Bibliomanie

L’isola (2008), Mediterraneo (2017), Notiziario (2023), Voi (2024) di Armin Greder. Tetralogia di un mare senza luci
di , numero 58, dicembre 2024, Saggi e Studi, DOI

<em>L’isola</em> (2008), <em>Mediterraneo</em> (2017), <em>Notiziario</em> (2023), <em>Voi</em> (2024) di Armin Greder. Tetralogia di un mare senza luci
Come citare questo articolo:
Roberta Amato, L’isola (2008), Mediterraneo (2017), Notiziario (2023), Voi (2024) di Armin Greder. Tetralogia di un mare senza luci, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 10, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12035

Nei disegni dei bambini che non attraversano il Mediterraneo, inconsapevoli, il mare è azzurro e trasparente. Gentili toni celesti velano le creature colorate che occhieggiano come da una vetrina luminosa. Il mare rassicura nella sua serena riconoscibilità, ricordo di una vacanza o corredo di un diario illustrato delle biografie personali dell’infanzia1.Azzurro come il mare è una frase in cui ci si può imbattere, in qualche libro per le vacanze un po’ all’antica, in quelli che i bambini sfogliano pigramente, per poi riempirli controvoglia incalzati dai genitori alla fine dell’estate.
Il mare di Armin Greder conferma e dissolve le aspettative del lettore. È un mare rimosso, il contraltare del mitico mare dell’infanzia, da cartolina o da invenzione postuma della felicità, magari mai stata tale.

Figura 1 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Voi’, Orecchio Acerbo, 2024, pp. 41-42.


Invade le pagine dell’albo illustrato, denso e scuro. Un mare senza la luce amica di un faro, più contaminato dell’inchiostro, più pesante della china. Fatto di carbonio, come le matite dal tratto greve che ne delineano i confini incerti, o la benzina. Si impone con un’altra muta, perturbante evidenza rispetto al disegno infantile. Eppure, come il disegno infantile, disvela e mostra i suoi viventi. Talvolta ancora per poco. Sono pesci feroci che si accaniscono su corpi inermi, corpi attaccati ai corpi dei compagni di traversata. Armin Greder non opera “a tema”, non ha un messaggio studiato a tavolino, un destinatario prescelto. In un’intervista, dichiara che un lavoro ben remunerato di copywriter “gli rubava l’anima”2. L’essere costretto a convincere le persone “ad acquistare cose di cui non avevano bisogno”. Ex pubblicitario, conosce benissimo le modalità di persuasione, la necessità di parcellizzare il target. E sceglie di non utilizzarle. Sono le storie che lo cercano, che si impongono nella loro urgenza, che implicano -per il lettore di qualsiasi età- un discernimento non immune da rischi.

Figura 2 William Hogarth, First Stage of Cruelty, 1751.


Greder ha dichiarato, rispondendomi in uno scambio di mail d’invito a parlare di un tema prescelto in relazione alla sua opera, “di non sentirsi particolarmente a suo agio con le parole” e che “sia stato un disastro ogni volta in cui abbia provato a trasportare in parole ciò che ha rappresentato in immagini”. Il rapporto tra testo e immagini nell’opera di Greder è infatti teso: ne L’isola, è demandato a poche, scarne parole in forma di apologo. Una sorta di Modern moral subject discendente dalle tavole di William Hogarth, ma spogliato di ogni protestant sentimentalism, che André Malraux3 scorgeva nel pittore londinese. Greder in effetti nasce in un contesto protestante. Dai suoi racconti, si evince che sia nato in una cittadina di lingua tedesca al confine con la Svizzera francese; L’isola, anzi, è la trasposizione in un credibile altrove della mentalità ottusa, da difesa strenua della piccola patria, che deve avere oppresso l’artista negli anni giovanili. Tanto da lasciare molto giovane il Paese.
Le parole fanno quasi capolino, in piccolo carattere, discrete, senza disturbare la potenza delle scene in cui sono raffigurate nel loro florido e contagioso terrore collettivo le dispercezioni di un’intera comunità, in cui gli stadi della crudeltà sono molti di più di quattro. E grotteschi. A danno di un piccolo uomo senza nome, nudo, perpetrati da giganti allucinati e vili. Le parole de L’isola sono quasi una flebile, ironicamente impassibile, voce della ragione. Che resta inascoltata.

