In ricordo di Alberto De Bernardi, abilissimo tessitore di storie
Giovanni Greco, In ricordo di Alberto De Bernardi, abilissimo tessitore di storie, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 15, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12032
Alberto è stato un testimone delle nostre vite, perché abbiamo avuto per tanti e tanti anni, in San Giovanni in Monte (oggi Dipartimento di Storia Culture Civiltà), gli studi uno di fronte all’altro, e dal mio sentivo sistematicamente le sue parole col suo vocione forte e appassionato, nonché la sua bella risata, affettuosa e coinvolgente, quasi un segno di libertà, capace di scacciare la bruma più grigia dall’animo degli astanti.
Aveva una voce profonda e pastosa, che scaldava l’anima nelle fredde giornate d’inverno e, non di rado, ristorava la sete di cultura degli allievi. Come insegnante, è stato un atleta delle emozioni, avendo sempre l’abilità rarissima di far girare energia; come scrittore, poi, non scriveva per scrivere, bensì per agire, convinto com’era che lo scrittore o è un testimone o è un ingombro.
Ricordo bene che una volta, tornando nel mio studiolo, dopo aver parlato con lui e con gli stimatissimi amici Paolo Prodi, Angelo Varni e Gianpaolo Brizzi, avevo la consapevolezza che pure quella giornata era stata, in qualche misura, baciata dalla provvidenza.
Per lui, cultura autentica significava formazione (Bildung) ed educazione permanente, la capacità di comprendere i sensi migliori della vita e di saper collegare le cose che, alla fin fine, contano: abitava la propria varia e vasta cultura e la portava con sé, giacché pensava che donare cultura fosse quasi come donare acqua: “La cultura serve… per non essere servi”. Inoltre, assiduo frequentatore dell’ironia, in quanto senso della proporzione, faceva parte di diritto, come dire, di quella facoltà a numero chiuso. Uomo di certezze argomentate, sapeva praticare anche il dubbio e, a ogni modo, amava praticare la massima di Roger Judrin: “Ai porci piace discutere della purezza delle perle”.
Una volta mi disse non senza lucida, ponderata passione squisitamente metodologica: “Guarda, Giovanni, quando ti accingi a studiare una fonte storica, devi pensare di trovarti davanti al davanzale di un’ipotetica finestra, che si affaccia su una grande piazza: dalla tale postazione, puoi osservare una miriade di esempi e di persone che si affaccendavano in quel luogo e tu, da spettatore, devi riportare – con tutta l’obiettività possibile, beninteso – ciò che vedi da quella finestra. In un secondo tempo, attraverso il filtro dello studio e dell’intelligenza, potrai scomporre fatti e personaggi, cercando d’immergerti in quella dimensione, ma senza mai farti coinvolgere nel giudizio e analizzando, invece, il perché di quell’evento in quel periodo. Solo questo!”. E come dimenticare, poi, l’emozione del forte abbraccio che mi diede – lui presidente della commissione concorsuale – nel comunicarmi che ero diventato professore ordinario.
Per Alberto fare storia, ricordare la storia, raccontare la storia era come predisporre la memoria, come preparare un raccolto, un granaio per l’attuale inverno dello spirito. Gli storici a suo avviso, specie in un Paese come il nostro che più che far la storia l’ha subita, non dovevano in sostanza – parafrasando la Weil di un testo ora celebre su letteratura e responsabilità etico-civile – esser professori di morale, bensì esprimere la condizione umana. Purtroppo, forse aveva ragione Gramsci quando sosteneva che la storia ha davvero tanto da insegnare, “ma ormai non ha scolari”.
Una volta, in un bel convegno a Vignola organizzato dal talentuoso, infaticabile amico Marco Veglia, avvinse il pubblico con il suo modo appassionato, colto e coinvolgente di rappresentare il passato che gli era più caro. Sapeva bene, fra il resto, che la parola è una chiave, che gli ascoltatori si prendono virtuosamente con le parole che si stimano migliori: le sue erano sovente rotonde e fonde, anzitutto per far sentire il profumo pulito e generoso del pane, sempre mettendo una lente sul cuore per mostrarlo alle persone attente e sensibili. Nella serata, che fu anche conviviale, mi disse poi che le avversità a volte complicano la vita, ma che erano proprio le avversità che lo tenevano in vita. D’altronde, si sa, chi non è andato a scuola dal dolore, non è andato a scuola!
Andammo in pensione insieme e, nello stesso giorno, salutammo nell’aula magna del Dipartimento colleghi e studenti. Quel giorno, quando parlò ai colleghi, contrastò con vivace arguzia una malinconia latente, una malinconia addormentata agli angoli della bocca, una nobile malinconia mista a una allegria contenuta, frutto della consapevolezza per quanto realizzato in tanti e tanti anni di egregio insegnamento.
Ha vissuto tutto il suo percorso esistenziale con grande intensità, sempre con la voglia di andare dove tuonava il cannone, consapevole che nessuno può insegnare nulla se non ciò che già sonnecchia nell’albeggiare della conoscenza degli interlocutori. Un maestro de race, d’altro canto, non dovrebbe tanto elargire la sua reale o presunta sapienza, bensì donare la sua fede e il suo amore, nonché guidare, a mano a mano, le menti degli ascoltatori a un’autentica maturità critica. E questo è ciò che Alberto ha fatto nobilmente durante tutto il suo lungo, apprezzato, prestigioso magistero accademico.
Buon viaggio, caro amico della scuola bolognese, che per noi è stata, con ogni probabilità, il patrimonio più prezioso e fecondo, una sorta di stella cometa della nostra lunga “vita pensata”.
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