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La figura del compositore come specchio dello scrittore nella letteratura italiana contemporanea
di , numero 57, giugno 2024, Didactica, DOI

La figura del compositore come specchio dello scrittore nella letteratura italiana contemporanea
Come citare questo articolo:
Nicola Vavassori, La figura del compositore come specchio dello scrittore nella letteratura italiana contemporanea, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 43, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11654

1. Le dicotomie del doctor faustus di Thomas Mann
La scrittura e la composizione musicale rappresentano due arti estremamente affini, tanto che spesso si influenzano a vicenda, fino a fondersi. Basti pensare alla partitura e al libretto di un’opera teatrale: due elementi che non possono prescindere l’uno dall’altro e che, nel processo di creazione artistica, vengono costantemente rimaneggiati affinché si fondano armonicamente in uno che li comprenda entrambi. Esistono poi brani ispirati apertamente a opere letterarie, come In der Nacht di Schumann, che mima il racconto ovidiano di Ero e Leandro1. E non mancano romanzi la cui struttura si rifà a precisi schemi musicali, come è spiegato approfonditamente da altri saggi di questa raccolta. Scrittore e compositore, insomma, possono trovarsi in stretta relazione e, in generale, hanno molto in comune: demiurghi di arti parallele, si trovano entrambi alle prese con una materia duttile, capace di creare mondi, siano essi fatti di parole o di note.
Non c’è da stupirsi, allora, che un autore assuma il punto di vista di un musicista per tracciare il ritratto di un’epoca e di un animo umano attraverso il linguaggio di un’arte diversa ma affine alla propria, così da portare alla luce alcuni aspetti del mondo a cui la sola scrittura, forse, non potrebbe accedere. L’esempio più celebre è senza dubbio il Doctor Faustus di Thomas Mann, un’opera enciclopedica dove musica e scrittura sono incarnate rispettivamente dal compositore Adrian Leverkühn e dal professor Serenus Zeitblom. La relazione tra questi due personaggi potrebbe essere considerata un paradigma della dicotomia presa in esame. Zeitblom, pur essendo un umanista, si appassiona alla musica fin da bambino e collabora con l’amico compositore, ad esempio realizzando il libretto di una sua commedia, Love’s Labour’s Lost. Dal canto suo, Leverkühn, consulta molte opere letterarie per prepararsi alla composizione musicale e, nel capitolo centrale del romanzo, ricorre lui stesso alla scrittura per raccontare in prima persona il proprio incontro con Mefistofele – reale o fittizio che sia –, e lo fa scrivendo su fogli musicali, negli interstizi tra un pentagramma e l’altro2.
I due personaggi, d’altronde, potrebbero essere interpretati come alter ego di Thomas Mann, nell’animo del quale coesistevano entrambe le passioni. L’autore, infatti, aveva una solida formazione musicale e si dilettava a suonare il violino, l’organo e il pianoforte3. In un certo qual modo, però, Zeitblom e Leverkühn possono personificare anche due tendenze opposte presenti non solo in Mann, ma in ogni individuo. Del primo personaggio spicca il carattere razionale, equilibrato, intellettuale, che riflette con cautela sulle scelte proprie e dell’amico, ben consapevole della complessità dell’animo umano e abile nel fornire un punto di vista oggettivo e insieme empatico sull’intera vicenda. Adrian, invece, è il ritratto geniale e ribelle di un uomo tormentato dal conflitto, tra il desiderio perfezionista di creare opere immortali e la consapevolezza di non poterlo fare senza scendere a compromessi, o sacrificare i rapporti sociali e la propria integrità morale. Il musicista incarna, ad un tempo, il destino di Faust, la follia di Nietzsche e la teoria musicale di Schönberg4. Si potrebbe dire che, in questa rappresentazione, l’uomo scrittore detenga un potere ordinatore, razionalizzante, cauto, mentre l’uomo compositore maneggi qualcosa di più inafferrabile e istintuale. Zeitblom e Leverkühn non rappresentano soltanto la scrittura e la musica, ma sono anche lo spirito apollineo e lo spirito dionisiaco di Nietzsche, la razionalità armonica e la passione caotica – o faustiana, appunto.
Non c’è dubbio che nell’opera di Mann tale dicotomia sia presente e ben delineata, ma sarebbe rischioso estenderla aprioristicamente anche agli altri autori. Ciò non toglie che questo sia un presupposto necessario per osservare come la figura del compositore sia stata raccontata dalla letteratura: un individuo dalla magmatica vita interiore, che abita un confine labile tra la genialità e la follia e che, spesso, non può prescindere dal confronto con la materia letteraria.
Recentemente, nella narrativa italiana contemporanea, sono comparsi diversi romanzi che ruotano attorno alle vicende biografiche – reali o fittizie – di alcuni compositori. Un esempio è Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena, dove la vita del compositore tedesco è raccontata dalla penna di sei personaggi diversi, tra cui altri musicisti come Christian Reimers e Johannes Brahms. Ancora, Marie e il signor Mahler di Paola Capriolo racconta dell’incontro tra una ragazza tirolese e il compositore austriaco, nelle ultime estati della sua vita. E molto più celebre è Novecento, il monologo teatrale del 1994 in cui Alessandro Baricco immagina la storia di un geniale pianista jazz nato e cresciuto a bordo di una nave transoceanica.
