di Trevisan, come a sottintendere che la realtà è sempre peggiore di come appare. Altro stilema bernhardiano è l’uso dei alla terza persona: il discorso diretto è quasi sempre riportato senza l’uso di virgolette o punteggiatura introduttiva: «scrive Thomas, legge Davide». Talvolta, ci sono repentini cambi di persona che hanno la funzione di svelare al lettore la non attendibilità del narratore, persino l’io si scinde, diviene doppio. Come scrive Aubrey-Morici, «la scrittura di Trevisan incamera nella stessa sostanza la scomparsa. Abbiamo a che fare con un io fuggente e fingente che usa la terza persona […] per evitarsi e ritrovarsi «lontano da me stesso, tanto lontano da poterne parlare in terza persona»66.
L’uso della punteggiatura è piegato alle esigenze dell’alternanza suono-silenzio. Il fine è una lingua scritta per essere letta, e i punti e le virgole indicano pause drammaturgiche. Riporto come esempio il peculiare uso della virgola dopo un segno interpuntivo interrogativo nel racconto già citato: «[…] come posso dire?, stanco»67. La virgola, in questo caso, è una sorta di pausa musicale, un segno utile alla lettura. Come già detto, l’espansione sintattica avviene principalmente per anafora e altre volte per asindeto. Per descrivere tale paratassi asindetica è utile riprendere le parole con cui Luigi Severi profila i risultati di una simile scrittura sincopata in68 di Celati:

[…] una cadenza sincopata, tale da lasciare in secondo ordine la chiarezza dell’esposizione, a tutto vantaggio del disegno ritmico. In questo senso, l’impressione a tratti di una scrittura approssimativa, da appunto casuale e non rivisto, rende bene un clima da improvvisazione jazzistica, di cui il romanzo vuole essere la provvisoria partitura, e in cui la punteggiatura, che abdica alla sua funzione logica, si configura come sistema di pause […]69.

Qui, tutto dipende da un presunto tempo interiore70, da una continua oscillazione, che viene descritta nell’ultimo racconto di , poi destinato a divenire un monologo teatrale in versi.
Per quanto riguarda la invece, si noti la significativa ricorrenza di alcune parole, non in un solo costrutto sintattico, bensì nell’intera opera. Ad esempio, in , “mostro” ha trentatré occorrenze, la parola “morte” ed altri lessemi da essa derivati sono ripetuti ottantatré volte, sedici volte “funerale”, il verbo “camminare” viene usato cinquantadue volte, infine vi sono cinque occorrenze per il verbo “fuggire” e il sostantivo derivato “fuga”. Le ricorrenze lessicali divengono sentieri semantici e originano alcune isotopie: il campo semantico della fuga, della scomparsa, della mostruosità, della morte. Come spiega Gialloreto, le ripetizioni fanno avanzare la storia:

[…] spostando la messa a fuoco all’interno della vicenda narrata, la sensazione è che il ritorno ossessivo dei medesimi segnali verbali e la riproposizione beckettiana dei contenuti […] generino un duplice movimento testuale. Il primo fa avanzare la storia e determina lo sblocco dell’impasse psicologica. La ripetizione infatti è la sola forza che possa difenderci dall’incessante «crollo del passato nel presente», almeno per il fatto che ci dà modo di compiere ciò che si è lasciato in sospeso per demandarlo ad altri, alle proprie tragiche controfigure71.

Una simile ricorsività non può che diffondere un senso di pericolo e, come scrive ancora Gialloreto, «divenire nefasta». Le formule di negazione, che connotano e diffondono un senso di incertezza, sono anch’esse ripetute costantemente. A causa della ripetuta occorrenza di termini simili o opposti, il livello semantico si svuota e si ha l’impressione di essere immersi in una struttura musicale che non opera sul piano dei significati, ma su quello dei significanti. Come evidenziato da Ilaria De Seta72, la negazione è una delle figurazioni simmetriche più utilizzate dallo scrittore: «partire da un’osservazione, fare un’ipotesi scartandola per poi scartarne anche il suo contrario, con congiunzioni come “né” e “né”». Ad esempio: «La mia vita dipende da lui, perché di questo si tratta ormai: di una questione di vita o di morte, anche se questo né lui né nessun altro è minimamente in grado di capirlo»73 Non è solo un modo di ragionare ma un vero e proprio metodo di riduzione del pensiero: «Non so mai dove vado, perché guardo indietro, e non so nemmeno da dove vengo, perché correndo in avanti tutto ciò che vedo, all’indietro, diventa sempre piú lontano, e piú si allontana piú diventa indistinguibilmente lontano e non so piú nemmeno da dove vengo»74. La narrazione procede per continue catene di “no”, “nemmeno”, “neanche”, ed anafore di congiunzioni avversative e disgiuntive che non rappresentano però nessuna reale antinomiaL’illusione suprema non è esente dalla rin-negazione, l’amore viene presentato attraverso una fitta rete di negazioni:

Per l’amore non ho un lessico, sull’amore sono muto e cieco e sordo, non riesco piú nemmeno a sentirlo. L’amore non esiste piú, non per me. Forse è esistito, mi sembra di ricordare, ma è un ricordo ormai sfumato e certo non è in questa canzone, né nei milioni di altre canzoni del cazzo che parlano d’amore, né nelle valanghe di libri sentimentali o pseudoscientifici che parlano d’amore, e tanto meno nei chilometri di pellicole di cui sono composti i film e i telefilm che hanno per tema l’amore. L’amore non è piú nemmeno nella parola amore, che ormai ha perso ogni significato, perché io non le so dare alcun significato, perché è una parola abusata, strausata, usata a sproposito, sempre e di continuo e mai a proposito. Io non ho parole. Io non so.75

Anche il periodo ipotetico di primo tipo viene ripreso e negato; persino un’affermazione perentoria al tempo indicativo deve essere negata, e la dicotomia è sempre senza risoluzione: «se finisco presto magari ci vado, perché no? Ma in realtà tempo non ne avrei avuto»76. Aggiungo quest’ultimo esempio, Thomas sta parlando del suo editore, l’utopia della scrittura si pone come soglia tra vita e non vita, la disgiuntiva crea una simmetria inequivocabile:

[…] una questione di vita o di morte, anche se questo né lui né nessun altro è minimamente in grado di capirlo. Nessuno è in grado di capire che scrivere o non scrivere è una questione che implica per me anche il dilemma vivere o non vivere in funzione dello scrivere o non scrivere. Scrivere vivere non scrivere non vivere. E anche se a volte ho l’impressione che lo scrivere possa contenere il non vivere, non mi passa neppure per la testa l’idea che il vivere contenga il non scrivere.77

Usando le parole di Giglioli, come hanno dimostrato gli esempi nei testi di Trevisan, «di negazione in negazione, si torna scornati alla tautologia iniziale. Trevisan scrive perché  scrive»78:

Nessuno è in grado di capire che scrivere o non scrivere è una questione che implica per me anche il dilemma vivere o non vivere in funzione dello scrivere o non scrivere. Scrivere vivere non scrivere non vivere. E anche se a volte ho l’impressione che lo scrivere possa contenere il non vivere, non mi passa neppure per la testa l’idea che il vivere contenga il non scrivere.79

Le negazioni simmetriche, le disgiuntive e i periodi ipotetici sono così, per tornare al saggio di Ilaria De Seta, un tratto specifico della scrittura di Trevisan, che mette in evidenza la sua “firma” riconoscibile […]. Questa caratteristica di negazione/capovolgimento dà idea di una scrittura tormentata fatta anche di riflessione metalinguistica: contraddirsi, correggersi e infine negarsi»80.

5. Le pratiche compositive: differenza e ripetizione81.

Gli standard sono quei temi classici che tutti i musicisti jazz conoscono e hanno in repertorio. Eseguire uno standard significa ammettere un debito verso la tradizione e, nel contempo, affermare virtuosisticamente la propria individualità. Cosicchè spesso, per un musicista jazz, incidere un disco di standard è come dare il segnale della propria maturità, del raggiunto equilibrio tra ciò che si è ricevuto e ciò che si crede di poter dare. (gm)82

Con queste parole lo scrittore Giulio Mozzi chiosa i cinque racconti contenuti in In effetti, proprio questo titolo, alla maniera di Keith Jarrett, così come il sottotitolo di alla maniera di Bernhard, dimostrano la volontà di Trevisan di scrivere partendo dalla ripresa di un materiale preesistente, da una cultura condivisa, dalla ripetizione di motivi noti e di una struttura. Dichiarare tali riprese attraverso indicazioni peritestuali è in linea con la coerenza che l’autore dimostra nella scrittura come nella vita, è una testimonianza. Gli stessi temi vengono di volta in volta variati, approfonditi ed estremizzati. Come ha scritto Philippe Daros, ne consegue una scrittura di “incroci”: «una politica dell’“essere con”, un’etica dell’accoglienza»83.
Nell’ultima pagina di Trevisan indica i riferimenti puntuali per ognuno dei cinque racconti:Bernhard, Beckett, Kierkegaard, Dickens, Keith Jarrett. Citare intertestualmente o intermedialmente per poi improvvisare equivale per lui a un’operazione strutturale, modellata sul consueto procedimento compositivo delle variazioni su un tema e al genere dello standard, in cui sono presenti “temi” a partire dai quali i solisti improvvisano alcuni ritornelli, attraverso l’astrazione di “matrici” armoniche e melodiche84. Lo scrittore stesso dichiara in un’intervista a Daros di scrivere riprendendo questa prassi musicale:

P. Daros: […] È chiaro che il riferimento è esplicito […]. Perché lei sente il bisogno di riferirsi ad autori che fanno parte della sua biblioteca, che sono addirittura fondamenta della sua biblioteca e quindi della sua casa, dato che in molti dei racconti lei dice di vivere in un mondo pieno di libri, dal pavimento al soffitto? Perché ha questa ossessione di camminare con altri, seguire le orme di altri, attraverso una continua mescolanza del modo di scrivere?
V. Trevisan: È molto importante nella mia stessa vita, ma questa è una tautologia. Vorrei intanto precisare che ho suonato per molti anni musica jazz, la batteria per venticinque anni, poi mi sono fermato. Ho suonato molti standard ed è una pratica comune in questo tipo di musica, prendere un classico, suonarlo e renderlo proprio. E quando scrivo, faccio la stessa cosa, penso come un musicista. Ma è vero che anche in teatro si procede nel medesimo modo, con le riscritture, prendi l’opera di qualcun altro e la riscrivi a modo tuo, io l’ho fatto con un Goldoni, con Shakespeare. Parto dal principio secondo cui tutto ciò che trovo di utile, posso usarlo, dunque se voglio, lo rubo. E poi tutto ciò che è buono appartiene a tutti e quindi anche a me. Credo che sia permesso farlo, anche perché altri hanno già fatto la stessa cosa.85


Riprendere i temi variandoli, abbandonandosi ad essi, questa è la scrittura. Lo scrittore “improvvisa” divagando:

Quando scrivo ho una tendenza molto naturale a divagare, forse ancora di più quando parlo, il che è forse un problema. La domanda che mi interessa di più è: perché non abbandonarsi? Lo sforzo maggiore che faccio personalmente, quando scrivo qualcosa, è quello di abbandonarmi, cioè di non pensare, e poi di seguire la scrittura, un abbandono, di lasciarmi andare, di non avere il controllo. Naturalmente, se si vuole raccontare una storia, un minimo di ordine è necessario in questo flusso in cui cerco di abbandonarmi, senza farmi male, cioè senza perdermi. È un concetto forse difficile da spiegare, ma in teoria dovrei essere in grado di lasciarmi trasportare dalla corrente senza annegare.86

Uno standard inizia con una ripresa che poi diviene improvvisazione, ovvero «ciò che consente al jazzista di realizzarsi nel momento dell’esecuzione, quando, abolita ogni falsa distinzione tra corpo e spirito, fra desiderio e realtà, egli realizza una sorta di fisiogramma espressivo tendente a riprodurre in presa diretta la dinamica dell’inconscio»87, una scrittura aderente all’ispirazione momentanea senza restrizioni logiche, ma che sgorga dall’abisso:

Abbandonare, essere abbandonati, abbandonarsi, grande amore nel cuore per tutto ciò che è abbandonato. Desiderio a me ben noto, essere particolare, essere abbandonato, buio nel cervello. Il testo vacilla, la voce quasi si spegne. Il corpo sente l’angoscia ed è un dolore muto.88

