Perché rileggere Il buon soldato
Valentina Vetri, Perché rileggere Il buon soldato, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 7, luglio 2018/giugno 2019
Il buon soldato, scritto nel 1913 e pubblicato nel 1915, è uno dei libri più controversi nell’ampia e complessa opera di Ford Madox Ford. Anche se l’attenzione della critica si è principalmente concentrata sulla tetralogia fordiana nota come Fine della Parata, ritenuta il capolavoro di Ford e il punto più alto della sua produzione artistica, Il buon soldato è stato definito dal suo autore – spesso in disaccordo con i suoi critici – come “il libro migliore che io abbia scritto”.
Esso effettivamente mantiene intatto oggi, a un secolo dalla sua stesura, il fascino che deriva dall’intricato meccanismo del racconto e dall’ambiguità delle psicologie dei suoi protagonisti. E’ un libro che, scritto agli albori del Novecento, anticipa e annuncia le successive sperimentazioni artistiche raccolte oggi sotto l’etichetta di Modernismo, ma che proprio perché non succube delle esigenze incessanti di stravolgimento delle tecniche narrative, portato a maturazione dal genio di Virginia Woolf e James Joyce, riesce a mantenersi fresco e di felice lettura anche per il lettore contemporaneo.
In quest’opera, inoltre, sono portati alla perfezione due aspetti determinanti per l’inquadramento della figura letteraria dell’autore: il primo riguarda la tecnica della scrittura, il secondo la descrizione e l’indagine psicologica dei personaggi.
Nel saggio posto a introduzione della sua edizione del romanzo del 1990, Thomas Moser definisce Il buon soldato con l’aggettivo “elusive”, che significa “evasivo”; questa definizione risulta particolarmente appropriata se si considera il significato letterale del termine, e cioè “difficile da catturare”, se riferito all’ambito della caccia, dunque a un animale che si sottrae perennemente alla cattura.
Il buon soldato è in effetti elusive in entrambi i significati, quello figurato e quello “pratico”, poiché dalla prima all’ultima pagina appare una ricerca affannosa della verità, una verità che, invece di rendersi manifesta o (almeno) comprensibile man mano che la storia procede, si perde in un fitto intrico d’interpretazioni possibili e impossibili, in un gioco di specchi e di flashback che mettono in discussione le informazioni fino a quel momento date per scontate; la verità sembra divincolarsi dalla presa del narratore e di conseguenza da quella del lettore.
La confusione che ne deriva – e a volte, in alcune pagine persino la frustrazione – risiede nel fatto che il lettore, abituato a prender posizione, a schierarsi con questo o quel narratore, e soprattutto ad aver cieca fiducia nelle parole di chi racconta, inizia mano a mano a insospettirsi, e ad ascoltare con orecchio quasi ostile il protagonista narrante. Così avviene che – grazie alla stupenda tecnica di Ford – le strade del narratore e quella del lettore si dividano, ognuno intento a cercare di “catturare” la sua verità, fino a giungere alla conclusione che le tante verità – o le tante menzogne – che emergono dalla triste vicenda de Il buon soldato non potranno mai essere catarticamente riunificate o svelate (come in un romanzo giallo di qualità) in un’unica finale e superiore certezza, ma resteranno tanto per il narratore quanto per il lettore le tante facce di un prisma illuminato dal sole, un insolubile enigma che nessuno è capace di sciogliere.
La tecnica narrativa fordiana, affinata grazie al profondo influsso di Conrad e di Henry James, rivoluziona il romanzo così come la tradizione ottocentesca l’aveva costruito, portando a perfezione il metodo chiamato dallo stesso Ford “impressionismo”. Gli impressionisti, infatti, interpretano tutta l’esperienza umana come una serie di “impressioni”:
Walter Pater, fine critico d’arte, dà, riferendosi alla pittura pre-raffaellita, la sua definizione di esperienza come “sciame di impressioni”:
l’esperienza, già ridotta a uno sciame di impressioni, è in ognuno di noi cinta da quell’impenetrabile muro di personalità attraverso il quale nessuna voce esterna riesce a giungere fino a noi […]. Ciascuna di queste impressioni appartiene all’individuo nel suo isolamento, poiché la mente di ognuno di noi tiene in solitaria prigionia il proprio mondo di sogno.