Per il presente saggio si è deciso di selezionare, da questo filone, due romanzi – Stabat Mater di Tiziano Scarpa e Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia – che permetteranno di approfondire, da prospettive diverse, le modalità di rappresentazione del compositore in letteratura, con particolare attenzione al rapporto che si instaura, nella finzione narrativa, tra il compositore e la letteratura. Stabat Mater (Einaudi, 2008) è il diario di una giovane orfana violinista, Cecilia, che, nell’Ospedale della Pietà di Venezia, scrive pensieri dedicati alla madre mai conosciuta, raccontando la propria inquietudine nei confronti della morte e l’epifania di un incontro con Antonio Vivaldi. Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri 2019), invece, è la biografia fittizia di Carlo Gesualdo di Venosa, ritrovata da un Igor’ Stravinskij – o presunto tale – che la chiosa con i propri commenti. Entrambi i romanzi hanno ricevuto dei riconoscimenti prestigiosi: Stabat Mater ha vinto il Premio Mondello e il Premio Strega nel 2009, mentre Madrigale Senza Suono ha vinto il Premio Campiello 2019, a testimonianza del successo di pubblico per i romanzi che trattano questo tema.
I due testi sono stati scelti poiché consentono di riflettere in modo più specifico sugli elementi che la scrittura e la composizione musicale hanno in comune. Inoltre, il fatto che ciascuna di queste opere metta in scena un musicista che ricorre alla scrittura per tentare di riordinare la propria vita, permette di approfondire ulteriormente il rapporto dicotomico tra le due pratiche. Infine, bisognerà chiedersi quanto questa dicotomia, ereditata dalla tradizione del Doctor Faustus, si ponga come efficace rappresentazione della realtà.

2. Mondo interiore e mondo esteriore in Stabat Mater di Tiziano Scarpa
Nel personaggio di Cecilia, protagonista di Stabat Mater, coesistono la figura della musicista e della scrittrice: l’intero libro, infatti, è un diario – quasi una raccolta di frammenti – che la ragazza aggiorna ogni sera, raccontando ciò che le accade nell’Ospedale della Pietà di Venezia. Qui impara a suonare il violino e si esibisce per i fedeli senza mai mostrarsi loro, oscurata dalle grate della chiesa. Pur essendo una delle musiciste più promettenti tra le compagne, rimane lacerata da un senso di imperfezione e inadeguatezza di fronte a Dio.
Cecilia scrive le proprie riflessioni notturne su vecchi spartiti musicali, negli interstizi bianchi tra un pentagramma e l’altro, proprio come Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus e Carlo Gesualdo in Madrigale senza suono. Questo gesto emblematico (che compare anche in altre opere, come Memoriali sul caso Schumann) ha suggestionato la maggior parte degli autori che si sono occupati dell’argomento, fino a renderlo un topos letterario. In effetti, è immagine tangibile e immediata della fusione tra scrittura e composizione musicale poiché le parole prendono il posto delle note sullo spartito. Nella finzione letteraria, dunque, le due pratiche sono accomunate prima di tutto sul piano materiale: carta e inchiostro sono i medesimi strumenti del mestiere che, in base a come vengono adoperati, possono dare vita ad un romanzo oppure a una partitura. È la stessa Cecilia ad identificarsi nella dicotomia di «musica e parole5», paragonando la ricerca di ritagli di tempo per sé al posizionamento delle parole tra uno spartito e l’altro.
Il “Voi” a cui Cecilia si rivolge nel diario è la madre mai conosciuta e che, lungi dall’essere un riferimento di calore e affetto, per la ragazza rappresenta piuttosto un idolo vuoto, dal quale non arriva alcuna risposta, tanto che la sua stessa esistenza è messa in discussione. Si tratta quasi di un dio e, se da un lato richiama la Vergine Maria, dall’altro sembra non avere nulla a che fare con la nascita e la fertilità ma, se mai, essere molto più vicina a concetti come l’abbandono e la distanza. Cecilia però ha anche un’altra interlocutrice nei suoi scritti: la propria Morte, a cui dà del “Tu”. Della Morte, solo la testa si affaccia dal letto a castello sopra quello della ragazza, con serpenti neri al posto dei capelli: è un gorgòneion con testa apotropaica della gorgone medusa ghignante, che contiene in sé il doppio significato di morte e resurrezione6. La Morte – in un continuo dialogo che ricorda quello di Socrate con il suo daimon – rimprovera e provoca Cecilia, seppur bonariamente, le sta accanto e la accompagna nelle sue riflessioni. Si potrebbe dire che sia lei la vera figura genitoriale che veglia sulla ragazza, se non addirittura una sorella gemella, nata con lei dalla stessa madre.
