Storie di mare e di mercanti
Laura Galoppini, Storie di mare e di mercanti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 2, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12005
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El mar hierve y se ríe
con las olas y la espuma de leche azul y plata,
el mar hierve y se ríe
bajo el cielo azul.
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Antonio Machado, El mar
1. Lo pericolo del mare
Il Mediterraneo, un mare che deve il suo nome al fatto di collocarsi in ‘mezzo alle terre’, ai tre continenti – Europa, Nord Africa, Asia occidentale- che separa e allo stesso tempo unisce, è stato la principale via di comunicazione per i popoli che vi si affacciavano e che, fin dalla più remota antichità, lo hanno percorso in tutte le direzioni per conoscere nuove terre, per commerciare, per conquistare, per cercare altre possibilità di vita. Già alle origini della letteratura europea è presente, con il fascino che emana e i timori che suscita, con le isole che lo punteggiano e le terre che vi si affacciano, come la quinta scenica del viaggio di Ulisse1. Il mare che vide la spedizione dei Greci verso Troia, gli scontri navali fra Roma e Cartagine, gli assedi ottomani di Rodi, Cipro e Malta e la battaglia di Lepanto fu sì teatro di conflitti sanguinosi2, ma anche lo spazio di scambi commerciali e culturali destinati a segnare nel tempo e in profondità la civiltà come la cultura scientifica: un esempio è quello del pisano Leonardo Fibonacci (il padre era un notaio al servizio dei mercanti alla dogana di Bugia) che con il suo Liber Abaci introduceva in Europa la numerazione indo-arabica e l’uso dello zero che ancora oggi utilizziamo3.
Fin dall’antichità, coloro che lo percorrevano conoscevano le molte insidie della sua navigazione e, in particolare, la mutevolezza del regime dei venti e la presenza di numerose secche lungo le coste4.
Nel Medioevo e nella prima età moderna (periodo a cui faccio riferimento con questo contributo) l’esperienza tramandata fin dai tempi più antichi si era concretizzata in un’arte della navigazione, indispensabile – anche in un mare non vasto come il Mediterraneo – per riuscire a portare felicemente a termine il viaggio intrapreso. Parte essenziale dell’arte di navigare era costituita dalla capacità di scrutare il cielo5: per determinare la rotta della navigazione (attraverso la posizione delle stelle e dei pianeti in relazione con i punti cardinali) e per cercare di prevedere le variazioni delle condizioni atmosferiche (direzione e forza dei venti, tempeste, fortunali, bonacce) che tanta importanza hanno per chi viaggia sul mare, vagliando tutti i segni che si potevano ricavare anche dai fenomeni elettrici (forma dei fulmini), ottici (lampi, arcobaleno), sonori (tuoni) che avvenivano nell’atmosfera.
Le fonti scritte relative a ‘storie di mare e di mercanti’, testimonianze sia documentarie che narrative, non si contano.
Per quanto concerne i viaggi a scopo commerciale, la documentazione più ricorrente è proprio quella prodotta dalle aziende: contratti, contabilità, libri mastri, polizze di carico, tipica documentazione ‘involontaria’, cioè non redatta per informare noi, ma ricchissima di informazioni fondamentali. Tutta questa documentazione, che si presenta a volte come un insieme arido di cifre e note poco attraenti, delinea in realtà la rete di una vastissima attività economico-commerciale e ne illustra alcuni aspetti particolari.
Un esempio è dato dai contratti che dividevano tra più soggetti i rischi d’impresa; una cautela che testimonia in modo esemplare come per i mercanti la navigazione significasse affrontare grandi pericoli con la conseguente necessità di ammortizzare, con la suddivisione del rischio, eventuali perdite di merci e di capitali6.
Ricordiamo, per esempio, fra i documenti di questo tipo le commende genovesi (XII sec.) e pisane (XIV sec.) che attestano il movimento delle imbarcazioni – galee, navi, barche, uscieri, legni ecc.- che, nella prima metà del Trecento salpavano alla volta dei centri mediterranei, lungo le coste dell’Africa, delle grandi isole, della Francia e della Penisola Iberica, con un progressivo ripiegamento nel Tirreno per quanto riguarda Pisa7.