In questa definizione di esperienza vi è molto che ci aiuta a comprendere la costruzione de Il buon soldato: ogni esperienza è sempre drammaticamente individuale, personale, solitaria. Intorno alle nostre percezioni è costruito, dice Pater, il muro della nostra personalità; dunque quello che osserviamo al di fuori di noi non è mai condiviso collettivamente da altri, ma filtrato dal nostro sguardo, dalla nostra singola soggettività.
Conviene ricordare che Henry James aveva scritto, in un noto saggio intitolato L’arte del romanzo, che “un romanzo è nella sua più ampia definizione l’impressione personale e diretta della vita”; e Ford stesso, accettando pur con un certo scetticismo l’etichetta di impressionista, scrisse: “Accettammo senza troppe proteste lo stigma di impressionisti che ci fu attribuito… a noi sembrava infatti questo, che la Vita non narra, ma semplicemente lascia impressioni nella nostra mente”.
La vicenda de Il buon soldato è effettivamente narrata da un osservatore, John Dowell, che racconta a un immaginario “ascoltatore silenzioso” la triste storia del capitano Ashburnham. Il suo è l’unico punto di vista del romanzo, e gli eventi che racconta sono eventi ai quali Dowell ha assistito (più che partecipato) o che ha sentito raccontati da altri (in particolar modo da Leonora, la moglie del Capitano Ashburnham).
Al cosiddetto metodo impressionista Ford aveva dedicato un articolo, apparso nel 1914 sulla rivista Poetry and drama, nel quale aveva puntualmente spiegato le origini della sua tecnica narrativa, prendendo chiara posizione nella sua definizione di romanzo di “scuola impressionista”:
Questa scuola si differenzia dalle altre principalmente perché riconosce, in tutta franchezza, che qualsiasi forma d’arte deve essere l’espressione di un ego individuale. […] L’impressionista, di norma, dona agli altri i frutti della sua osservazione, ed esclusivamente della sua. In questo egli dovrebbe essere severo e solitario quanto un monaco.
Dall’idea che l’esperienza riguardi l’individuo come essere isolato nasce certamente l’esigenza (sia in Ford che in Conrad: pensiamo, anzitutto, a Cuore di Tenebra) di restringere la narrazione a un solo punto di vista, e dunque a un singolo individuo; se ne Il buon soldato il compito tocca all’americano John Dowell, in Cuore di Tenebra il ruolo del narratore appartiene al Capitano Marlow. E’ vero però che l’uno e l’altro narratore non raccontano la propria storia, ma quella di altri: il protagonista che dà il titolo al romanzo di Ford non è Dowell, bensì il capitano Ashburnham, e la sua vicenda – per quanto intrecciata con quella del narratore – è al centro del romanzo; il Capitano Marlow racconta di Lord Jim, seppure con l’aiuto di altri come il tenente francese o Brown. Il racconto allora diventa soprattutto testimonianza, discorso indiretto, filtrato dall’interpretazione di colui che ha assistito agli eventi.
Che tipo di narratore è dunque quello di Ford? Lungi dall’essere il classico narratore onnisciente, Dowell è un semplice spettatore della vita altrui, il traghettatore di una parte di verità – o quanto meno delle sue impressioni di che cosa sia la verità. Il suo è il ruolo del testimone.