Le riflessioni sulla figura materna e il dialogo con la Morte avvengono entrambe su carta. È solo grazie alla scrittura privata del diario che la ragazza riesce a meditare sulla propria vita, a tradurre in parole le proprie idee e, in qualche modo, a mettervi ordine. Questo fenomeno, che autori di tutte le epoche hanno intuito empiricamente, oggi è studiato anche dalla psicologia, che parla di “defusione cognitiva”7. Con questo termine si indica il processo attraverso il quale un individuo prende la distanza dai propri pensieri e smette di identificarsi con essi, riuscendo a ponderarli con maggiore lucidità e obiettività. Ci si può “de-fondere” dalle proprie idee in diversi modi, anche piuttosto immediati, ad esempio canticchiando un pensiero negativo su un motivetto allegro. Sicuramente, però, scrivere è una delle strategie più efficaci per raggiungere questo scopo, perché permette di trasferire le proprie riflessioni su un supporto tangibile, così da poterle fisicamente osservare dall’esterno, percependosi come separati da esse. Seppur nel XVIII secolo non fosse al corrente delle ultime scoperte della psicologia contemporanea, Cecilia esplicita fin dalle prime pagine la funzione terapeutica che ha per lei la scrittura. Indica questa azione con deittici spaziali e avverbi di luogo, come se si trattasse di un luogo sicuro dove rifugiarsi quando è presa dalla paura nel cuore della notte: «Signora Madre, ho imparato che quando mi succede, e mi succede ogni notte, non debbo assolutamente restare distesa nel letto a tormentarmi, devo alzarmi e venire qui da voi8».
Cecilia – scrittrice improvvisata ma strumentista provetta – seppur non rifletta mai esplicitamente sull’azione terapeutica e ordinatrice della scrittura, attribuisce ben più consapevolmente la stessa funzione alla musica, che definisce come «la cosa che più assomiglia a un’idea pura. La musica è l’idea fatta cosa fuori di noi9». Quest’ultima espressione, in particolare, rispecchia molto bene il concetto di “defusione”. Certo, non si tratta dell’unica accezione con cui la musica viene tematizzata dal romanzo, tuttavia è una delle più importanti. Non a caso, nella scena finale, Cecilia compie la sua ultima catarsi suonando il violino per un giorno intero, senza fermarsi, come se fosse una menade in preda a una trance estatica. Alla fine, esausta, crolla a terra10. È solo questo intenso atto musicale che le permette di rielaborare alcune delle esperienze traumatiche vissute nella seconda metà del romanzo. Infatti, a differenza delle lunghe riflessioni scritte a cui si era dedicata fino a quel momento nel suo diario, stavolta Cecilia si trattiene dalle parole, è reticente. Dopo aver suonato, ha solo bisogno di un breve paragrafo per concludere la storia, senza aggiungere altro. È come se, infine, l’ultima “defusione” fosse avvenuta non più tramite la scrittura, ma nella musica.
L’incontro con Don Antonio Vivaldi, nuovo insegnante di violino dell’Ospedale, aggiunge un ulteriore tassello. Il compositore veneziano, infatti, mostra a Cecilia che la musica non è soltanto un potente medium in grado di dare forma al proprio mondo interiore, ma costituisce anche uno strumento efficace per descrivere il mondo esterno. Per un’orfana, che non ha mai messo piede fuori dall’edificio in cui è stata abbandonata, questa nuova consapevolezza è perturbante. Cecilia è convinta che «le uniche cose che la musica è in grado di imitare sono le nostre idee11». Allora, quando Don Antonio la incoraggia, per esempio, a riprodurre con il violino il cinguettio delle rondini – come la ragazza si diverte a fare per conto proprio quando insegna alle sue alunne più piccole –, Cecilia si sente scoperta e se ne vergogna come di un’abitudine infantile o, peggio, profana12. Per questo motivo, interpretare Le quattro stagioni rappresenta per Cecilia un’esperienza sconvolgente. L’esecuzione della Primavera è raccontata come un’ekphrasis musicale della natura; la musica imita gli uccelli, il vento, le mosche, descrive il ballo dei contadini e dei pastori, l’arrivo di un temporale. E la ragazza se ne sente travolta:

«Io ero la traduzione musicale di quelle cose, ero tutto il mondo in versione violinistica. […] Sono stata attraversata dal tempo e dallo spazio, e da tutto quello che essi portano dentro. Alla fine, ero stravolta, in un’ora io sono stata musicalmente grandine, musicalmente afa, musicalmente gelo, musicalmente tepore […]13»

Le Quattro Stagioni sono concepite in modo tale da evocare immagini o rappresentazioni sensoriali della realtà. L’intento ecfrastico dei concerti è sottolineato dal fatto che Vivaldi abbia arricchito la sua composizione con un “programma musicale”, ovvero una descrizione testuale di ciò che la musica cerca di rappresentare. Si tratta di quattro sonetti, forse composti dallo stesso Vivaldi, ciascuno dei quali è suddiviso in tre parti, come i tre movimenti di cui si compone ogni concerto. Queste annotazioni narrano elementi specifici della natura, come appunto il canto degli uccelli, il mormorio dei ruscelli e gli improvvisi temporali primaverili, con lo scopo di accompagnare il pubblico nell’ascolto14. Anche in questo caso, non è difficile notare un ultimo parallelismo con la scrittura: l’ekphrasis, dopotutto, nasce come pratica prettamente scritta. In questo senso, Antonio Vivaldi adopera la musica proprio come un narratore e la affianca a delle poesie che hanno lo stesso compito del concerto, descrivere il mondo.
