Il Faro di Livorno detto anche “il Fanale dei pisani”
Stefano Gilli, Il Faro di Livorno detto anche “il Fanale dei pisani”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 6, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12020
La Repubblica di Pisa era una delle quattro Repubbliche Marinare italiane, ma Pisa non si trova sul mare, essa fu costruita sul fiume Arno e per proteggere la sua flotta aveva attrezzato e fortificato il Porto Pisano, posto alla foce del fiume, che allora era adiacente a un piccolo borgo prevalentemente di pescatori, chiamato nel tempo “Labro”, poi “Liburnus” e alla fine “Livorno”. il Porto Pisano divenne quindi il maggior porto della Repubblica marinara di Pisa, dove attraccavano e partivano navi che instauravano commerci con tutto il mar Mediterraneo, oltre che fungere da rifugio alla potente flotta da guerra. La cura che la repubblica marinara dedicava al suo porto è anche documentata da importanti opere pubbliche al servizio delle attività portuali. Tutta la zona circostante assunse importanza militare ed economica.
Dal 1156 con l’intensificarsi degli assalti genovesi al porto per ostacolare l’egemonia pisana nel Mediterraneo occidentale, venne avviata una sua fase di fortificazione, cominciata con la costruzione di una prima torre, e proseguita l’anno successivo, nel 1157, con l’erezione di altre due torri nel Portus Magnalis, come si chiamava la parte meridionale del Porto Pisano. Infatti, il console di Pisa Cocco Griffi fece fortificare Pisa ed il porto con alcune torri per difenderne il suo ingresso. La Torre Magna o del Magnale e la Torre Formice o Formica più a sud, furono erette tra il 1157 ed il 1163 alle due estremità dell’imboccatura del porto ed unite da una possente catena ne chiudevano l’ingresso.
Nel 1156-57, nell’ambito della fortificazione del Porto Pisano, venne costruita anche una torre imponente ad uso di faro sulle secche della Meloria1. Tale torre aveva presumibilmente anche funzione di fortilizio presidiato da soldati, mentre il faro fu affidato dapprima ai frati Benedettini di Pisa e successivamente agli Agostiniani dell’antica chiesa di San Jacopo in Acquaviva, a Livorno.
La seconda menzione certa di un faro sul mare nei pressi di Livorno risale al marzo 1282. In quell’anno i consoli del mare di Pisa stipularono un contratto con i frati del romitorio di San Iacopo in Acquaviva per la custodia e il funzionamento del faro. I consoli del mare si impegnarono a fornire al priore di San Iacopo ogni tre mesi 6 staia di olio, 34 soldi per i lucignoli, 18 soldi per il trasporto dell’olio, 6 soldi per una libbra e mezza di candele, 5 soldi per le spugne per lavare la lanterna e 15 lire di salario per i frati. Questi, dal canto loro, si impegnavano a custodire il faro, ad abitarvi, senza precisare in quanti, e a farlo funzionare. Il contratto aveva valore per cinque anni a partire dal primo aprile successivo.
Nel 1162 sulle banchine del porto venne aperto un vasto alloggio per gli equipaggi che vi sbarcavano, detto “Domus Magna”, complesso fortificato e difeso da un fossato, mentre nelle vicinanze, nel 1174, fu costruito il “Fondacum Magnum”, vasto magazzino fortificato e difeso da una torre. L’ingresso portuale venne chiuso per maggiore sicurezza con una grossa catena tesa tra le due torri, vennero inoltre scavati alcuni nuovi canali nel tentativo di irreggimentare e deviare i corsi d’acqua che gettandosi nel golfo ne favorivano l’insabbiamento: il canale della Vettola per deviare il ramo meridionale dell’Arno, la “fossa antiqua o Catafratta” che deviava le acque dei torrenti Ugione, Cigna, Riseccoli e Mulinaccio verso San Jacopo in Acquaviva.
Nel 1245 sull’odierno colle del Castellaccio, vicino all’antico castello di Loreta, fu decisa da Pisa l’erezione di una torre da usarsi come faro, che doveva avere in cima una terrazza su cui accendere il fuoco. L’onere della costruzione fu affidato ai consoli dei comuni esistenti nelle pievanie di Ardenza, Limone, San Lorenzo in Piazza e Camaiano, cioè a tutti i borghi che erano nella Capitaneria di Porto Pisano. In realtà la costruzione di un tale faro non fu mai terminata.