Le navi erano il mezzo di trasporto più veloce e più economico, ma al tempo stesso molto rischioso, sia per i pericoli connessi alla navigazione in senso proprio (tempeste, burrasche, venti contrari), sia a quelli derivanti dall’uomo (pirati, corsari). Nelle lettere dei mercanti si accenna quasi sempre alla grande preoccupazione per questi viaggi. Per esempio, il lucchese Antonio Quarti nel 1401 scriveva da Bruges alla compagnia Datini di Barcellona che avrebbe voluto inviare ancora più balle di lana inglese ma non lo faceva per paura del viaggio per mare, «lo pericolo del mare non mi lassa». In questo caso il pericolo a cui si accenna è quello dei pirati inglesi le cui incursioni in quel periodo si erano fatte più frequenti8.
Oltre ai contratti notarili altre fonti importanti sono i registri doganali, straordinari per la quantità e varietà dei dati che ci hanno lasciato. Si pensi alle Aduanas sardas, i registri del porto di Cagliari nel periodo catalano-aragonese, ci rivelano l’andamento dei commerci e il variare delle rotte mediterranee – Barcellona, Pisa e gli approdi della Toscana meridionale, Napoli, Amalfi, Tropea, Gaeta, Paola, i porti delle isole minori del Tirreno e della Sicilia – nel lungo periodo dal 1351 fino al 1429. Vi compaiono migliaia di nomi (insieme con le donne, le tavernere, che acquistavano modesti quantitativi di vino da servire nelle taverne) il loro nome, il “cognome”, talora il mestiere (mercanti, armatori, tavernieri, bottegai, etc.) e la nazionalità secondo la quale erano tassati9. Sono indicati i vari tipi di nave – cocche, galiote, legni, barche, galee – che giungevano nel porto e le varie merci che caricavano o scaricavano: lana, cotone, pellami, manufatti vari, formaggi, vino, paste alimentari, e tutto ciò che era richiesto sui vari mercati10.
2. Sì come usanza suole
Altro genere di fonti è costituito da quelle narrative, tra le quali si vuole segnalare la novella di Landolfo Rufolo nel Decamerone (Decameron, II, 4), straordinaria, in quanto scritta con la penna del Boccaccio, anche se basata su una trama elaborata in ambienti mercantili, che fornisce un’immagine vivace dell’esercizio della mercatura nel Mediterraneo11. Il protagonista, per impinguare la sua ricchezza, si improvvisa mercante ma, incapace di esercitare il mestiere, diviene presto povero; si trasforma allora in pirata, viene catturato dai Genovesi la cui nave fa naufragio. Scampato alla morte per essersi aggrappato a una cassetta di legno – che poi si rivelerà piena di gioielli – torna a Ravello arricchito ma abbandonerà la mercatura. Il mondo del mare e dei mercanti è il protagonista e, al tempo stesso, l’ambiente in cui si svolge la vicenda.
Così quando Landolfo si fa mercante, «…sì come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno e quello tutto, di suoi denari, caricò di varie mercatantìe ed andonne con esse in Cipri»; quando si mostra incapace di esercitare il mestiere confrontandosi con la concorrenza, « …con quelle qualità medesime di mercatantìe che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino al disertarsi»; quando, fallito nel ruolo di mercante e rovinato economicamente, decise di trasformarsi in pirata e, acquistato «un legnetto sottile da corseggiare diessi a far sua della roba d’ogni uomo»12, e qui si mostra il labile confine che poteva dividere il commercio dalla pirateria. Vi troviamo anche riferimenti alla tipologia delle navi: «grandissimo legno, legnetto sottile da corseggiare, due gran cocche, paliscalmi (le scialuppe)», ai venti che si incontrano in navigazione (uno scilocco … un vento tempestoso), alle insenature che offrivano un riparo (in un seno di mare il quale una piccola isoletta faceva, da quel vento coperto…), alla navigazione lungo la costa (marina marina si condusse), al naufragio (percosse in una secca, e non altrimenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò).
Si potrebbe considerare come la morale della novella che non si può esercitare la mercatura senza essere esperti dell’arte. Infatti, Landolfo Rufolo arricchitosi alla fine fortunosamente, ma consapevole della sua imperizia nella mercatura e i rischi di mare, prende alla fine la risoluzione più ragionevole e, «senza più voler mercatare, si ritenne, ed onorevolmente visse infino alla fine» nella sua Ravello.