Vivaldi, dunque, insegna a Cecilia il duplice valore della musica e, implicitamente, anche quello della parola: essa non solo ci permette di tradurre il nostro mondo interiore, ma consente anche di descrivere il mondo esterno. È questo uno dei motivi che portano Cecilia a decidere infine di abbandonare l’Ospedale per conoscere davvero quel mondo di fuori che ha esperito grazie alla musica di Antonio Vivaldi.

3. Il rapporto con i modelli della tradizione in Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia
Da Tiziano Scarpa, Andrea Tarabbia riprende le tinte pulp della letteratura cannibale. In Stabat Mater – che pur non si potrebbe dire davvero parte di questo filone – compaiono sporadicamente delle scene piuttosto crude, come il macello di un agnello. Madrigale senza suono è molto più esplicito e, tra omicidi sanguinari e mostri rinchiusi nelle segrete di un castello, trasporta il lettore indietro di un secolo rispetto all’Illuminismo di Vivaldi, in un tardo Rinascimento che ancora si trascina dietro le ombre dell’immaginario medievale.
La vicenda racconta la vita e soprattutto la morte del nobile compositore napoletano Carlo Gesualdo, principe di Venosa. Chi sia effettivamente il narratore della storia è difficile a dirsi, dal momento che gli avvenimenti sono inseriti in una complessa cornice narrativa metaletteraria, cui si possono attribuire diverse interpretazioni. Lo stesso statuto di verità del libro è ambiguo e mette continuamente in discussione se stesso. A ritrovare la biografia di Carlo Gesualdo di Venosa e a inviarla al professore e musicologo americano Glenn Watkins15, è un individuo che si firma “Igor’ Stravinskij” e che dice di aver ricevuto l’opera da un uomo misterioso, in una bottega di libri nel paese natale del compositore16. L’autore della biografia, invece, si firma “Gioachino Ardytti”17 e dice di essere un fedele e deforme servitore di Carlo Gesualdo, anche se di lui non parla alcuna fonte storica, nemmeno nella finzione narrativa18. Pertanto, le ipotesi formulate dal presunto Stravinskij a proposito dell’autorialità del manoscritto sono tre: che sia un falso, che sia autentico e scritto proprio da Gioachino, che sia autentico ma scritto dallo stesso Carlo Gesualdo come un’autobiografia in terza persona. A queste si aggiunge una quarta ipotesi, formulata dal professor Watkins, ossia che il manoscritto sia opera di Stravinskij, o dell’uomo che si finge tale. Più precisamente, Watkins ipotizza che Stravinskij, intento a comporre il suo Monumentum pro Gesualdo da Venosa, si sia identificato con lui a tal punto da riscriverne la storia19.
Ecco allora che il romanzo offre ben due esempi di compositori storicamente esistiti che si fanno scrittori. Fuor di metafora, Andrea Tarabbia veste i panni di Carlo Gesualdo e contemporaneamente di Igor’ Stravinskij, narrando in prima persona il racconto dell’uno, tracciato dall’altro. Questo gioco di specchi mette in relazione l’autore e i due compositori, accomunati dal rapporto con la tradizione, musicale o letteraria che sia.
L’opera di Carlo Gesualdo da Venosa si colloca all’inizio del Seicento e riguarda principalmente la forma del madrigale, a cui dedica sette raccolte, di cui l’ultima è rimasta incompiuta20. Il madrigale è una forma musicale basata su testi poetici di tematica profana, che ha avuto origine nell’Italia del Trecento ed è riemersa come importante genere artistico durante il Rinascimento. Di nuovo, una forma di interazione tra musica e poesia: il compositore deve interpretare il testo poetico e trasformare le parole in una partitura cantata, cercando di tradurne le emozioni, i simboli, le metafore. Ad esempio, si utilizzano scale discendenti per enfatizzare concetti come la caduta, la discesa, il peccato; le dissonanze vengono adoperate per sottolineare il dolore fisico o psicologico; le pause possono mimare un sospiro, un’attesa. A volte il compositore può ricorrere addirittura a quelli che vengono chiamati “madrigalismi”, una scrittura visuale delle note che, anche dal punto di vista grafico, si dispongono in modo da rievocare determinate immagini, come le onde del mare21. Nella vita del principe di Venosa, questo connubio tra le due arti si concretizza nella collaborazione con Torquato Tasso, che scrive nove madrigali e una canzone, poi musicati da Carlo Gesualdo e inseriti nelle sue prime due raccolte22.