Egli oscilla per tutto il romanzo fra certezze e dubbi, procedendo sempre per antitesi. Pensiamo al primo capitolo del romanzo, quando Dowell cerca di descrivere l’amicizia fra i quattro protagonisti della vicenda:
Sul mio onore, sì, la nostra amicizia era come un minuetto, semplicemente perché in ogni possibile circostanza e occasione noi sapevamo dove andare, dove sederci, quale tavolo avremmo scelto tutti insieme come fossimo uno solo […]. No, santo Dio, è tutto falso! Non era un minuetto, quello che danzavamo; era una prigione – una prigione in cui risuonavano grida di isterici, ma così ben soffocate che il trottare delle ruote della nostra carrozza mentre viaggiavamo per le strade ombrose di Taunus Wald poteva smorzarle del tutto.
E tuttavia io giuro sul sacro nome del mio Creatore che era tutto vero. Era vero il sole splendente; era vera la musica; era vera l’acqua che delfini di pietra gettavano a fiotti nella fontana.
Questa alternanza di contraddizioni è tipica del narratore fordiano, diviso fra la sua percezione della realtà e l’apparente, oggettiva realtà dei fatti. L’idea che non vi siano certezze sulle quali fondare le nostre convinzioni, e soprattutto l’idea che le identità altrui – come la nostra – rimangano un mistero, è anch’essa illustrata da Ford nel denso articolo sull’Impressionismo dianzi citato. Ford, infatti, racconta della stesura dei suoi tre romanzi incentrati su Enrico VIII (la trilogia intitolata The Fifth Queen), e confessa che pur essendosi scrupolosissimamente documentato, e conoscendo nei minimi dettagli gli eventi che avevano caratterizzato l’epoca e il regno di Enrico VIII, non era però riuscito, grazie al solo ausilio dei fatti, a capire veramente chi fosse questo re:
Ho scritto tre romanzi, interamente incentrati sul Difensore della Fede, ma in realtà non sapevo assolutamente niente di lui – tanto illusori, ingannevoli sono i fatti. Non sapevo proprio niente! Come avrei dovuto rappresentarlo? Affabile o spaventoso, seduttivo, regale o coraggioso? Ci sono fatti così contraddittori! Esiste una tal quantità di racconti, ognuno contraddittorio dell’altro, che io posso dire riguardo a questo re di sapere solo quel che disse Maupassant, che, come ho già detto, considero il mio modello letterari; Maupassant sta presentando uno dei suoi personaggi, un tizio probabilmente piuttosto disgustoso, di bassa estrazione, prepotente e insolente; uno che veste abiti comuni, il tipo di gentiluomo su cui si potrebbero scrivere volumi e volumi se si volesse dar conto di tutti i fatti della sua esistenza. Ma tutto quel che Maupassant trova necessario dire è: “c’était un monsieur à favoris rouges qui entrait toujours le premier”. Ecco, io posso dire che tutto quel che so di Enrico VIII è che si tratta di un tizio con la barba rossa che entrava sempre per primo.
Leggendo questo brano si colgono facilmente le analogie con il primo paragrafo de Il buon soldato, quando Dowell dice:
Mia moglie ed io conoscevamo il Capitano e la signora Ashburnham nella maniera più profonda in cui si possa conoscere qualcuno, tuttavia – in un altro senso – non li conoscevamo per niente.
La netta distinzione, operata anche narrativamente, fra noi e gli altri rende irrilevanti i semplici fatti, gli eventi in se stessi: ogni evento, così come ogni individuo, è soggetto alla lettura che un altro individuo ne dà, e assume la forma di una semplice impressione, un’immagine improvvisa (che richiama il concetto di “epifania” joyciana, o la definizione della vita come “alone luminoso” data dalla Woolf) che riesce, pur emergendo da singoli frammenti sconnessi, a dare una rappresentazione più veritiera dell’individuo di cui si narra.