La scrittura può divenire automatismo e quindi improvvisazione-digressione, a condizione di una consapevole padronanza della tecnica. Trevisan, ancora nell’intervista con Daros, definisce tale procedimento «abbandono», un modus operandi che descrive in queste righe dedicate al petrarchesco : «Ma ho notato più volte come i miei scritti tendono a divagare, allacciarsi, andare alla deriva, proprio come miei pensieri, perché resistere? Quando la corrente è troppo forte, la cosa migliore è lasciarsi andare, dimenticare almeno per una notte, quando è notte»89. Lo scrittore, in questo caso, improvvisa partendo dalla ripresa del celebre sonetto petrarchesco: il protagonista, proprio come il poeta, non vuole mostrare lo sguardo che «è abbastanza perché si accorgano del fuoco che mi consuma da dentro»90.
È importante notare che, nei termini musico-letterari di Wolf, anche le ricorrenze motiviche sono una attestazione rilevante di intermedialità musico-letteraria91. Vi sono motivi che l’autore riprende con maggiore frequenza, uno dei quali, in accordo con Claire Colin, è la rappresentazione negativa del nucleo famigliare: «si tratta della rielaborazione di uno standard letterario, mutuato [..] da Thomas Bernhard»92. Questo tema si ritrova, ad esempio, nel racconto contenuto nella raccolta , che riprende il racconto di Beckett, ma anche nella raccolta , o nelle pagine iniziali di , o al centro del In ogni caso, viene descritto lo stesso quadro con personaggi tipo, un padre inetto e assente, una madre anaffettiva, e una sorella avida; la stessa struttura narrativa si ritrova anche in , un sulla storia lavorativa dell’autore: «se Trevisan ha ripreso questo tema bernhardiano e lo ha sviluppato in variazioni sempre più elaborate, è soprattutto per ragioni personali, legate alla propria esistenza. Questa costante ripetizione di un motivo scritturale ripreso di libro in libro permette all’autore di sviluppare l’espressione della propria individualità»93. All’esclusione famigliare è indissolubilmente legato il tema dell’emarginazione: tutta l’opera di Vitaliano Trevisan si fonda infatti sulla concezione di un soggetto che è prima vittima e poi attore della propria esclusione.
Nel racconto il narratore si abbandona al ricordo: le prime due riprese tematiche sono esplicitate nel paratesto; ossia, il sottotitolo palesa il riferimento alla prototipica novella dell’orrore di Henry James94, mentre lo scrittore dichiara il riferimento all’omonima opera di Kierkegaard95. Sono questi i motivi da cui nasce l’improvvisazione, e, proprio come nel jazz, sono prototipi con una lunga storia alle spalle, espliciti, come afferma Colin: «il confronto con il modello originale è quindi costantemente presente nella mente dell’autore e del lettore, poiché il racconto sembra essere una “variazione” della trama originale, con un cambiamento di personaggi e luoghi»96.
Il racconto si apre in un cimitero. Il protagonista e sua madre visitano la tomba di un giovane, di cui un tempo tutte le ragazze del paese erano state innamorate, anche la madre stessa. Il giovane «era morto per amore, […], ma non si era ucciso, no, si era lasciato morire»97, dopo esser stato abbandonato da colei a cui aveva giurato amore eterno, per uno straniero. Questa parola viene ripetuta quattro volte in sei righe, ed infine il narratore afferma: «Sono sempre io lo straniero, ovunque mi trovi»98. Questo è un ricordo, una reminiscenza che coglie il protagonista mentre ripercorre quelle stesse zone guidando nella notte. La strada costeggia il mare, è ripida e tortuosa. È una delle tante fughe dei personaggi trevisaniani da una città che sta «molto lentamente, impercettibilmente, soffocando» il protagonista. Quest’ultimo viaggia in compagnia dell’inseparabile taccuino, un oggetto che accomuna questa fuga a quella del protagonista di .
Il protagonista è interessato allo straniero della tomba e si autoproclama straniero insistentemente, così facendo instaura un gioco di simmetrie e specchi secondo il modo di costruzione del racconto tipico di Trevisan, in cui il protagonista è sempre un “doppio”. Il riferimento a Camus99 è evidente e viene avvalorato nel corso del racconto dal senso di angoscia descritto e da affermazioni sulla propria presunta colpevolezza: «Forse era questo che volevo, sentirmi colpevole, ma di che cosa poi? Mi sarebbe bastato accettare l’idea che sì, ero stato crudele, cattivo, giovane, come ho già detto». L’“angoscia” e il senso di colpa fanno da contrappunto alla voce della fuga e dell’abbandono. Tanto il protagonista è rapito dal viaggio e dal ricordo, quanto è perseguitato dai sensi di colpa.
Altro tema a partire ripreso da Trevisan è100 di Pasolini. Il narratore, infatti, avvista delle luci in lontananza e coglie l’occasione per una digressione sulla scomparsa delle lucciole: «Ecco dove erano finite tutte le lucciole che da anni non vedevo più»101. Pasolini descrive il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla scomparsa delle lucciole, come di sostanziale continuità tra «fascismo fascista e fascismo democristiano», mentre Trevisan nei suoi racconti denota una sostanziale continuità tra fascismo democristiano e consumismo: i valori come chiesa, patria, famiglia, obbedienza, disciplina, ordine, risparmio e moralità nutrono il bieco consumismo della borghesia vicentina che mette in mostra automobili costose all’interno di recinzioni ancora più costose.
Il protagonista ripete poi nuovamente: «Io ero uno straniero»102. Si trova nella terra d’origine di sua madre, ma non ne conosce la lingua. Il motivo dell’estraneità viene poi modulato in «non conosceremo mai colui che gli altri vedono in noi», quindi su una sorta di ripresa dell’”io è un altro” di Rimbaud103, fino alla conclusione del racconto in cui, dopo una folle corsa verso la morte o oltre essa, il senso del racconto viene racchiuso nella frase nominale: «Un altro»104. Il protagonista, o forse il suo fantasma, si perdono nella foresta, un ennesimo vagabondaggio spaziale che rimanda invece ad un viaggio temporale, alla maniera borgesiana; lo straniero è infatti alla ricerca di un «sentiero».