All’epoca di Gesualdo, alcuni grandi compositori rinascimentali come Claudio Monteverdi, Luzzasco Luzzaschi e Luca Marenzio stavano apportando innovazioni significative alla madrigalistica23. Monteverdi, ad esempio, introduce lo stile del basso continuo24 e lo stile concertato25, svincolando il madrigale italiano dal rigore tipico delle composizioni polifoniche tradizionali. Queste tecniche, infatti, consentivano una maggiore flessibilità nell’accompagnamento musicale e un maggior ventaglio di interpretazioni possibili, oltre a lasciar spazio all’espressione emotiva facendo emergere, con più decisione, i punti di contrasto tra testo e musica. Al contrario, Carlo Gesualdo, pur nell’innovazione, mantiene un saldo contatto con la tradizione: le sue sei raccolte di madrigali si attengono alle regole del contrappunto, che stanno alla base della composizione polifonica26. Le innovazioni della musica di Gesualdo, dunque, non stanno tanto nel suo discostarsi dal canone, quanto piuttosto nelle strategie impiegate per rimaneggiare il canone stesso. Ciò accade soprattutto negli ultimi due libri di madrigali, i più sperimentali, pubblicati nel 1611. Qui l’espressione delle passioni è resa attraverso l’impiego di armonie e progressioni cromatiche audaci, la cui inaspettata dissonanza riesce a tradurre un’intensità emotiva unica27. E pur Gesualdo non si discosta dalle leggi fondamentali del contrappunto, bensì le spinge fino a limiti espressivi mai raggiunti prima28. Queste innovazioni armoniche anticipano lo stile barocco – tipico ad esempio dello stesso Vivaldi – e fanno di Gesualdo un ambasciatore della tradizione e, insieme, un precursore della modernità.
È proprio per questa ragione che un compositore come Igor’ Stravinskij decide di rielaborare l’opera del principe di Venosa. In particolare, tra il 1956 e il 1959, il compositore russo ne riprende la canzone Illumina Nos, l’unica a sette voci, che completa riscrivendo le due voci mancanti, mai ritrovate, cioè la sesta e il basso. In questa operazione, Stravinskij attua una traduzione ulteriore: volge il cantato dei madrigali in una versione strumentale, completando la metamorfosi già iniziata da Gesualdo, dalla poesia alla musica pura29. Nel 1960, Stravinskij ripete l’operazione con tre madrigali del principe, realizzando il famoso Monumentum pro Gesualdo da Venosa30, eseguito per la prima volta nel Palazzo Ducale di Venezia, il 27 settembre, momento che dà avvio la narrazione di Madrigale senza suono.
Anche se Stravinskij sosteneva di non voler leggere se stesso in Gesualdo31, le corrispondenze tra i due compositori sono evidenti. Infatti, nel suo periodo neoclassico, Stravinskij rifugge i concetti romantici come l’ispirazione libera dell’artista, che anzi considera un ostacolano per l’ordine della tecnica musicale32. Il miglior modo per realizzare tale principio di equilibrio, secondo il musicista russo, è inserirsi nel solco della tradizione, riprendendo forme corroborate dal tempo, non come un ostacolo per la creazione artistica, ma come guida dalla quale non si può prescindere; non «testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa il presente di sé33», perché «garantisce la continuità della creazione34». Per questa ragione, Stravinskij, a partire dal 1919, imposta la struttura di molte sue opere mimando forme antiche, al tempo considerate banali (come fugati, oratori e balletti classici), non tanto per ricrearne la cornice tradizionale, quanto per richiamarla con allusioni parodiche35. Un paio di esempi basteranno. A proposito dell’arrangiamento di alcuni temi di Pergolesi in Pulcinella, è lo stesso Stravinskij ad affermare: «che il risultato fosse in un certo senso una satira era forse inevitabile – chi avrebbe potuto trattare quel materiale nel 1919 senza farne una satira?36». Inoltre, in Feu d’artifice e nella suite Le faune et la bergère vi è una parodia dell’impressionismo musicale di Debussy e Ravel. Stravinskij, insomma, utilizza le forme a lui precedenti come:

«quadri di referenza che invitano il compositore a disciplinare il proprio pensiero in strutture ch’egli deve re-inventare per suo conto, utilizzando formule prese a prestito al passato piuttosto che rispettando delle forme.37»

Questo stile di composizione, tipico di Carlo Gesualdo e di Stravinskij, che rinnova la tradizione precedente attraverso la variazione, più che attraverso lo scarto, era proprio anche di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus38. Adrian, infatti, come cifra stilistica principale di molte sue opere, ha un atteggiamento parodico tutto stravinskiano. Anche lui, ad esempio, parodizza Debussy e Ravel nella fantasia sinfonica Luci sul mare39. La stessa sinfonia, inoltre, nella finzione letteraria viene eseguita per la prima volta dall’Orchestre de la Suisse Romande, che sappiamo esser stata fondata a Ginevra proprio da un noto interprete di Stravinskij, Ernst Anserment4041.