Il concetto di verosimile è pertanto l’altro segno chiave dell’impegno impressionista: ad avviso di Ford, il romanziere deve anzitutto proporsi di produrre “un’illusione di realtà”, grazie alla quale il lettore possa convincersi di leggere una storia vera. Se la realtà non è che una serie di impressioni esercitate sulla mente degli individui, il narratore impressionista dovrà riprodurre nel suo racconto queste immagini, queste impressioni, sollecitando anche nel lettore lo stimolo a interpretare e dunque a partecipare alla storia narrata. Allontanandosi così sia dall’insegnamento di Zola e del Naturalismo francese, votato all’indagine oggettiva e sociologica della realtà, sia da quello artificioso e cronachistico dei romanzieri vittoriani, l’Impressionismo sceglie, secondo Ford, un metodo narrativo che non pone gli eventi al centro del racconto, bensì i meccanismi della percezione di questi da parte del narratore.
Ford spiega bene questo concetto quando sostiene che il metodo impressionista si fonda esclusivamente sull’ “analisi della mente umana”: è bene ricordare a questo proposito che l’interesse nei confronti dell’interiorità che qui Ford esplicita fa parte della più generale spinta conoscitiva indirizzata all’introspezione che caratterizza la più gran parte dei movimenti letterari, filosofici e culturali del primo novecento. A ciò certamente diede grande impulso la psicanalisi, cui si aggiunsero le letture psicanalitiche delle opere artistiche.
L’impressionismo ha dato inizio a un modo di narrare teso all’introspezione o meglio alla rappresentazione di quel che avviene nella mente dell’uomo, portato poi al limite massimo dalla tecnica del flusso di coscienza e del monologo interiore da Woolf e da Joyce; quello che la tecnica joyciana e in parte woolfiana esclude però è la presenza di un interlocutore: essi esplorano la coscienza del singolo individuo senza che vi sia la necessità di raccontare, cioè senza immaginare che vi sia qualcuno che ascolti quel che il protagonista pensa o va elaborando nella sua mente.
Ford invece vuole esplorare l’atto della narrazione/testimonianza, sempre includendo un ascoltatore (o un lettore), il quale vuole essere non solo passivo ricettore, ma interprete di quanto gli viene raccontato; l’esplorazione del concetto di esperienza dunque in Ford presuppone sempre la comunicazione, e quindi non solo la solitaria “impressione”, ma il passaggio successivo, il momento cioè in cui l’impressione viene proiettata all’esterno, tramite il racconto, per raggiungere una terza parte, il cui contributo alla vicenda diviene altrettanto attivo. Il ruolo del lettore è quello di “percepire” a sua volta: il risultato è l’impressione di un’impressione, con le conseguenze che ne derivano.
Nell’interrogarsi su che cosa significhi raccontare, Ford affronta anche il problema di che cosa significhi ricordare. Per Ford (e in parte anche per Conrad), il punto di vista esclusivo di un solo narratore è garanzia di verosimiglianza, ma lo è altrettanto l’ordine – o meglio, il disordine – cronologico con cui gli eventi gli si presentano alla memoria.
Nel suo Joseph Conrad, Ford scrive:
Ci divenne particolarmente chiaro quale fosse il problema del romanzo, e in particolare del romanzo inglese, e cioè il fatto che procedeva in avanti senza intoppi, mentre nella realtà quando si conosce qualcuno non si procede con questa linearità. S’incontra un giorno qualche gentiluomo golf club, un tipo corpulento, pieno di salute, con la moralità di un giovanotto educato nelle scuole inglesi di maggior prestigio. Poi gradualmente si inizia a scoprire che è un completo nevrastenico, disonesto su questioni di poca importanza, ma stranamente altruista, un terribile impostore ma anche un attentissimo studioso di lepidotteri; e alla fine un giorno leggi sul giornale che è anche bigamo…. Ecco, per poter fare di quest’uomo un personaggio in un romanzo non si può iniziare a raccontare la sua vita dal principio e procedere cronologicamente dall’inizio alla fine. Bisogna dapprima dare di lui una forte, prima impressione, e poi tornare indietro o saltare più avanti raccontando del suo passato.