Figura 3 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘L’isola’, Orecchio Acerbo, 2008, pp. 7-8.


Mediterraneo non ha parole che all’inizio ed alla fine. È muto ed eloquente.

Figura 4 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘L’isola’, 2008, Orecchio Acerbo, pp. 9-10.


Silenzioso e nero come può essere una notte di naufragio. Caterina Bonvicini lo ricorda all’inizio del suo straordinario libro sull’attività di search and rescue nel mare tra la Libia e le coste italiane4.
L’oscurità del mare, insondabile perché nascosto alla vista, viene squarciata tanto dalle fotochimiche dei rhib di soccorso quanto dal tratto urgente di Greder, che con onestà infantile e implacabile mostra la notte del mare, complementare alle azzurre, distese rappresentazioni estive dei bimbi.
Rivela la sorte del naufrago. Mangiato dai pesci, denudato dai flutti. È un mare che contamina e impregna, come l’odore del distress descritto da Caterina Bonvicini in Mediterraneo, descrizione ribadita durante la tavola rotonda del 25 ottobre 2023, in Archiginnasio5. Qualcosa che satura l’aria e che la pelle assorbe, anche se non riceve le micidiali ustioni di acqua di mare e benzina. A cui lo sguardo non può sfuggire. Mediterraneo è forse il libro di Greder che intercetta soglie emotive più profonde.

Figura 5 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Mediterraneo’, 2017, Orecchio Acerbo, pp. 8-9.
Figura 6 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Mediterraneo’, 2017, Orecchio Acerbo, pp. 4-5.