La cruenta rivalità con Genova sul campo commerciale portò le due Repubbliche alla ricerca continua del momento più propizio per annientare le flotte nemiche ed assumere il predominio sulle rotte commerciali del Mediterraneo. Per prima Pisa fu sul punto di riuscirci nel luglio del 1284: 30 galee genovesi al comando di Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, erano state inviate in Sardegna a Porto Torres per portare supporto alle truppe Genovesi che assediavano Sassari e in porto non ne erano rimaste che 58. Il piano dei Pisani era di colpire in netta superiorità (settantadue galee) la flotta ligure a Genova per poi affrontare le rimanenti unità in Sardegna e chiudere per sempre il conto con la Superba.
Il 22 luglio I Pisani partirono per cogliere di sorpresa la flotta Genovese ma a causa di un fortunale che rallentò gli spostamenti quando arrivarono vicino a Genova fu avvistata in lontananza la flotta di Zaccaria di ritorno da Porto Torres. I Pisani, valutando di aver perso la superiorità numerica, decisero di non attaccare e rientrarono in porto, non senza lanciare una ultima provocazione ai Genovesi, sotto forma di una pioggia di frecce d’argento.
La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e alle prime luci dell’alba del 6 agosto 1284, salpò verso Porto Pisano. La scelta del giorno di San Sisto sulla carta era propizio ai pisani in quanto foriero di vittorie e celebrato ogni anno. Si narra che quel giorno, durante la tradizionale benedizione delle navi prima della battaglia, la croce d’argento del pastorale dell’Arcivescovo di Pisa si staccò, i Pisani non si curarono di questa premonizione negativa, dopotutto era il giorno del loro patrono, e irriverenti urlarono che a loro bastava il vento propizio per vincere anche senza l’aiuto Divino.
L’ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto “Compagne” (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.
Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee che vennero tenute in retroguardia e “mascherate” facendo abbattere gli alberi che sostenevano le grandi vele latine, in modo da essere scambiate per navi disarmate (non esistevano ancora i cannocchiali).
La flotta pisana era in parte ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un’altra parte sostava poco fuori dal porto.
Al comando della flotta, secondo le consuetudini del Governo Potestale, i Pisani avevano scelto, Albertino Morosini da Venezia. I Veneziani, com’è noto, erano da sempre in rivalità con Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l’appoggio della loro flotta alla repubblica pisana. Assistevano Morosini: il conte Ugolino della Gherardesca (celebre perché cantato da Dante nel XXXIII canto dell’Inferno nella Divina Commedia) e Andreotto Saraceno. I pisani videro avanzare questa flotta verso di loro nelle primissime ore del pomeriggio del 6 agosto e, contando solo 63 legni genovesi valutando di essere superiori di 9 navi in più, decisero di uscire dal porto e dare battaglia.
In agosto nel Tirreno il tempo è quasi sempre buono, il mare calmo, il vento debole. Le fonti dicono che la flotta genovese fu avvistata all’altezza delle secche della Meloria, ossia ad appena 6 km dalla costa, il che lascia immaginare che la giornata non fosse limpida. Forse anche per questo le navi rimaste indietro non vennero avvistate o riconosciute.
I pisani presero il mare rapidamente, schierandosi in una linea di fronte molto lunga (almeno 2,5 km), anche le navi di Doria si disposero in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell’epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l’abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano a distanza ravvicinata con ogni sorta di munizioni scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e calce in polvere.
Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni di Benedetto Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. I pisani resistettero con la forza della disperazione fin quando Zaccaria non si avvicinò alla capitana pisana con due galee, stese tra di esse una catena legata agli alberi (che nel frattempo aveva fatto rialzare), prese in mezzo la nemica, tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo di Pisa. A quella vista, i pisani cercarono scampo in una fuga disordinata: solo le navi agli ordini di Ugolino della Gherardesca si salvarono. Più di 30 galee furono catturate, 7 affondarono, altrettante si incagliarono. La battaglia era persa e con la flotta Pisana anche il faro costruito sulle secche della Meloria venne incendiato e distrutto dai Genovesi.