6. Conclusioni.
Un’analisi tematica e stilistica può mostrare la complessità delle trame che caratterizzano le opere di Trevisan. I riferimenti sono espliciti, il “materiale” è incandescente; La digressione come tecnica di improvvisazione su materiale fondativo è l’intelaiatura che regge insieme i giganti in cui Trevisan si impersona, per «scrivere nella testa»105 il presente.
L’arte, che è imitazione, fonda se stessa su un triste sodalizio esistenziale, l’unico possibile, come afferma l’autore: «un’affinità (esistenziale) e non una paternità»106. Tuttavia, non si tratta propriamente solo di «»107 stilistica, ma di un processo compositivo, improvvisativo e digressivo che parte dalla ripresa di un modo di pensare, di essere nel mondo:

Tutti si ispiravano a Charlie Parker. Ma io mi sono sempre ispirato a Eric Dolphy, pur non suonando mai, dico mai, una sola volta un suo assolo. […] In realtà, attraverso la sua musica, io ho studiato il cervello di Eric Dolphy, continuando a chiedermi: ora Eric suonerebbe così?, così come lo sto sentendo in questa registrazione del 1961?,e subito dopo mi rispondevo che no, che lui, Eric Dolphy, così oggi non avrebbe più suonato. E allora come suonerebbe?, mi chiedevo, aveva detto McCastle, e provavo suonando a darmi una risposta, e a suonare ero io, capisce, ero io e non lui; di lui non avevo più nulla, eppure avevo il massimo che si potesse avere: il suo cervello dentro il mio cervello. Avevo proprio l’impressione, aveva detto McCastle, di avere dentro la scatola cranica due cervelli compressi uno sull’altro, o uno di fianco all’altro: il mio, naturalmente, e quello di Eric Dolphy. A volte, suonando, io avevo questa netta impressione di avere due cervelli. Lei mi capisce, non è vero?108

La descrizione del paradosso di pensare per due è presente anche nella coda di il protagonista Thomas, riferendosi al batterista Jack DeJohnette, afferma: «Jack non lo sa, ma io sono dentro di lui, sento tutto dall’interno e suono con lui»109. Una terza sovrapposizione di pensieri si trova nel secondo dramma teatrale di110: «A volte ho l’impressione di pensare con la sua testa/la sua testa dentro la mia testa/Sembra che a pensare sia lui /e invece sono io/sono io a pensare/ma in realtà è lui/ […] /Un pensiero suo pensato da me/Mio/un pensiero»111. Come spiega Morena de Bortoli, in questo caso «le tre donne di Defrag ricordano legami vissuti e spezzati, con un intrecciarsi di parole che formano un’unica voce, di cui ogni donna è una variazione, una voce unica che parla del medesimo passato, l’unico presente possibile teso verso qualcosa di sconosciuto»112.
La ripresa non è un tributo ai propri maestri, ma l’unica possibilità di avere una voce dopo la scomparsa dell’autore113 e la frammentazione del soggetto. Trevisan stesso descrive i suoi ultimi scritti come una «rete ipertestuale»114. Nel capitoletto contenuto inscrive: «il libro si compone di frantumi e di frammenti, frantumi se ritrovati nel passato, frammenti (particolari) quando più vicini al presente […].»115 e aggiunge una nota d’autore alla parola “particolari”, in cui cita questo stralcio da un articolo di Manfredo Tafuri su Carlo Scarpa116:

[…] ciò che appariva come una distesa di frammenti si rivela infatti un paesaggio da cui emergono riferimenti disponibili a un complesso gioco di riconoscimenti e alla ricomposizione di una rete di percorsi possibili. Solo che i fili che legano i percorsi sono tenui, così da permettere un’infinità di costellazioni. Sarà allora forse più corretto parlare, – per evitare equivoci- non di una poetica del “frammento”, per Scarpa, bensì di una poetica fatta di “figure”. Figure, non immagini né spezzoni nostalgici di totalità….