Le parole al principio e alla fine sono appigli remoti, che non evitano un tuffo al cuore repentino. Si segue impotenti e partecipi alla discesa negli abissi di un migrante senza nome e impronunciabili restano le paure, le colpe, la pietà attonita di chi segue con ogni fibra, sinesteticamente, il dissolversi dell’umanità in un mare diventato estraneo.
Le parole di Alessandro Leogrande giungono salvifiche alla fine dell’opera, segnali di vita. La visione di un approdo razionale, il ripresentarsi dei fatti dopo la discesa ineludibile nell’abisso in cui spesso esitano le traversate. È condotta senza sconti, con l’urgenza del giusto.
Dati, storia di ordinaria crudeltà oramai senza scale graduate. Notizie che fanno cronaca e si perdono negli anni, nel repository di qualche sito di informazione.
Ma nel mezzo, anteriormente al “prima” della partenza e al “dopo” dell’approdo fortunoso, nulla è alluso. Casse d’armi che nutrono di sangue territori destabilizzati dal divide et impera postcoloniale e dalla sporca guerra by proxy dell’Occidente [e ora delle milizie russe] in Africa; casse di pesce che si è nutrito delle carni dei naufraghi e le cui carni sono soppesate con aria da intenditrice da una cliente golosa. L’astante al banco del pesce ha la faccia di chi è sicura nella sua comfort zone, garantita dall’essere nati sulla sponda giusta del Mediterraneo.
Nelle pagine successive, viene dato impassibile conto dei traffici indicibili che si svolgono con la complicità e il benestare dei governi europei, che armano le guardie costiere di quegli stessi paesi di partenza delle traversate e che ne destabilizzano gli equilibri politici, con interventi militari più o meno mirati, più o meno informali.
È il 2017 quando Mediterraneo viene pubblicato: la porta stretta delle rotte del Mare Nostrum garantita dalle attività delle Ong che operano il soccorso in mare si era appena richiusa, a causa di una intensa campagna stampa di criminalizzazione culminata con la pubblicazione da parte di Frontex del suo rapporto annuale, alla fine del febbraio di quello stesso anno6.
Nel 2017, ricorda Alessandro Leogrande, ricorrono i venti anni dal naufragio di Capo Passero, la prima volta che fu documentata con ampio dispiegamento mediatico l’infrazione di uno dei più duraturi mitologemi del Mediterraneo. Quello dell’ospitalità. Greder non decreta l’inutilità del mito, anzi: i miti sono una guida, ma quello che conta è la performance, gli attori che la interpretano.
E non c’è spazio per l’ospitalità né per la solennità della tragedia. Il racconto senza parole di Greder muove da fatti feriali, crudi ma comuni. Oggi come vent’anni fa il pescatore ributta a mare il corpo impigliato nelle reti “per non avere grane con la Capitaneria di Porto o con la Guardia Costiera”.
Non si possono considerare “attori di una tragedia” i migranti attuali, se non a prezzo di una gravissima mistificazione. La mitizzazione del migrante avviene sempre ex post facto, è uno strumento retorico utile a dispiegare una certa pietas di prammatica e ad allontanare dalle coscienze le responsabilità dei naufragi, del ritardo dei soccorsi, di procedure di “accoglienza” tanto tortuose quanto inefficaci. Poi arrivano parole che spogliano tutta la vicenda umana dei migranti di ogni narrativa edulcorata. Carichi residuali. Più recentemente, il silenzio dei principali canali di informazione radiotelevisiva7.
La decisione di prendere il mare è stabilita in assenza di alternative, non per hybris o per seguire il fato ma per necessità divoranti.
Il migrante è sospeso tra due abissi: quello concreto, sconosciuto, del mare e quello aperto dalle guerre che spera di essersi lasciato alle spalle. La condanna alla clandestinità, all’anomia, è un rischio tollerabile in confronto alla morte certa e alla miseria di devastazioni provocate direttamente con le armi o indirettamente, con lo sfruttamento delle risorse naturali e dal cambiamento climatico8.
Giorgia Grilli9 nota la precisa volontà di Armin Greder di portare il lettore all’immedesimazione con lo straniero de L’isola o col migrante di Mediterraneo. A mio avviso, Greder restituisce senza ipocrisie sia lo sguardo -emico del privilegiato su queste masse in cammino, sia uno sguardo -etico – e qui l’accezione dell’aggettivo è duplice- dell’artista. Non vi è alcuna concessione alla piacevolezza: le masse dei poveri in movimento verso quella che è solo una speranza di un futuro migliore dell’orrendo presente hanno visi stravolti dalla stanchezza e dalla fatica, in cui il tempo delle difficoltà scorre veloce e invecchia precocemente, segnandoli per sempre.
Greder adotta polemicamente la prospettiva disumanizzante dell’indistinzione, in cui si perdono le caratteristiche di unicità del viso e dell’identità personale. I suoi migranti sono confusi in una burocrazia che è asettica per decreto, per meglio attuare la rimozione del fatto che si tratti di persone e non di “carichi residuali”. Ma lo sguardo è anche quello testimoniale e anticipatore dell’artista, che nell’urgenza narrativa rinuncia alla monumentalità -anche se diruta- rintracciabile nelle opere di Käthe Kollwitz, riferimento dichiarato di Greder. Il tratto dell’artista tedesca è energico, netto. Matite di diversa durezza, carboncini usati assertivamente su supporti durevoli come carta preparata col gesso. Alcune tavole di Greder, invece, sono disegnate su comune carta da pacchi. L’artista svizzero non si cura di nascondere i ripensamenti, le cancellature. Persino durante la mostra offerta alle scuole pugliesi nel 2023, erano ben visibili. L’urgenza documentaria ma mai impressionistica di Greder ha la potenza informativa ed indagatrice dei grandi reportages giornalistici.
Si avvale del tratto morbido, quasi decomposto, dei carboncini teneri, delle matite grasse, dei pastelli.
Kollwitz denuncia la bestialità della guerra e nelle opere successive alla morte del figlio nello “insensato macello” del ’14-’18, declama, facendosi latrice dell’elegia collettiva di milioni di madri.
Greder indaga, registra, documenta. Sia Kollwitz che Greder sono stati bambini curiosi. La prima con lo sguardo perso fuori dalla finestra dello studio di suo padre, affacciato sul Baltico. L’artista svizzero costretto a fare piano, ad apprendere lo sguardo dolce e intento dei bambini solitari nell’appartamento in affitto dove, al piano di sotto, abitava la scorbutica padrona di casa, sempre in vena di sfratto.
L’opera di Greder intercetta sia i luoghi che il sentire di un altro artista svizzero-tedesco, Paul Klee.
Spesso le tavole di Greder, le meno disperantemente cupe, hanno la leggerezza di uno haiku folgorante con il quale Klee afferrava sublimi attimi del suo quotidiano. “Lo stracchino è il tulipano tra i formaggi”, ebbe ad annotare sui suoi Diari10, durante un viaggio in Lombardia. Tuttavia, Greder non cede alle lusinghe dell’artista novecentesco, irretito vitalisticamente nelle azzurrità mediterranee, riportandone i colori in tavolozza, una volta tornato in patria11.
L’invocazione muta ed implicita di Osvald, pronunciata sul finale degli Spettri di Ibsen, Mamma dammi il sole, resta congelata nello sguardo di un bambino migrante stivato in un camion o in un container. Sguardo reso indelebile da una scala di grigi che pare attingere dal fondo dei pensieri più cupi del lettore.