Questa lunga citazione spiega dunque il metodo acronologico con il quale Dowell racconta la vicenda de Il buon soldato; Edward Ashburnham, il protagonista, viene introdotto nella storia proprio tramite una prima impressione – fortissima: una descrizione di come appare al primo sguardo (il nostro di lettori, ma anche a quello di Dowell al momento del loro primo incontro) il personaggio centrale di tutta la vicenda. Non a caso, in questa prima impressione abbondano le contraddizioni, le antitesi, le immagini che non combaciano:
il suo volto non esprimeva assolutamente nulla, come si conviene nella meravigliosa condotta inglese. Nulla. Né gioia, né disperazione; né speranza, né paura; né tedio, né soddisfazione. Sembrava che non ci fosse anima viva per lui, in quella stanza affollata; con lo stesso passo avrebbe potuto camminare in una giungla. Non mi è mai più capitato di vedere un’espressione così perfetta, e non mi capiterà più. Era insolenza, ma al contempo non lo era; era modestia, e non lo era.
Ashburnham ci viene dunque presentato così per la prima volta: vi è da considerare che non siamo però all’apertura del romanzo, bensì ben avviati nel terzo capitolo; inoltre, sappiamo già un po’ per allusione e un po’ per esplicita rivelazione – che il Capitano Ashburnham è morto. Tutto il racconto della vita di Ashburnham è un continuo movimento in avanti e indietro, e così anche quella degli altri disgraziati personaggi, dei quali apprendiamo non cronologicamente, ma a salti, le vicende. Lo stesso Dowell si scusa con il suo immaginario ascoltatore per la natura caotica, “rambling”, del suo racconto.
In questo sta la rappresentazione della memoria, o quanto meno della natura dei ricordi, che secondo la definizione di Ford non procede linearmente, ma disordinatamente, come tante fotografie le cui immagini affiorano alla mente non seguendo alcuna logica. Un fatto ne richiama un altro che però è accaduto molto dopo; oppure si collega a un altro ancora, avvenuto anni e anni prima. L’atto del ricordare, inoltre, il tentativo di mettere insieme i pezzi del puzzle, è quello che spesso rende possibile la comprensione di fatti che al momento del loro accadere non erano stati compresi, e che solo dopo, con l’immagine completa davanti agli occhi, acquisiscono un certo senso, e possono essere spiegati e interpretati.
Certo, l’impressionismo tende a distanziarsi dal lettore impedendo quella classica identificazione – insomma la sim-patia – che un narratore di diverso tipo susciterebbe; non giunge però ancora allo straniamento, che è frutto di tecniche più estreme come quelle già citate di Joyce o di Woolf, e che deriva dall’esclusione totale del lettore dal dialogo fra coscienze (giacché nel monologo interiore il dialogante comunica con sé solo), e produce al suo posto quello che ho precedentemente chiamato sospetto, cioè il seme del dubbio.
In un racconto come quello di Dowell, il quale certo è implicato e non poco nelle vicende che narra, il lettore si trova davanti ad alcune questioni che non può evitare. Le questioni di cui parlo sono sollevate certamente dalla tecnica narrativa, ossia il procedere senza cronologia, per immagini, per evocazioni e spesso per allusioni.
Non è solo la cronologia ad essere scardinata, ma anche gli eventi diventano soggetti a diverse interpretazione e letture, spesso contraddittorie. Fatti inizialmente presentati come certi si rivelano successivamente falsi o costruiti ad arte. Un esempio è la malattia di cuore di Florence, la moglie di Dowell. Inizialmente Dowell dice che sua moglie era malata di cuore e per buona parte del romanzo lo dà come fato certo; in seguito, e abbastanza improvvisamente, rivela che la malattia della moglie era una messa in scena della donna.