Troppo a lungo Trevisan è stato visto come epigono di Bernhard, è necessario andare oltre questa definizione che rischia di essere una semplificazione riduttiva. Al contrario, l’opera di Trevisan «si apre ad un’alterità, vi è un’impostazione comunitaria dell’atto dello scrivere»117 tale per cui si potrebbe definire questo «métissage»118 una dichiarazione di fratellanza ideale, una scelta consapevole e inevitabile costruita su percorsi possibili, fili, sentieri. «La pratica dello standard nell’opera di Trevisan» porta, secondo Colin, «all’affermazione di un ethos, quello dell’autore marginale»119, il quale, seppur separato dal mondo, ha bisogno di rivendicare la propria appartenenza ad una tradizione: «una voce al limite di sé stessa […], arrotolata in una biblioteca, in altri libri, in altre voci»120, come ha scritto Daros.
Scrivere, ripetere, riscrivere sono un modo per trasformare l’urlo sordo dell’uomo solo, i suoi «picchi di purissimo malessere ritmico»121, come li definisce Andrea Cortellessa, in una sovrapposizione di voci, a tratti indistinguibili, ma con un «accento autentico»122, come scrive Emanuele Trevi, ossia con un «segno paradossale di libertà inventiva» ed espressiva.

Note

  1. In particolare: V. Trevisan, , (1997), Einaudi, Torino 2003; Theoria, Città di Castello 1998; , Sironi, Milano 2002; , Einaudi, Torino 2004.
  2. A. Gialloreto, in «HETEROGLOSSIA. Quaderni di Linguaggi e Interdisciplinarità», 14, Macerata 2016, pp. 245-272.
  3. M. Foucault, 1966, trad. it. E. Painatescu, , Milano, Rizzoli, 1985, p. 398.
  4. D. Giglioli, , Quodlibet, Macerata 2011. , Quodlibet, Macerata 2011, p. 15.
  5. N. Huston, , trad.it. R. Bentsik, , Excelsior 1881, Milano 2009.
  6. V. Trevisan, , Sironi, Milano 2002, p. 10.
  7. Cfr. E.V. Zucchi, , «Antinomie», 27 giugno 2022 , ultima consultazione: 20 ottobre 2023.
  8. Intervista di P. Adamo, M. Malvestio e F. Tomasi, «Le parole e le cose. Letteratura e realtà», 25 maggio 2016, in https://www.leparoleelecose.it/?p=23115%3E, ultima consultazione: 11 luglio 2023.
  9. A. Gialloreto, cit.
  10. G. Mazzoni, , Il Mulino, Bologna 2011, p. 380.
  11. D. Giglioli, , cit., p. 15.
  12. V. Trevisan, , cit, p. 8.
  13. P. Adamo, M. Malvestio e F. Tomasi,, cit.
  14. A. Gialloreto, cit.
  15. Cfr. V. Trevisan, Laterza, Bari 2010. Qui lo scrittore esplora il territorio italiano e in particolare la «periferia diffusa» che accerchia il centro storico delle città venete: una realtà frammentata e dispersiva
  16. G. Pell, I quindicimila passi, «Forum Italicum », 2009, pp. 116-138; p. 130. (Traduzione mia)
  17. F. Tomasi, di Vitaliano Trevisan. In , a cura di M. Barenghi, G. Langella, G. Turchetta, 2012.
  18. Cfr M. Aubry-Morici, «», «Il verri», n. 65, 2017.
  19. V. Trevisan, , (1997), Einaudi, Torino 2003; . Un resoconto, Einaudi, Torino 2002; , Einaudi, Torino 2007.
  20. V. Trevisan, Theoria, Città di Castello 1998; , Sironi Editore, Milano 2002; , Einaudi, Torino 2004; , Einaudi, Torino 2009.
  21. S. Carretta, , Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 162.
  22. p. 163.
  23. J. Derrida, O. Coleman, (Notazioni sulla “Harmolodic Theory”), a cura di Samantha Maruzzella, Mimesis, Milano-Udine 2016, p. 22.
  24. W. Gruber, , , a cura di Luigi Reitani, Carocci, Roma 2006. pp. 129-130.
  25. S. Carretta, , Mimesis, Milano-Udine, 2019, p. 56.
  26. , p. 61.