L’esperienza del mare e della navigazione non era appannaggio solo dei mercanti ma, in particolare nel periodo medievale, era condivisa dai molti pellegrini che affrontavano cammini di terra e di mare per recarsi ai luoghi santi. Dalle esperienze e dalle memorie di questi uomini ha origine un particolare genere letterario, la cosiddetta letteratura odeporica, costituita dai racconti di questi viaggi di fede e di conoscenza, degli itinerari scelti, delle difficoltà affrontate, dei paesaggi e delle città attraversate, dei pericoli scampati; a questo genere appartiene l’antico Itinerarium Terrae Sanctae Anselmi Adournes militis (1470-1471), che narra del pellegrinaggio a Gerusalemme del nobile di origine genovese Anselmo Adorno13. Partito da Bruges il 19 febbraio 1470, insieme al figlio e ad altri nobili fiamminghi, salpò per la Terra Santa da Genova, mentre al ritorno, giunto a Brindisi il 24 novembre dello stesso anno, risalì la penisola italiana rientrando a Bruges, via Colonia, il 4 aprile del 1471. L’Itinerarium, opera dedicata al re di Scozia (Giacomo III), mentre ci rivela la raffinata cultura europea dell’Autore, nell’accurata attenzione ai luoghi, alle società e alle istituzioni, può anche essere letto come un manuale, quasi una sorta di pratica di mercatura, ove si raccolgono notizie a uso dei mercanti, che ben rivela lo stretto rapporto degli Adorno con il mondo degli affari.
La navigazione, con le sue difficoltà e le sue complessità, finì per costituire una metafora dell’agire umano nel mondo e del dominio della vita interiore. Il domenicano Bernardino degli Albizzeschi di Massa Marittima (1380-1444), affermava che «colui che ha delle cose di questo mondo da Dio» doveva «operare molte cose, come bisogna a una nave a voler navigare». Così il mondo marinaresco poteva suggerire singolari esempi e paragoni adatti a spiegare specifiche situazioni del mondo: così San Bernardino usava le varie tipologie di imbarcazioni per dare un’immagine efficace delle città e delle loro differenze. Le grandi cocche rappresentavano le città maggiori – Siena, Milano, Venezia, Roma -mentre i centri minori erano le galee, barche, barchette, gondole. E, così come per le navi in mare, la loro forza era comunque costituita dalla loro unione che le avrebbe rese forti e invincibili14. Nella stessa linea di pensiero la mancanza di unità e di armonia nel governo di una città era tradizionalmente rappresentata con l’immagine resa celebre da Dante, di una nave non governata abbandonata alla tempesta, «nave sanza nocchiere in gran tempesta» (Purgatorio VI, 77).
3. Colpi del mare grosso
Le voci stesse dei protagonisti delle vicende, a volte avventurose, a volte tragiche, legate alla navigazione le ritroviamo in alcuni peculiari documenti. Diversi manoscritti tardo medievali ci conservano i testi di litanie (le sante parole) che i naviganti recitavano quando si sentivano in pericolo non avvistando terra e non conoscendo la propria posizione in mare; le litanie enumeravano tutta una serie di santuari sulle coste del Mediterraneo e alcune dell’Atlantico intercalati dalla richiesta di aiuto divino15.
In un’altra fonte di età moderna, i testimoni diretti sono gli stessi comandanti delle navi che formalmente espongono ai Consoli del mare di Livorno le vicende della loro navigazione: come quando il capitano di una nave mercantile, partita da un porto del Mar Baltico carica di granaglie, o da un porto sardo, siciliano, o spagnolo, carica di vino, lane, formaggi e altri prodotti, si presentava per denunziare, con un suo dettagliato racconto, quanto gli era capitato nel corso del suo viaggio e giustificare la perdita o il danneggiamento del carico trasportato. In genere i danni erano dovuti a «dei corsari europei durante i frequenti conflitti fra gli stati.