Il problema del rapporto tra innovazione e tradizione è uno dei più ricorrenti di tutto il Doctor Faustus e affiora fin dalle prime lezioni di Wendell Kretzschmar, il maestro di Adrian, durante le quali racconta l’importanza di Beethoven nella transizione dal classicismo al romanticismo42. Il leitmotiv riemerge varie volte nel prosieguo del romanzo: dalle conversazioni di Leverkühn con i compagni di studio a Halle43, a un riferimento allo stesso Stravinskij, citato come innovatore del balletto classico44. A proposito di quest’ultimo, il narratore afferma:

«Sebbene, infatti, sia difficile comprendere ciò che è moderno e recente senza avere familiarità con la tradizione, l’amore per le cose antiche resta inevitabilmente insincero e sterile se si chiude al nuovo che per necessità storica è scaturito dal passato.45»

La ricerca di un’innovazione della tradizione che sia anche in grado di conservarne le caratteristiche, non riguarda soltanto Gesualdo e Stravinskij, ma anche Andrea Tarabbia. Dopotutto, che cos’è Madrigale senza suono se non una rielaborazione moderna del romanzo storico? In primis, l’opera ricorre all’espediente del manoscritto ritrovato ma non si limita a sfruttarlo come cornice narrativa in cui inserire la vicenda, bensì dedica diverse pagine alla riflessione critica sull’autorialità e l’autenticità del testo, fino ad arrivare alla soluzione metanarrativa proposta da Glenn Watkins, secondo il quale chi ha ritrovato il testo non ne è colui che lo ha scritto46. O ancora, la ricerca storica delle fonti a cui l’autore di un romanzo storico si deve dedicare non solo è tematizzata nel romanzo a proposito degli studi condotti da Stravinskij e Watkins sul manoscritto, ma viene anche messa in discussione dagli stessi due personaggi, che notano l’inesattezza di alcuni episodi raccontati, confrontandoli con le testimonianze dell’epoca. Compaiono poi figure tipiche dell’immaginario gotico del tempo, come le streghe, il mostro nella cripta, il nano informe e il medico convinto di poterlo curare “allungandolo” con delle catene. Ma anche nel caso di questi personaggi non si tratta di un semplice recupero, perché Tarabbia si serve spesso di queste immagini come allegorie. Molti elementi sembrano orientare l’analisi verso un’interpretazione psicanalitica sia del mostro nella cripta che di Gioachino, il servitore deforme, i quali potrebbero rappresentare rispettivamente l’Es e l’Ego di Carlo Gesualdo. Anche la spazialità del romanzo lavora in questo senso: il mostro è chiuso in basso, Gioachino abita le stanze mediane del palazzo e Carlo Gesualdo – il Super-Ego – si chiude in una stanza ai piani alti.
Altri elementi tipici del romanzo storico sono gli excursus sulla situazione geopolitica dell’epoca, la tematizzazione del divario tra le classi sociali agiate e quelle povere, la presenza di personaggi storici realmente esistiti, la descrizione accurata di mode, credenze e usanze del tempo e il ricorso ad una lingua e a uno stile di scrittura che mima il barocco, a volte anche nella grafia – come nel cognome di Gioachino “Ardytti”. In tutti questi casi, il recupero della tradizione non è fine a se stesso, ma contribuisce a creare il diorama di un romanzo che, pur conservando, innova.
Insomma, Andrea Tarabbia, come pure Gesualdo, non si discosta dai canoni della tradizione per rinnovarla e, allo stesso tempo, come Stravinskij, la interpreta con un velo di ironia. Le stesse teorie elaborate dai due compositori in ambito musicale vengono applicate da Tarabbia nella scrittura. Il risultato è un romanzo storico che riflette in modo critico e parodico sul suo stesso genere.

4. La rottura della dicotomia
Questi due romanzi contemporanei dimostrano come il dialogo tra musica e scrittura non si limiti all’influenza reciproca di una disciplina sull’altra, ma possa spostarsi anche su piani diversi, come la rielaborazione della tradizione e le implicazioni emotive dell’arte. Stabat Mater permette di indagare le potenzialità creative delle due discipline, che si scoprono simili in molte circostanze, quali l’espressione dell’interiorità e la mimesi del mondo. Madrigale senza suono, invece, rivela come entrambi il compositore e lo scrittore debbano confrontarsi con problematicità identiche, prima fra tutte il rapporto necessario con la tradizione artistica precedente.
Inoltre, si può notare come entrambi gli autori decidano di abbracciare a pieno il topos faustiano del musicista tormentato, ossessionato dalla morte, in preda a visioni e allucinazioni. In entrambi i romanzi, tra l’altro, il tormento trova sollievo proprio nella scrittura, esigenza vitale per l’espressione del sé e principio ordinatore della follia. Così la scrittura è mostrata come un’arte rassicurante, in grado di ordinare il mondo, mentre tutti gli aspetti più inquieti della creazione artistica sono relegati alla disciplina sorella, la musica. Zeitblom e Gioachino compiangono l’amico morto sotto il peso delle inquietudini provocate dal suo genio musicale; Cecilia si emancipa grazie alle riflessioni che affida al suo diario e, se trova conforto nella musica, lo fa cadendo in una trance non dissimile da quella di una baccante. La musica è una realtà incomprensibile e indomabile, che sconvolge l’animo di chi vi si avvicina troppo; un’attrattiva pericolosa – forzando un po’ i toni – , propria dei geni maledetti. Al contrario, scrivere porta ordine ed equilibrio.