  27. A. Cortellessa, in Le parole e le cose, 3 giugno 2016, , ultima consultazione 10 gennaio 2024.
  28. V. Trevisan, , Sironi, Milano 2002.
  29. W. Wolf, , Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1999, Wolf definisce l’intermedialità come una particolare forma di relazione intersemiotica complementare all’intertestualità, mentre la prima è monomediale la seconda è crossmediale.
  30. S.P. Scher, Erich Schmidt Verlag, Berlin 1984, p. 14.
  31. W. Wolf, in , cit., generalizza così i fenomeni di word music, analogie strutturali, analogie contenutistiche.
  32. Ivi, pp. 51-52, Wolf la definisce in questo modo: «una intenzionale modellazione del (discours) che influenza il materiale linguistico, l’arrangiamento formale, la struttura della narrazione, le immagini utilizzate e talvolta casi anche l’histoire ovvero il contenuto della narrazione».
  33. Ivi, p. 53.
  34. W. Wolf in , cit., pp. 57-67, le definisce: «Forms of implicit imitation of music in literature/fiction: ‘word music’, structural and imaginary content analogies to music, general and specific imitation and the problem of verbal music».
  35. Ivi, p. 58.
  36. W. Wolf, , cit., p. 85
  37. Ivi, p. 52.
  38. Ivi, nella nota Wolf si dimostra consapevole della diffidenza nei confronti dell’uso dell’intenzione letteraria come argomento interpretativo, ma poi ne riconosce la capitale importanza, se congiunto agli altri elementi (p. 73).
  39. E. Trevi, «Corriere della Sera», 6 gennaio 2023, https://www.corriere.it/cultura/23_gennaio_06/sorriso-dolente-trevisan-5bebdf18-8de4-11ed-a8d9-c0827d0f659f.shtml, ultima consultazione 15 settembre 2023.
  40. La citazione di una precisa opera preesistente o di un preciso genere, in W. Wolf, , cit., p. 46.
  41. W. Wolf in , cit., p. 56.
  42. ECM, Manfred Eicher, Power Station, New York 1983.
  43. V. Trevisan, , (1997), cit, pp. 143-144.
  44. V. Trevisan, , (1997), cit, p. 145.
  45. Ivi, p. 41.
  46. Ivi, p. 35.
  47. p. 37.
  48. Ivi, p. 35.
  49. Ivi, p. 37, un’espressione che Trevisan riprende da Bernhard.
  50. Ivi, p. 36.
  51. T. Bernhard, Trad. it. di R. Colorni, Adelphi, Milano 1985.
  52. V. Trevisan, , cit., p. 146.
  53. W. Gruber, , , a cura di Luigi Reitani, Carocci, Roma 2006. p. 134.
  54. A. Cortellessa, , cit.
  55. W. Wolf, , Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1999, p. 15
  56. S. Langer, (1953), trad. it. L. Formigari, , Feltrinelli, Milano 1975, p. 48.
  57. Proprio “abbandono” è la parola che utilizza Trevisan nell’intervista con Philippe Daros per descrivere la sua scrittura improvvisativa.
  58. G. Rimondi, cit., p. 114.
  59. V. Jankélévitch, in (1961), trad. it. E. Lisciani- Petrini, Bompiani, Milano 1998, p. 20.
  60. L. Marangolo, «Critica Letteraria», 196, 2022, p. 677.
  61. Cfr. S. Langer, , cit., p. 45.
  62. W. Wolf, , cit., p.56.
  63. V. Trevisan, , cit.p. 5.
  64. Così Wolf su Beckett, in , in , cit., pp. 183-193.
  65. A. Gialloreto, cit., pp. 245-272.
  66. M.Aubry-Morici M., «», Il Verri, n. 65, ottobre 2017.
  67. V. Trevisan, , cit, p. 73.
  68. G. Celati, , Feltrinelli, Milano 1978.
  69. L. Severi,Lunario del paradiso,«Ellisse», 2, 2007, pp. 234-235.
  70. V. Trevisan, , cit., pp. 90-91.
  71. A. Gialloreto, ,cit., pp. 245-272.
  72. I. De Seta, , «Le parole e le cose²», 2 febbraio 2023, , ultima consultazione 10 febbraio 2023.
  73. V. Trevisan, , cit., p. 7.
  74. V. Trevisan, , cit., p. 45.
  75. Ivi p. 96.
  76. Ivi, p. 6.