Così l’11 marzo del 1595 Pietro Durante di Marsiglia padrone della saettia San Iacopo Buona Ventura, a causa di una tempesta, era stato costretto a gettare fuori bordo della merce che stava trasportando a Livorno: alcuni barili di zolfo e del tartaro che aveva caricato a Napoli e Pozzuoli, insieme con diverse balle di comino16. Joan Fanderaider (Van der Heider) di Amburgo, capitano della nave Il leone d’oro, carica di 110 laste17 di grani da consegnare a Livorno, era partito da Amburgo il 17 novembre del 1595, per giungere a Livorno il 14 febbraio dell’anno successivo. Nel corso dei 3 mesi di navigazione aveva prima incontrato una violenta tempesta con forti venti di libeccio per cui «fu forzato a piglare la sua navicatione per di fuora della Inghilterra et Scotia»; e aveva nuovamente dovuto affrontare i medesimi venti e il mare grosso, prima «già trovandosi sopra la Scotia», poi nel golfo del Leone, tra Minorca e la Sardegna, dove la nave aveva perso l’albero di gabbia col relativo sartiame e vele18.
In alcuni casi le disavventure di un viaggio potevano includere sia gli eventi metereologici avversi sia i pericoli derivanti dalla guerra di corsa. Nel 1596, ad esempio, Antonio Angiolo di Marsiglia, proprietario del galeonetto nominato Santa Anna Buonaventura, presentava una relazione ai Consoli del mare raccontando che era partito da Cadice dopo aver caricato la sua nave con diverse merci, «quoia, salsapariglia, bottiglie d’ulive, botte di vino et altre mercantie di conto di più mercanti, et di robbe, perle, contanti et altre robbe», che dovevano essere portate a Livorno. I mercanti che avevano noleggiato la nave per la spedizione erano a conoscenza del pericolo d’incontrare corsari inglesi e avevano espressamente raccomandato al comandante della nave di gettare a mare, nel caso in cui si fossero imbattuti nei corsari, le lettere che gli avevano consegnato e dichiarare tutto il carico come di proprietà dei francesi con i quali gli inglesi non erano allora in conflitto. Partiti quindi il 22 gennaio da Cadice, dopo una breve navigazione, per le condizioni del vento, furono costretti a tornare indietro: «con buon tempo fino alla mezza notte fino al capo di Trefegar [Trafalgar], quindici migla alto mare, et si misse levante fresco che li fece tornare alla volta di Calis [Cadice]». Qui si imbatterono in una nave corsara inglese che non furono in grado di evitare e che li inseguì «tirando artelleria et moschettade» fino a raggiungerli. Così il comandate e l’equipaggio, come stabilito, gettarono a mare le lettere e dichiararono agli aggressori che il carico della nave era di proprietà francese, persistendo in questa versione nonostante le ripetute minacce del comandante inglese il quale, ovviamente, cercava di estorcere la dichiarazione che il carico era di proprietà spagnola per potersene impadronire. Dopo tre giorni di prigionia l’equipaggio e la nave furono rimessi in libertà, non senza che gli inglesi avessero comunque saccheggiato una parte del carico costringendo con la violenza il capitano a rilasciare una dichiarazione che la merce sottratta era di proprietà spagnola. La merce rubata è dettagliatamente elencata nella relazione: «et alla fine saccheggiorno il detto galeonetto, et in prima rompendo le casse presono camicie et vestiti del detto padrone et marinari, et di poi quattro fardi di salsaparigla, dugento quoia in circa, otto arrove di olio, dodici pezze di ciambellotti19, dugento scudi del padrone et marinari di dodici reali castellani l’uno, quattro botte di vino, molte bottigle di ulive, dua barili di tonnina, una pezza di tela Olanda, uno barile di acciughe, tre cassette in quali erano dua vestiti di velluto, dua cassette che vi erano olii di vette o balsamo, una bottigla di ferro bianco che non si sapeva quello vi fussi drento, una pezza di tela bianca, uno involtiglo di pelle, sei sacha di gengiovo [zenzero] del detto padrone et marinari, uno pachetto di perle et altro come al discarico si troverà mancare». Dopo aver incontrato un’altra nave corsara, la Santa Anna Buonaventura giunse nei pressi di Gibilterra e, avendo intravisto altre navi, nel timore si trattasse di corsari, preferì fuggire affrontando il mare grosso imbarcando acqua finché riuscì a raggiungere Maiorca dove il capitano presentò una prima relazione su quanto accaduto e da dove ripartì riuscendo finalmente ad arrivare a Livorno20.