Figura 7 Käthe Kollwitz Saatfrüchten sollen nicht vermahlen werden (I frutti della semina non devono essere macinati) – 1941)
Figura 8 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Mediterraneo’, 2017, Orecchio Acerbo, pp. 26-27.
Figura 9 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Mediterraneo’, 2017, Orecchio Acerbo, pp. 28-29.


Semmai, Greder si impegna in un faticoso recupero. Il suo è il gesto di Antigone, strappato alla tragedia e calato nella quotidianità. Greder si fa realmente fratello di ogni sconosciuto restituito dal mare, dipingendone, fuori dalle tavole degli albi illustrati, la tomba nel piccolo cimitero di Lampedusa. Adempiendo alla promessa fatta ad Assuntina, un’anziana dell’isola. Se mai possa esistere una drammatizzazione di tavole tanto potenti quanto ineffabili, non può che essere affidata a bambini stranieri neoarrivati in Italia o di seconda generazione12.
Non è solo un’occasione di didattica della storia13, di potere attuare un confronto stridente ma necessario, in cui i “corpi sbattuti dal mare, trascinati tra relitti e vele, alla deriva”14, sottratti all’oblio della storia da cronisti, tragediografi pittori ed un presente in cui domina l’imprudenza di denominare Themis15, come la dea dell’Ordine, l’abdicare alla destabilizzazione del Sahel e alla repressione violenta da parte dei governi incapaci di garantire il rispetto dei diritti umani di milioni di persone in fuga dall’inferno degli hotspot libici, dalle frontiere minate e labili del deserto, dalle conseguenze dei cambiamenti climatici.
Dalla cattiveria dell’Occidente, come dice senza mezzi termini Greder, nella dedica del suo ultimo albo, Voi. I libri successivi a Mediterraneo sono un affondo sulle contraddizioni, sulle ipocrisie e sui processi di oblio collettivo della parte ricca del mondo.
In Notiziario, ricompare la tavola del corpo straziato dalle onde oltre alla notizia, appena accennata in pagina, di un naufragio in Egeo. Greder infrange ogni rassicurante certezza e fa a brandelli ogni sospensione dell’incredulità nei confronti di fatti percepiti come distanti e quindi di nessun rilievo.

Figura 10 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Notiziario’, 2023, Orecchio Acerbo, pp. 32-33.
Figura 11 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Notiziario’, Orecchio Acerbo, 2023, p. 34


Ma basta aprire un qualsiasi albo illustrato per essere lì presenti con Greder a percorrere il tratto che delinea senza sconti le sue figure. Nello spazio saturato della tavola, si è quasi sopravanzati dal grottesco dei suoi anonimi personaggi. Non hanno né i livori tetri di Grosz né l’orrore allucinato delle pitture nere di Goya, alle quali pure l’artista svizzero guarda con ammirazione. Ma appaiono come le loro dirette discendenti, per filogenesi mostruosa, cariche di una furia quieta, talvolta persino sorridente.

Figura 12 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘L’isola’, 2008, Orecchio Acerbo, pp. 11-12.
Figura 13 Edvard Munch, L’urlo – 1893.
Figura 14 Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli – 1820-23.