Ci vollero anni perché Pisa si riprendesse dalla sconfitta e il faro di Livorno fu eretto solo nei primi anni del 1300 più vicino a costa per essere meglio difendibile, imponente per comunicare a tutti che Pisa era ancora una potenza marinara e a guisa di fortificazione per rendere il faro anche una roccaforte imprendibile.
Il progetto originale viene attributo a Giovanni Pisano2 figlio di Nicola. La torre fu costruita tra il 1303 ed il 1305; all’epoca era completamente circondata dal mare e dotata di approdi, anche se non terminata, nel 1304 era già presidiata, infatti negli statuti pisani dell’ottobre 1304 si dispone che in essa risiedessero stabilmente dei custodi, i quali dovevano avere un’età compresa tra i 25 e i 50 anni, essere uomini di mare e non abitare a Livorno o Porto Pisano. Per essi valevano le stesse regole che per i custodi delle altre torri del Porto Pisano. Nel 1310 al faro erano assegnati due sergenti, i quali dovevano provvedere oltre che alla custodia anche al suo funzionamento. La stessa organizzazione è attestata nel 1316.
Per la sua bellezza il “fanale” è citato da Francesco Petrarca, che lo menziona nel suo Itinerarium Syriacum3 del 1358:
«… Post hec paucis passuum milibus, portus et ipse manufactus, Pisanum vocant, aderit et fere contiguum Liburnum, ubi prevalida turris est, cuius in vertice pernox flamma navigantibus tuti litoris signum prebet»
(… Dopo poche miglia ecco il porto artificiale che è detto Porto Pisano, vicino e quasi un tutt’uno con Livorno, dove si erge una fortissima torre, in cima alla quale nella notte una fiamma indica ai naviganti la costa sicura).
Gregorio (Goro) Dati4, mercante Fiorentino famoso per i suoi viaggi, definì la torre come una delle più belle del mondo. Anche il grande astronomo Galileo Galilei (1564 –1642) usava salire in cima alla torre per portare avanti i suoi esperimenti. Il faro di Livorno è stato anche impresso in alcune monete d’oro ancora conservate al Museo Civico di Pisa.
Decaduta la Repubblica di Pisa, l’originaria Croce pisana scolpita sulla porta d’ingresso fu cancellata e sostituita dal Giglio fiorentino. Nel 1440 la lanterna in cima al faro fu rifatta, perché l’anno precedente si era bruciata. Gli Ufficiali del porto furono incaricati sia di rifare la lanterna sia di provvederla di olio:
«ut semper dicta lanterna noctis tempore arderet et luceret, pro honore Communis et salute navigiorum, secundum consuetudinem alias observatam».
(affinché sempre di notte la detta lanterna arda e faccia luce, ad onore del Comune e per la salvezza dei naviganti, secondo l’uso mantenuto in passato).
Nel 1583 il granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, allestì, alla base del fanale, il primo lazzaretto della città (1584) ed il secondo in Italia dopo quello di Venezia, affiancato da alcuni magazzini oggi non più presenti. Quando la famiglia de’ Medici si estinse nel 1736 con la morte di Gian Gastone de’ Medici, l’ultimo della sua stirpe, che non lasciò un erede legittimo, Livorno aveva già ottenuto la qualifica di città, aveva più di 30.000 abitanti, un grande porto e un grande faro, il più antico d’Italia, più vetusto anche del faro di Genova, costruito nel 1543. Nel 1737 il governo della Toscana passò nelle mani dei Duchi di Lorena, il primo dei quali fu il granduca Francesco Stefano di Lorena (1708-1765), noto con il titolo di Francesco III, il quale creò una reggenza presieduta da Marc de Beauvau, principe di Craon.
Nel 1765 il governo passò nelle mani di Pietro Leopoldo di Lorena (1765-1790), un principe illuminato che apportò molti cambiamenti. Egli aumentò la portata dello scalo livornese, che attraeva navigli da ogni parte del globo conosciuto e divenne un sempre più potente scalo commerciale sia per i beni in transito che per quelli in arrivo, dovuto alla sua sicurezza a cui contribuiva anche la presenza del faro. La dinastia dei Lorena governò per più di un secolo durante il quale Livorno fu occupata dalle truppe francesi e dagli spagnoli ma tuttavia città e faro sopravvissero. Fu solo nel 1860, dopo le guerre di indipendenza, che la storia di Livorno entra a far parte della storia d’Italia, una nuova nazione, appena costituita, e anche il faro entra nell’elenco dei fari Italiani con il numero 1896.