Ancora, nel giugno del 1598, Paulo Deschinovich di Ragusa (raugeo), capitano della nave San Giovanni Battista faceva relazione ai Consoli del mare di Livorno su quanto accadutogli nel suo ultimo viaggio21. Partito da Lisbona a gennaio di quell’anno, dopo aver caricato la nave di zuccheri e altre merci, si portò a Cadice per imbarcare altre mercanzie da dove ripartì verso Livorno. All’altezza del Cabo de Gata, in Andalusia, la nave fu investita da una forte tempesta (fortuna crudelissima causata da venti ponenti et libecci con grandissimo impeto et forza) e, trovandosi in grave rischio per le violente ondate, i marinai furono costretti ad abbandonare la barca che rimorchiavano a poppa della nave e che si era riempita d’acqua e che così andò perduta. Approdati ad Alicante il 25 febbraio, dopo aver caricato altre merci ripartirono ma furono costretti a gettare l’ancora a Porto Pedro in Maiorca per il maltempo e di qui ripartirono il 24 marzo. Poco dopo aver ripreso la navigazione s’imbatterono in 5 navi inglesi che intimarono di fermarsi e, al loro rifiuto, cominciarono a inseguirli aprendo il fuoco, per cui furono costretti a ritornare a Maiorca con la nave danneggiata: «gridavano che amainassino le vele, le quali non volendo amainare li cominciorno a tirare di molti tiri di bonbarde et archibuseria, con li quali tiri hanno fatto molto gran danno alla detta nave et nelle vele, arbori, sartie et della gente ferita, et di più la detta nave toccò un colpo da basso dal’acqua per dove entrò di molt’acqua dentro alla nave et per la diligenza del capitano et gente si salvorno dentro a Porto Pedro in Maiorca con cinque palmi d’acqua dentro alla nave, nel qual luogo cercorno usare ogni diligenza di rimediare, come rimediorno, alla detta acqua, et in detto luogo di Porto Pedro fece suo consolato».
Ripartiti il 2 aprile da Maiorca, la notte del 5 incontrarono nuovamente una violenta tempesta in balia della quale rimasero anche tutta la giornata successiva, con la nave che imbarcava acqua e pressoché impossibilitati a governarla per la rottura del timone e di una vela, «per la gran fortuna et furia di venti non si poteva in altro modo governare la nave per causa del timone che s’era rotto … si roppe detta vela per la gran rabbia del vento et colpi del mare grosso», per cui decisero di alleggerire la nave gettando fuori bordo parte della merce e altre cose. La decisione viene presa, nel racconto del comandante, dopo essersi affidati alla Madonna di Montenero, «et però si tenevano persi del tutto, et havendo fatto voto a nostra Signora di Montenero …», con un atto di ‘devozione marinaresca’ frequente in simili situazioni drammatiche. Ripreso in parte il controllo della nave, fecero vela verso la Sardegna continuando ad aggottare per tre giorni, «stando tre giorni continui tutta la gente et alcuno passeggiero a aggottare l’acqua, senza riposarsi mai», finché giunsero al porto di Cagliari, ultima tappa prima di arrivare a Livorno il 12 maggio.
I racconti che riferiscono traversie di questo genere, e si incontrano assai frequentemente nelle relazioni rese ai Consoli del mare, forniscono un’idea piuttosto precisa della realtà della navigazione e dei rischi ad essa connessi. Tuttavia, essa significava oltre alle ‘grandi paure’ e inevitabili pericoli, anche il misurarsi con le proprie capacità e pure vivere momenti di grande bellezza. E il mare diventa allora, nell’immaginario collettivo, simbolo di libertà e luogo dell’anima.
Note
- Ringrazio il dott. Giancarlo De Fecondo per avermi segnalato, con la consueta generosità, i documenti inediti relativi al fondo Consoli del mare di Livorno conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa. Questo testo è una rielaborazione del mio intervento dedicato a Storie di mare e di mercanti presentato a Bologna alla XX Festa Internazionale della storia (Sala Stabat Mater – Biblioteca dell’Archiginnasio, 25 ottobre 2023); la bibliografia sulle tematiche relative al commercio e alla navigazione è sterminata e, in questo contributo, ci limitiamo a citare quella strettamente indispensabile.