L’immagine pazientemente e attentamente costruita di donna fragile e malata viene annientata dalla nuova immagine di Florence: falsa, mistificatrice, crudele. Il punto è che una tale angelica immagine di Florence è stata interamente opera di Dowell, nella prima parte del suo racconto.
Nel momento in cui il lettore diventa cosciente del fatto che il narratore non solo racconta, ma sceglie che cosa raccontare e in che modo, egli percepisce dunque anche che il narratore ha la possibilità di manipolare il lettore, conducendolo in una direzione o in un’altra secondo i suoi scopi. Da questa intuizione nasce nel lettore il sospetto, il dubbio, la sensazione che quel che ascolta possa non essere interamente vero.
Giova qui sottolineare che non vi è la prova che il narratore menta: non vi sono cioè prove che Dowell modifichi intenzionalmente il suo racconto, che abbia qualcosa da nascondere, né Ford vuole che lo intendiamo o che ci mettiamo alla ricerca delle falle nel suo racconto. Se così fosse intravvederemmo l’ombra di un puppet master, e Dowell diventerebbe il subnarratore, una marionetta nelle mani di Ford, e la tecnica del narrare non sarebbe altro che un artificio. Appare sufficiente, viceversa, l’intuizione che il narratore possa farlo, per scatenare nel lettore un senso di disagio, quello che appunto abbiamo definito sospetto.
Il lettore sospettoso è la vera invenzione degli impressionisti, più ancora di quella del narratore inaffidabile; questo perché trasforma il lettore da passivo ascoltatore a curioso interprete, e gli permette di sentirsi coinvolto nella storia, pari al povero Dowell nel cercare di spiegarla. Se dunque, per certi versi, la tecnica narrativa impressionista sembra allontanare il lettore, non offrendogli un’oggettiva versione della verità, da un altro punto di vista lo include invece profondamente nella vicenda raccontata, stimolando la sua interpretazione e il suo coinvolgimento per districare, alla pari del narratore, la matassa della storia.
Qual è lo scopo dunque della tecnica narrativa impressionistica? Come Moser acutamente osserva, uno dei fini principali dell’indagine narrativa impressionista è esplorare la questione della conoscenza, e – volendo aggiungere un altro elemento ad essa collegato – la questione dell’identità. La questione della soggettività dell’Io per quel che pertiene la conoscenza è tema comune a tutta la letteratura dei primi del Novecento: Ford, Conrad e James sono stati i primi, seguiti poi da i già citati Woolf e Joyce, a scendere nel campo dell’analisi dell’individuo, della sua soggettività, e della sua identità.
Le grandi certezze ottocentesche cominciano a scricchiolare, e il narratore non è più colui che sa, ma colui che fa i conti con una identità – anche soggettiva – che va disgregandosi: basti por mente, fra il resto, a Uno, nessuno e centomila di Pirandello, pubblicato in parte già nel 1915 – l’anno, guarda caso, in cui esce Il buon soldato.
Nel romanzo in discorso, la frase “non lo so” ritorna più di cinquanta volte, e – come è spesso stato osservato – Ford frequentemente enfatizza la ricerca della verità del povero Dowell facendogli continuamente porre domande al lettore (solo nel primo capitolo, più di venti volte). Dowell ammette candidamente di aver conosciuto gli Ashburnham nel modo più profondo che sia umanamente possibile, ma subito aggiunge che non li conosceva affatto. Ammette anche di non aver certezze nemmeno riguardo a se stesso, di non aver avuto la capacità di decifrare i suoi stessi sentimenti, i suoi stessi desideri: come si può dunque conoscere qualcun altro, quando nemmeno di noi stessi siamo sicuri? Quello di Dowell è un viaggio all’interno di sé stesso e all’interno degli sventurati protagonisti della “storia più triste che abbia mai sentito”. La sua è una caccia a una verità che non si fa catturare, e che i lettori di tutto il mondo vanno cercando ormai da più di un secolo a questa parte.
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