Il faro arriva così intatto fino al 1944 quando le truppe germaniche in ritirata ricevettero l’ordine di minarlo e distruggerlo. Le macerie del faro restarono sulla piccola isola all’ingresso del porto dal 1944 al 1954.
La ricostruzione voluta dal Presidente Gronchi e da tutti i Livornesi fu ultimata nel 1956. Per la ricostruzione furono utilizzati i disegni che riproducevano il faro pisano mantenendo inalterata la forma e le dimensioni volute dal suo progettista, ma per la realizzazione non furono più utilizzate le preziose pietre della Cava della Verruca (PI) ma la parte portante venne realizzata in cemento armato. Solo una piccola parte delle pietre originali, che si erano salvate dalla distruzione dei guastatori tedeschi, è stata utilizzata in una nicchia che ne ricorda la struttura originale. I lavori cominciarono nel giugno del 1954, dieci anni dopo la distruzione e il lavoro fu eseguito dall’Impresa Ghezzani, in due anni il faro di Livorno era terminato e aveva lo stesso aspetto del faro originale, i lavori per la ricostruzione del nuovo Fanale costarono 95 milioni di Lire.
Dal 1956 il faro è tornato sotto la gestione della Marina Militare ed è uno dei principali fari Italiani alto 57 metri e con un a portata di oltre 27 miglia.
Il faro aveva la lanterna, in ferro, e una sorgente luminosa, in principio, a olio, poi a petrolio, con speciali specchi a riverbero fino al 1841 quando furono installate le prime lenti di Fresnel e un bruciatore tipo AGA a gas di acetilene a incandescenza con splendori di 20 in 20 secondi, infine la luce elettrica ha consentito l’uso di una lampadina prima da 3000 W poi da 1500 con una caratteristica di 4 lampi ogni 20 secondi. L’ottica girevole aveva un meccanismo meccanico azionato da un peso motore e un congegno ad orologeria che ne controllava la discesa consentendo una rotazione ogni 20 secondi tale rotazione, oggi, è realizzata da un motore elettrico.
Purtroppo non esistono elenchi degli antichi guardiani del faro, è andato tutto distrutto. Solo nel 1800 abbiamo delle registrazioni delle forniture che venivano effettuate da una ditta appaltatrice per il combustibile, gli stoppini e quant’altro poteva essere necessario per la gestione del faro. Nel 1911 tutto il Servizio fari passa definitivamente sotto il controllo della Marina Militare.
Approfittando dei nuovi ritrovati della tecnica e della scienza, il nuovo Fanale è oggi assai migliore del vecchio, che già prima sembrava un prodigio della tecnica. La sua altezza totale, compresa la torretta dei macchinari e la lanterna, è ora di metri 53,10 mentre il massimo diametro è 12 metri. Nell’interno, un moderno impianto di ascensore raggiunge gli ultimi piani dove sono i locali di guardia dei faristi detti “stanze di veglia”. Una scala a chiocciola porta alla terrazza merlata e alla lanterna dove sono posizionati gli apparati di comando e controllo, il sistema ad orologeria che ne consente la rotazione anche in assenza di corrente elettrica e la lente di Fresnel a 4 spicchi con elementi diottrici e catadiottrici che amplificano la luce di una lampadina da 1000 W ad alogenuri metallici.
Il “Fanale” di Livorno è un faro ad ottica rotante alimentato dalla rete elettrica nella sua sorgente principale che emette 4 lampi ogni 20 secondi con una portata di circa 24 miglia marine, ma può funzionare anche a portata ridotta (18 miglia) con un fanale di riserva detto PRB che funziona con batterie da 12 volt. Il faro è automatizzato dal 2006 con un sistema computerizzato di telemonitoraggio realizzato su specifiche della MMI che ne verifica giornalmente tutte le funzioni principali e segnala ogni anomalia tramite SMS a una centrale di controllo che è ubicata presso l’Ufficio Tecnico dei Fari di La Spezia e da questo inviato alla Direzione Fari e Segnalamenti del Comando Logistico della Marina a Napoli (a fini statistici e di valutazione) e al Comando Zona Fari Alto Tirreno (SP) per le azioni di riparazione e mantenimento in efficienza.