Angelica Fago, Il viaggio marino di Odisseo tra narrazione mitica e realtà mediterranea, in Il Mediterraneo. Un mare di storie, a cura di F. Ciccodicola, “Storia, antropologia e scienze del linguaggio” XXXIII, fasc. 2-3 maggio dicembre 2018, pp. 127-150. Si ricorda di Michel Mollat du Jourdin, L’Europa e il mare dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993; Scipione Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Milano, Bruno Mondadori, 2007. - Per il periodo medievale, alcune osservazioni in Marco Tangheroni, La guerra sul mare, in Guerra e guerrieri nella Toscana medievale, saggi raccolti da Franco Cardini e Marco Tangheroni, Firenze, Edifir, 1990, pp. 31-49.
- Marco Tangheroni, Fibonacci, Pisa e il Mediterraneo, in Leonardo Fibonacci. Il tempo, le opere, l’eredità scientifica, a cura di M. Morelli – M. Tangheroni, Pisa, Pacini, 1994, pp. 15-34; Raffaella Franci – Laura Toti Rigatelli, L’eredità di Leonardo Fibonacci, in Fibonacci tra arte e scienza, a cura di L. A. Radicati di Bozzolo, Cinisello Balsamo (Milano), Amilcare Pizzi (Pisa – Cassa di Risparmio), 2002, pp. 45-67; Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano, la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente, a cura di Enrico Giusti (a cura di), con la collaborazione di Raffaella Petti, Firenze, Polistampa, 2002; di recente è stata pubblicata l’opera del Fibonacci, cfr. Leonardi Bigolli Pisani Fibonacci, Liber Abbaci, Edidit Enrico Giusti adiuvante Paolo d’Alessandro, Leo S. Olschki, 2020; per la didattica nelle scuole, Progetto Fibonacci
- Marco Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1996; Antonio Musarra, Medioevo marinaro. Prendere il mare nell’Italia medievale, Bologna, Il Mulino, 2021; si ricorda anche il Convegno Internazionale di Studi dedicato a Il Mediterraneo fra storia e innovazione (Viareggio, 17-19 settembre 2021) i cui Atti sono in corso di stampa.
- Laura Galoppini, Una storia tra realtà e immaginario. L’arte di solcare i mari, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, Rivista di Storia-Lettere-Scienze ed Arti”, n. 74 (2007), San Miniato al Tedesco, Tipolitografia Bongi, pp. 169-214; Beatrice Borghi, Laura Galoppini (a cura di), Andare per lo mondo. Antologia di viaggi attraverso i secoli tra realtà e immaginario, a cura di Bologna, Pàtron Editore, 2022.
- Papa Gregorio IX nella Decretale Naviganti vel eunti ad nundinas (1234) affrontò il problema stabilendo che colui che dava in prestito una somma di danaro «a qualcuno che sta per salpare o va a una fiera, e pattuisce la restituzione di una somma maggiore di quella mutuata per il fatto che assume un rischio», doveva essere considerato un usuraio. Per aggirare questo ostacolo e non incorrere nella gravissima accusa dell’usura si concepirono strumenti tecnico-giuridici come, per esempio, la commenda, un contratto dove un finanziatore (socius stans) anticipava una somma di danaro o di merci da negoziare nell’ambito di un viaggio marittimo, generalmente a un mercante (tractator); qualora l’operazione avesse avuto successo, l’utile veniva diviso secondo quanto era stato stabilito per legge oppure concordato tra le parti. La sua diffusione risale al X secolo e la troviamo già nei capitoli di diritto marittimo del Constitutum Usus di Pisa (XII sec.).
- M. Berti, Commende e redditività di commende nella Pisa della prima metà del Trecento (da documenti inediti), in Studi in memoria di Federigo Melis, vol. II, Napoli, Giannini, 1978, pp. 53-145, ora in Id., Nel Mediterraneo ed oltre. Temi di storia e storiografia marittima Toscana (Secoli XIII-XVIII), Pisa, Edizioni ETS, 2000, pp. 83-173.
