Bibliomanie

Elena Rausa Le invisibili, Neri Pozza, Vicenza, 2024
di , numero 57, giugno 2024, Letture e Recensioni, DOI

Elena Rausa<em> Le invisibili</em>, Neri Pozza, Vicenza, 2024
Come citare questo articolo:
Beatrice Basile, Elena Rausa Le invisibili, Neri Pozza, Vicenza, 2024, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 57, no. 32, giugno 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.11758

Le invisibili (2024) è il terzo e ultimo romanzo di Elena Rausa, pubblicato da Neri Pozza, e segue le precedenti opere Marta nella corrente (2014) e Ognuno riconosce i suoi (2018), attraverso le quali la scrittrice si è guadagnata l’ammirazione del grande pubblico per le sue doti narrative. Il romanzo si presenta come un’opera stratificata e complessa che, con uno stile fluido e immediato, intreccia le vicende di una decina di personaggi, collegando il passato coloniale italiano degli anni Trenta alla Milano contemporanea. Rausa compie una raffinata operazione narrativa inaugurando il romanzo con le vicende degli uomini, protagonisti degli eventi più cruenti dell’Africa coloniale durante il regime fascista. Tuttavia, l’autrice rivela che sono le donne a ricoprire un ruolo centrale, intrecciando le trame della storia e trasmettendo le narrazioni attraverso i loro racconti, nonostante siano state storicamente e letterariamente relegate ai margini.
Il primo personaggio che incontriamo è Vittorio Gargano, un autista italiano in servizio in Etiopia, che si macchia di omicidio per salvare la giovane Ekelé da un brutale stupro. La vicenda sarà poi raccontata, con profondo senso di colpa, dallo stesso Vittorio al figlio Arturo, che a sua volta la tramanderà a Tobia, un sedicenne milanese impegnato in servizi socialmente utili presso la casa di Arturo. Ekelé, che si potrebbe definire l’iniziatrice della teoria delle invisibili, viene aiutata da Vittorio, il quale per salvarla uccide il suo aggressore. Questa azione si basa però su un atto riparativo non risolutivo: Vittorio vendica Ekelé, ma non compensa il danno subìto dalla giovane, così come l’Italia imperialista non trova redenzione nel solo senso di colpa per l’aggressione all’Etiopia. L’architettura narrativa del romanzo è costruita attorno ai quattro elementi di Empedocle: Acqua, Aria, Terra e Fuoco. Le donne, le invisibili, costituiscono le fondamenta della storia, e la sostengono. Ogni sezione e ogni sottocapitolo includono la storia di un uomo – che sia Vittorio Gargano, suo figlio Arturo, il Colonnello Graziani, o il giovane Tobia – sempre affiancata dalla figura di una donna, iniziatrici ed eredi di quelle microstorie rimaste a lungo taciute. Tra queste ricordiamo Agata, Mira, Fatima, Ekelé, Feven e infine Lilith, la più invisibile tra le invisibili, il fantasma di un amore giovanile che solo Arturo – ormai anziano e affetto da demenza senile – può vedere.
Le vicende personali di queste donne si intrecciano con la storia collettiva, conferendo un significato più profondo al sottile filo invisibile che lega l’Africa colonizzata all’Italia contemporanea. Tale intreccio offre una prospettiva unica e inedita sulla Storia, tradizionalmente dominata da una visione maschile. Il valore più profondo dell’opera risiede proprio in questo concetto: possiamo raggiungere una comprensione autentica della Storia solo se consideriamo e ascoltiamo ogni voce, evitando così che i fantasmi del passato – emblematicamente rappresentati dalla figura di Lilith – tornino a bussare alla nostra porta. È dunque necessario rafforzare una memoria che includa anche coloro che, storicamente, sono stati relegati ai margini della narrazione storica.