Il Faro di Livorno, struttura simbolo della città, possiede grandi potenzialità per eventi e visite guidate. Come i Fari di Genova e di Trieste, anche il Faro di Livorno potrebbe avere una nuova vita con un accordo di couso – attualmente al vaglio dei vertici del Ministero della Difesa – tra la Marina Militare Italiana, l’Autorità di Sistema Portuale (AdSP) e le Associazioni no profit come l’Associazione “Mondo dei Fari-ETS” che con l’attività dei soci volontari, potrebbe inaugurare una stagione di rivitalizzazione della storica struttura attraverso la programmazione di visite e manifestazioni.
L’Associazione il Mondo dei Fari, costituita nel 2015 a La Spezia, nasce con l’obiettivo di promuovere la conoscenza e la valorizzazione dei fari di tutto il mondo attraverso attività civiche, solidaristiche e di utilità sociale e mediante lo svolgimento di una o più delle seguenti attività di interesse generale. L’Associazione intende intraprendere, per accrescere nei propri associati la conoscenza, la cultura e la storia dei segnalamenti marittimi di tutto il mondo, ogni possibile iniziativa rivolta nei seguenti settori:
• attività culturali di interesse e di promozione sociale con finalità educativa legate a tutto ciò che riguarda la sfera del Segnalamento nautico e dei Fari con particolare riguardo allo studio e alla divulgazione delle tecnologie e della storia dei Fari di tutto il mondo;
• interventi di tutela, e valorizzazione del patrimonio culturale legato ai Fari Italiani, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni;
• organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura dei fari e delle testimonianze del personale che nei fari ha vissuto e lavorato;
• organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale e culturale nei principali fari italiani;
• attività di volontariato in accordo con il Servizio Fari della Marina Militare per consentire l’apertura al pubblico dei principali fari italiani;
• insegnamento, nelle sedi appropriate, di tutto ciò che riguarda i segnalamenti nautici e più in generale la Sicurezza della Navigazione.
Bibliografia
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Note
- Le Secche della Meloria sono costituite da alcuni scogli che affiorano nel mar Ligure a 6,1 chilometri a nord-ovest di Livorno. La superficie interessata è di circa 40 km² e si estende all’interno di un’area a forma triangolare nel tratto marino compreso tra la costa livornese e l’isola di Gorgona.
- Giovanni Pisano (Pisa, 1248 circa – Siena, 1315 circa) è stato uno scultore e architetto italiano. Riuscì a sviluppare gli spunti del padre Nicola, confermando il ruolo preminente della scultura tra le arti figurative del XIII secolo, almeno fino al sorgere di Giotto. Diede alle sue statue forme slanciate ed elegantemente inarcate, ai rilievi un forte senso di movimento e di chiaroscuro, manifestando una forte espressività, senza tuttavia dimenticare mai una solida volumetria tipicamente italiana. Fu protagonista di alcuni dei più importanti cantieri della sua epoca, soprattutto a Pisa, Siena e Pistoia, diventando uno degli artisti più influenti del XIV secolo
- Francesco Petrarca, Itinerarium Syriacum, in “Opera omnia latina et italica”, Basilea 1581. Nella primavera del 1358 Petrarca riceve l’invito di Giovanni Mandelli, uomo d’arme ma di buona cultura, di recarsi con lui in Terrasanta in pellegrinaggio. Il poeta non se la sentì di affrontare il viaggio, che all’epoca era periglioso e lungo almeno tre mesi. Per accompagnarlo nell’avventura il poeta scrisse allora una lettera, il cosiddetto “Itinerario siriaco”. Nella prima parte, da Genova a Napoli, Petrarca descrive luoghi effettivamente da lui visitati, la seconda da Napoli a Gerusalemme e Alessandria d’Egitto, costruita sui testi degli storici e dei geografi antichi.
- Consulta del Senato Fiorentino del 22 ottobre 1440, in Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, vol. II, Firenze 1768, pp.339-340.
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