Esistono rappresentazioni alternative a questa dicotomia? È possibile, addirittura, rovesciare questi topoi e concepire un musicista apollineo e uno scrittore dionisiaco? Il musicologo tedesco Marius Schneider individua due tipologie di musicisti nelle civiltà antiche47. Il primo è il «musico ambulante», fautore di una musica bassa, che discende dagli sciamani; egli è escluso dalla comunità e si esibisce con modalità che ricordano quelle del mago o del saltimbanco: incarna in questo modo una figura prettamente dionisiaca. Accanto a lui, però, esiste anche un «musicista apollineo», che discende dai musici-sacerdoti e realizza un’arte alta; egli è altrettanto esterno alla comunità per via della sua vicinanza al divino, ma si caratterizza come un individuo stanziale. Curioso notare come questa distinzione rispecchi le tipologie individuate da Benjamin per la figura del narratore48: esiste un narratore stanziale, contadino, che osserva una società dall’interno e ne racconta le usanze e le tradizioni; ed esiste un narratore nomade, marinaio, che viene da lontano giunge sempre in luoghi nuovi, pronto ad ascoltare storie a lui estranee.
A prescindere dalla misura in cui le categorie utilizzate da Schneider e Benjamin si sovrappongano a quelle di “apollineo” e “dionisiaco”, la distinzione operata dai due autori ricorda che scrittori e musicisti possono operare su uno spettro di funzioni molto ampio. Questa prospettiva svela, allora, quanto rappresentazioni polarizzate come quelle prese in esame nelle opere di Scarpa e Tarabbia abbiano subìto l’influenza del capolavoro di Thomas Mann. Dopo il Doctor Faustus, il musicista è sempre un Adrian Leverkühn, lo scrittore un professor Zeitblom. E, quando il musicista diventa scrittore, sarà sempre il potere benefico delle parole a curare la maledizione dell’ispirazione musicale. L’ombra di Mann si allunga in modo inconfondibile sulla tradizione contemporanea, delineando una cesura, a tratti estrema, tra due figure artistiche e due mondi che, come questo saggio ha cercato di raccontare, sono invece inestricabilmente legati.

Note

  1. La genesi del brano è raccontata in forma narrativa anche in: Filippo Tuena, Memoriali sul caso Schumann, Milano, Il Saggiatore, 2015, p. 109.
  2. Thomas Mann, Doktor Faustus, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag GmbH, 1947, trad. it. Doctor Faustus, Milano, Mondadori Libri, 2016, pp. 323 s.
  3. Wolfgang Schneider, Mann and his musical demons, «Signandsight» 2007, consultato il 4 ottobre 2023, http://www.signandsight.com/features/1440.html.
  4. Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Paris 1982, trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Giulio Einaudi Editore, Torino 1997, p. 313. Cfr. T. Mann, Die Entstehung des Doktor Faustus, S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main 1949, trad. it. La genesi del Doctor Faustus, Milano, Modadori Libri, 2016.
  5. Tiziano Scarpa, Stabat Mater, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2008, p.42.
  6. Cfr. Jean-Pierre Vernant, La mort dans les yeux. Figure de l’Autre en Grèce ancienne, Paris, Hachette Pluriel Editions, 1985, trad. it. La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna, Società editrice il Mulino, 1987.
  7. Cfr. Steven C. Hayes, Acceptance and Commitment Therapy in A. Freeman, S. H. Felgoise, A. M. Nezu, C. M. Nezu, M. A. Reinecke (a cura di), Encyclopedia of Cognitive Behavior Therapy, New York, Springer, 2004, pp. 1-4.
  8. T. Scarpa, Stabat Mater, cit., p. 11.
  9. Ivi, p. 106.
  10. Ivi, pp. 134 s.
  11. Ivi, p. 107.
  12. Ivi, pp. 95 s.
  13. Tiziano Scarpa, Stabat Mater, cit., pp. 104 s.
  14. Cfr. Cesare Fretonani, Antonio Vivaldi. La simbologia musicale nei concerti a programma, Romi, Edizioni Studio Tesi, 1992.
  15. Due riferimenti ai lavori di Glenn Watkins su Carlo Gesualdo in bibliografia.
  16. Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Torino, Bollati Boringhieri editore, 20197, pp. 24 ss.
  17. Ivi, p. 31.
  18. Ivi, pp. 369 s.
  19. Ivi, p. 372.
  20. Catherine Deutsch, Carlo Gesualdo, Paris, Bleu nuit éditeur, 2010, pp. 106-108, 162.
  21. Cfr. Elvidio Surian, Manuale di storia della musica. Vol. 1: Dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, Milano, Rugginenti Editore, 1991.