- «Ma che io non avessi paura del mare, ogni anno vi manderei 600 panni e più, se più ne poteste vendere, inperochè mi vàe molto bene per lo traficho delle lane, ch’io facio: chè di chontinuo debo avere da loro da franchi 10 in 20 migliaia, e arei buono merchato di panni, pure ch’io ne volessi prendere; ma lo pericholo del mare non mi lassa», Archivio di Stato di Prato, n. 854. 16/416747, Lettere Bruges-Barcellona, dalla Compagnia di Antonio Quarti, in Federigo Melis, Mercanti-imprenditori italiani in Fiandra alla fine del Trecento, in “Economia e Storia”, 2 (1958), pp. 144-161, cit. pp. 150-151.
- Le tariffe da pagare variavano in base alla nazionalità, cioè agli accordi politici ed economici del tempo, Laura Galoppini, I registri doganali del porto di Cagliari (1351-1429), in Quel mar che la terra inghirlanda. In ricordo di Marco Tangheroni, a cura di F. Cardini, M. L. Ceccarelli, vol. II, Ospedaletto-Pisa, Pacini Editore, 2007, pp. 399-406.
- La guerra, invece, bloccava del tutto ogni attività commerciale per cui durante il conflitto decennale con l’Arborea (1353-1409) il porto rimase chiuso per lunghi periodi e nei registri si trova annotato: «per la guerra del jutge de Arboreha: nichil».
- Roberta Morosini, Boccaccio e il mare. L’invenzione dello spazio narrativo della modernità, in Morosini, Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio, Roma, Viella, 2000, pp. 147-286.
- Per alcune riflessioni cfr. Marco Tangheroni, Andar per mare nel Medioevo: naufragi, pirateria e guerra di corsa, in TangheroniMorosini Commercio e navigazione nel Medioevo, cit., pp. 218-227.
- Beatrice Borghi, Il Mediterraneo di Anselmo Adorno. Una testimonianza di pellegrinaggio del tardo medioevo, Bologna, Pàtron, 2020.
- «Come sta il mare, così anco sta la terra abitabile. Nella terra vi so’ anco navi, barche, barchette, gondole, brigantini, cocche. O in che modo? Siena è una cocca, e la insegna sua è la balzana [gonfalone senese, diviso in due fasce orizzontali bianco e nero], e ha la vela e ciò che bisogna a potere naicare, e ha i ripari da poter campare da tutti i pericoli della terra. E così so’ anco de l’altre cocche, maggiori una che l’altra. È una cocca Milano, e così ha anco la sua insegna. Simile, anco Vinegia: anco come è Roma, ma Roma è maggior che Siena, e così è maggiore una che un’altra. Tutte queste e simili a queste si può dire che sieno cocche. So’ anco delle galee, so’ delle barchette e delle gondole, e tu puoi intentarlo come so’ terre atte a potere combattere e a resistere a chei le combattesse. E brigantini so’ cotali tenute, forti per modo, che si possono difendare da chi lo’ fa guerra. Tutte queste navi, galee, cocche, barche, barchette, gondole e ognuna per sé nel grado suo, quando so’ unite insieme fra loro, non potranno mai esser vente. Ma se aranno divisione fra loro non è niuna sì grande, che non possa essere vinta, e così perirà in mare», in Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, vol. II, Milano, Rusconi, 1989, Predica XV, pp. 68-71.
- Valentina Ruzzin, La Bonna Parolla. Il portolano sacro genovese, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s., 53 (2013), 2, pp. 21-59 in forma digitale su “Reti Medievali”; Michele Bacci, Portolano sacro Santuario e immagini sacre lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo tra tardo Medioevo e prima età moderna, in The Miraculous Image in the Late Middle Ages and Renaissance, edited by Erik Thunø and Gerhard Wolf, Roma, «l’Erma» di Bretschneider, 2004, pp. 223-248.
- Archivio di Stato di Pisa (ASPi), Consoli del mare, filza 10, cc. 523-564.
- Misura per gli aridi prevalentemente usata nell’Europa settentrionale, con valori variabili, oscillanti intorno a 30 hl; talora anche unità di misura di massa, usata per carichi di navi, con valore di circa 20 quintali.
- ASPi, Consoli del mare, filza 12, cc. non numerate.
- Un genere di panno che si faceva di pelo di cammello o di capra, cfr. Cammellòtto – Significato ed etimologia – Vocabolario – Treccani
- ASPi, Consoli del mare, filza 10 (1595-1596).
- ASPi, Consoli del mare, filza 17, giugno 1598.
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