Fondamentale è nelle donne l’esigenza di tramandare, come afferma anche Fatima, una delle protagoniste: «Ereditiamo da chi ci ha preceduto il ricordo della fame patita e degli schiaffi ricevuti, oppure la paura delle bombe e di chissà cos’altro. Dalle madri di più, forse, per via del DNA mitocondriale che è tutto materno» (p. 240). Non si parte da zero con la vita – raccontano le nostre protagoniste –, ciascuno di noi è il punto d’arrivo di una linea materna che risale fino a Eva. Ne è un esempio Mira, sorella adottiva di Agata (madre di Tobia), giunta a Milano «dall’inferno della terra» dopo il terribile cataclisma che ha sconvolto l’Etiopia. Mira insiste con Agata su quanto sia stato importante per lei ripercorrere la «lunga strada» per amare ciò che la lega alla madre, alla madre di sua madre e a tutte le donne della sua stirpe, che lei definisce «una stirpe di regine» (p. 254). Se gli uomini del romanzo lasciano in eredità una storia di morte, le donne trasmettono una linea di resistenza, ricreando una genealogia femminile che ricostruisce passo dopo passo il loro passato, rendendole sempre meno invisibili, restituendo loro valore.
In questa opera polifonica e ricca di umanità, si aprono molti sipari: la vicenda del generale Graziani in Etiopia negli anni Trenta, accompagnata da una propaganda ultranazionalista e razzista; le donne etiopi, soprattutto quelle giovanissime, sfruttate dai soldati italiani, violentate e uccise, usate come bottino di guerra; l’adolescenza fragile di tanti ragazzi come Tobia e infine il razzismo contemporaneo, che si manifesta attraverso il grande cliché dell’«aiutiamoli a casa loro». Uno sguardo attento sulla nostra contemporaneità emerge anche nella descrizione delle relazioni di amicizia e amore vissute da Tobia e nella sapienza psicologica con cui sono delineate le complesse dinamiche familiari. Si ritrova anche una pedagogia democratica nel senso di appartenenza al di là dei legami biologici, che induce Agata, ancora bambina, ad accogliere Mira nella sua famiglia. Una lettura attenta ai fatti storici e una ricerca approfondita sostengono la struttura di questo libro. La meticolosa attenzione ai dettagli è evidente nella Nota bibliografica e nella Cronologia essenziale della conquista dell’Etiopia. Questa postfazione, insolita per un romanzo di narrativa, dimostra il debito dell’opera nei confronti di numerose altre ricerche, tra cui il fondamentale libro di Angelo Del Boca Italiani brava gente (2005) e romanzi imprescindibili come Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano, Il colore del nome (2021) di Vittorio Longhi e Il re ombra (2019) di Maaza Mengiste. Echi letterari di autori cari alla scrittrice, come Montale o Eliot, sono disseminati qua e là nel romanzo. Elena Rausa ci consegna un romanzo avvincente con una duplice funzione: letteraria e civile, poiché, pur non essendo programmaticamente militante, Le invisibili invita ad adottare uno sguardo obliquo sulla storia, mirato a comprendere l’importanza di chi e cosa è rimasto ai margini. L’autrice conclude il romanzo con una metafora che restituisce un po’ di speranza ai lettori e alle lettrici: «la terra è sempre fertile, e c’è un terreno che le donne possono ancora seminare per estirpare le gramigne. Possono servire molte semine, soprattutto in primavera, se l’autunno ha portato troppa pioggia» (p. 257).
Le colpe dei padri, sembra suggerire Rausa, gravano inevitabilmente anche sui figli e l’unica via di redenzione sembra risieda nel riconoscimento che molti dei privilegi attuali traggono origine da azioni predatorie del passato. A tal proposito, non basta il mero rammarico: è imperativa un’assunzione di responsabilità tangibile e visibile. Un primo passo in questa direzione potrebbe essere quello di rendere la storia coloniale italiana sempre più accessibile alla collettività, affinché le verità occultate emergano come parte di un processo di elaborazione della vergogna nazionale, anziché permanere nell’indifferenza.
Nel libro, si staglia con nitore l’acume dell’operazione letteraria e narratologica orchestrata da Elena Rausa. L’autrice ci esorta a comprendere l’imprescindibile necessità di una duplice riemersione dall’oblio: da un lato, il ricordo di un passato coloniale sovente oscurato o trascurato dalla narrazione storica corrente; dall’altro, la riscoperta delle voci femminili, che tanto la letteratura quanto la storia hanno relegato ai margini.
La vicenda si chiude poi in una sequenza intensa che vede Agata e Fatima stringersi forte la mano (pag. 257), suggerendo il bisogno di prendersi cura delle proprie ferite nel reciproco riconoscimento del dolore e dei traumi vissuti, guardando a uno stesso passato così come a uno stesso destino.

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