  22. Cecil Gray, Philip Heseltine, Carlo Gesualdo. Musician and murderer, Londra, Trubner & Co., 1926, pp. 10 ss.
  23. Cfr. Massimo Michele Ossi, Divining the Oracle. Monteverdi’s Seconda Prattica, Chicago, University of Chicago Press, 2003.
  24. Il basso continuo o cifrato è una pratica in cui il compositore forniva solo la linea melodica superiore (la voce principale) e un basso con cifre numeriche (di solito sotto le note) che indicavano gli accordi da suonare. Gli strumentisti si occupavano di improvvisare gli accordi seguendo le indicazioni cifrate. Questa tecnica consentiva una maggiore flessibilità nell’accompagnamento musicale e permetteva una vasta gamma di interpretazioni. Inoltre, forniva una base stabile per la polifonia, permettendo alle altre voci o strumenti di muoversi in modo indipendente sopra di esso. Il basso continuo contribuì a un suono più ricco e armonico, arricchendo notevolmente la struttura e l’armonia delle composizioni musicali. (Cfr. M. M. Ossi, Divining the Oracle, cit.)
  25. Lo stile concertato permette di combinare insieme diverse voci e strumenti per creare un’orchestrazione più densa e complessa. Prima dell’era barocca, la pratica predominante era quella di avere una singola voce solista sopra una semplice accompagnamento: Monteverdi iniziò a sperimentare con l’uso di diverse voci e strumenti insieme, che suonano in modo coordinato o interagiscono tra loro. (Cfr. M. M. Ossi, Divining the Oracle, cit.)
  26. C. Deutsch, Carlo Gesualdo, cit., p. 140.
  27. Pietro Misuraca, Carlo Gesualdo principe di Venosa, vol. 6, L’Epos, Palermo 2000, p. 92.
  28. C. Deutsch, Carlo Gesualdo, cit., pp. 52 s., 116.
  29. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Robert Craft, Expositions and Developments, New York, Dubleday, 1962, trad. it. Esposizioni e sviluppi, in Colloqui con Stravinskij, Torino, Giulio Einaudi editore, 19772.
  30. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD Annum, 1960.
  31. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Robert Craft, Conversation with Igor’ Stravinskij, Londra, Faber and Faber, 1959, trad. it. Conversazioni con Igor’ Stravinskij, in Colloqui con Stravinskij, Torino, Giulio Einaudi editore, 19772, p. 19.
  32. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Robert Craft, Colloqui con Stravinskij, Giulio Einaudi editore, Torino 19772, p. XV.
  33. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Poétique musicale sous forme de six leçons, Paris, Flammarion, 1942, trad. it. Poetica della musica, Milano, Edizioni Curci, 1954, p. 39.
  34. I. Stravinskij, Poétique musicale sous forme de six leçons, cit., p. 51.
  35. I. Stravinskij, R. Craft, Colloqui con Stravinskij, cit., p. XVII.
  36. I. Stravinskij, R. Craft, Colloqui con Stravinskij, cit., p. 308. Il passo è citato anche da Genette in Palinsesti per sottolineare la somiglianza tra la parodia letteraria e la parodia musicale. (G. Genette, Palinsesti, cit., p. 456).
  37. I. Stravinskij, R. Craft, Colloqui con Stravinskij, cit., p. XVIII.
  38. Anna Mila Giubertoni, Strawinsky ovvero la parodia come “solitudine alternativa”, in «Annali dell’Istituto Orientale di Napoli», XXI, Studi Tedeschi, 1, 1987, p. 111.
  39. T. Mann, Doktor Faustus, cit., pp. 219 s.
  40. Antti Tikkanen, v. “Orchestre de la Suisse Romande”, in «Enciclopedia britannica», consultato il 5/10/2023, https://www.britannica.com/topic/Orchestre-de-la-Suisse-Romande.
  41. Kathleen Sheetz, v. “Ernst Anserment”, in «Enciclopedia britannica», consultato il 5/10/2023, https://www.britannica.com/biography/Ernest-Ansermet
  42. T. Mann, Doktor Faustus, cit., pp. 74 ss.
  43. T. Mann, Doktor Faustus, cit., pp. 67 ss.
  44. Cfr. Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Chroniques de ma vie, Parsi, Éditions denoël, 1962, trad. it. Cronache della mia vita, Milano, SE, 20062.
  45. T. Mann, Doktor Faustus, cit., pp. 401 s.
  46. A. Tarabbia, Madrigale senza suono, cit., p. 372.
  47. Cfr. Marius Schneider, Sociologie et mythologie musicales, in Congrès et colloques de l’Université de Liège, vol. XIX: Ethnomusicologie II, Liège, Université de Liège, 1960, trad. it. La musica come modello del mondo, in Il significato della musica, Milano, Rusconi Editore, 1970, pp.69-72.
  48. Walter Benjamin, Der Erzäler. Betrachtungen zum Wek Nilolai Lesskows, in «Orient und Occident. Staat-Gesellschaft-Kirche. Blätter für Theologie und Soziologie», 3, 1936, trad. it. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2011, pp. 9-10.

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