  77. Ivi, p. 7.
  78. D. Giglioli, ., in Antinomie 22 febbraio 2023, https://antinomie.it/index.php/2023/02/22/come-lavorava-trevisan-preliminari/ , ultima consultazione 3 ottobre 2023.
  79. V. Trevisan, , cit., p. 7.
  80. I. De Seta, , cit.
  81. Cfr. G. Deleuze, , (1968), trad. it. Giuseppe Guglielmi, Raffaello Cortina Editore, Azzate 1997.
  82. Così Giulio Mozzi, a chiusura di , cit.,p. 123.
  83. P. Daros, , in S. Bedrane, C. Colin, C. Lorre-Johnston, , Garnier, Paris 2019, p. 292.
  84. Cfr. P. Michel, , «Volume!»,vol. 7 n. 2, 2010, < https://journals.openedition.org/volume/716>, ultima consultazione: 20 gennaio 2023
  85. P. Daros in Bedrane, Colin, Lorre-Johnston, , cit., pp. 391-399
  86. P. Daros cit., p. 393.
  87. G. Rimondi, Mondadori, Milano 1999, p. 117.
  88. V. Trevisan, , Einaudi, Torino 2009. p. 93.
  89. V. Trevisan, , cit., p. 91.
  90. Ivi, p. 92.
  91. W. Wolf, , cit. p. 57.
  92. C. Colin, , «Fabula-Les colloques», II, , , 10 janvier 2023, https://www.fabula.org/colloques/document8847.php, ultima consultazione il 2 giugno 2024.
  93. C. Colin, cit.
  94. H. James, (1889), trad. it. L. Manini, Bompiani, Milano 2018.
  95. S. Kierkegard, , (1845), trad. it. R. Garaventa, Il nuovo melangolo, Genova 1999.
  96. C. Colin, , cit.
  97. V. Trevisan, , cit., p. 75.
  98. Ivi, p. 76.
  99. A. Camus, (1942), trad. it. S.C. Perroni, , Bompiani, Milano 2015: vengono ripresi da qui temi quali l’estraneità a sé stessi, l’angoscia, la figura materna, la colpa.
  100. P.P. Pasolini, , (1975), Garzanti, Milano 2008, pp. 128-134.
  101. V. Trevisan, , cit., p. 80.
  102. V. Trevisan, , cit., p. 82.
  103. Similmente, in Trevisan paragona il suo sbarco in Nigeria ai viaggi di Arthur Rimbaud: «Rimbaud trafficava in armi, io venderò pezzi di ricambio […]», p. 7.
  104. V. Trevisan, , cit., p. 82
  105. V. Trevisan, , cit., p. 21.
  106. G. Policastro, «Le parole e le cose²», 12 agosto 2019, https://www.leparoleelecose.it/?p=36355, ultima consultazione 25 gennaio 2023.
  107. V. Santoro, in , Quodlibet, Macerata 2010, pp. 26-27.
  108. V. Trevisan, , cit., p. 19-20.
  109. V, Trevisan, , cit., p. 116.
  110. V. Trevisan, , Sironi, Milano 2004.
  111. Ivi, p. 41.
  112. M. De Bortoli, , «Studi novecenteschi», 2, 2006, pp. 297-304.
  113. Come spiega Gregory Pell in I quindicimila passi, cit.: «nel suo gioco retorico, Trevisan mette deliberatamente alla prova i lettori, non si deve confondere la finzione e qualsiasi forma di realtà, e nel frattempo fa la parodia della nozione ormai piuttosto stantia — avanzata da Barthes e Foucault — della morte dell’autore. Scrivo ‘parodie’ perché nelle interviste Trevisan lascia intendere che concorderebbe con Carla Benedetti nel suo , sul fatto che, semmai, la nozione di autore è ancora abbastanza rilevante: «[…], anzi la sua funzione non è mai stata tanto forte e centrale come nella comunicazione odierna».
  114. M. Aubry-Morici, , «Il verri», 65, 2017, p. 98.
  115. V. Trevisan, , Einaudi, Torino 2022, p. 21.
  116. M. Tafuri, , in C. Scarpa,, Electa, Milano 1984.
  117. P. Daros, Honoré Champion, Parigi 2012, p. 147.
  118. Ibidem
  119. C. Colin, , cit.
  120. P. Daros, , cit., p. 290.
  121. A. Cortellessa, cit.
  122. E. Trevi, , «Il manifesto», 1 marzo 2007, https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003105591, ultima consultazione 3 gennaio 2023.

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