Anche Notiziario, a mio avviso, potrebbe essere portato in classe, magari per essere letto criticamente in parallelo con i quotidiani, per riprendere la buona pratica introdotta da Don Milani e da Mario Lodi ormai più di cinquanta anni fa ed ora abbandonata in favore della digitalizzazione dei supporti che consentono l’accesso alla conoscenza. In filigrana, si riesce a cogliere quel tanto di triviale, di pointless e di vera e propria fuffa che passano per le mani degli acquirenti dei quotidiani cartacei o dagli spettatori dei telegiornali o di chi fa scroll dei vari siti di informazione in rete.
Si passa oltre dedicando appena un pensiero distratto e si distoglie l’attenzione.
Il contatto con la carta stampata, col cartoncino dell’albo, come la visione dell’umile supporto utilizzato da Greder ed esposto in mostra, costringe a sostare, cogliendo etimologicamente l’essenza dell’esperienza estetica.
L’ultimo libro pubblicato, recentissimamente, nel luglio del 2024, Voi, è forse il più terribile. Un atto di accusa esplicito, in exergo, alla cattiveria dell’Occidente, come anticipato. Il Mediterraneo, che ha visto nascere nell’antichità la schiavitù, esonda in Atlantico. La rappresentazione è quella di una nave negriera del 1840 circa, nave immortalata da J. M. W. Turner in un dipinto conservato al Museum of Fine Arts di Boston. Il tema del retaggio schiavile è ritornato di stringente attualità dopo il movimento Black Lives Matter del 2021 e dopo che, per strani movimenti di serendipità, anche Teju Cole, nel suo recente Tremore, la ha citata, descrivendone esattamente come fa Greder la disposizione dei dannati al suo interno, in un inserto di una “lezione” ascoltata veramente dallo scrittore nigeriano e foriera di molti interrogativi16.
Le parole, quasi assenti o rarefatte nelle precedenti opere di Greder, qui sgorgano con accenti terribili, solenni. Vi è un afflato da lamentazione biblica nelle parole a corredo dell’immagine del religioso in Africa17. Le proverbiali “buone intenzioni” civilizzatrici sono altrettanti pezzi di un lastricato infernale, posato dalla “cattiveria” che Greder non ha paura di denunciare. Alle vittime di questa cattiveria, Greder dedica la sua ultima opera.
In Voi, le parole sono di Greder e non di Libby Gleeson, una scrittrice australiana con cui ha collaborato nei libri Uncle David e The Great Bear. Sono le stesse pronunciate dall’artista svizzero durante la tavola rotonda del 25 ottobre 2023. E non vengono risparmiate nemmeno le ONG, che operano con il benestare dei governi e delle organizzazioni internazionali sovranazionali, al netto delle spese18.
Ma tutto ciò che ottengono è un’occasionale elemosina.

Figura 15 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato “Voi”, 2024, Orecchio Acerbo, pp. 22-23.
Figura 16 Illustrazione di Armin Greder all’albo illustrato ‘Voi’, 2024, Orecchio Acerbo, p. 22 (particolare).


Una denuncia del virtue signalling di molti governi e istituzioni che non lascia scampo. Un invito al pensiero critico e al non farsi complici di un’autoassolutoria rivittimizzazione secondaria del migrante, che passa attraverso le narrative pietistiche del “povero migrante bisognoso”, che suscita umana simpatia. No, avverte Caterina Bonvicini. Ne esistono di simpatici, di antipatici, di svegli e di irredimibilmente idioti, al punto da mettere a repentaglio del tutto le operazioni di salvataggio19. Il punto non è quello. È ritrovare la radice profonda della nostra umanità che fa passare sopra al sentimento estemporaneo di simpatia o di antipatia ed agire il principio universale della solidarietà tra persone. Greder possiede la sensibilità per coglierla e praticarla, senza infantilizzazioni rassicuranti del povero, perché, sin da bambino, è dovuto maturare in fretta, osservando il mondo in souplesse, per timore dello sfratto dall’appartamento che condivideva coi genitori se avesse fatto rumore o dei rimproveri degli adulti che incontrava nei caffè dove, talvolta, il padre lo conduceva con sé. È questa provvisorietà al mondo, la consapevolezza di essa, che fa cogliere appieno il senso di questi itinerari forzati: fanno da contraltare alla sicurezza di essere al mondo con un nome, uno scopo e una identità di chi viaggia per forza. Il mondo stesso di queste persone, la sua stessa integrità nella memoria del migrante è costantemente minacciata20.
Chi viaggia a piè fermo come il Greder bambino e poi da adulto, nel suo studio, tra le sue tavole urgenti e piene di cancellature, ha chiavi di lettura più solide rispetto a chi, proprio come gli abitanti de L’isola, si richiude entro le proprie misoneistiche certezze-prigione. Gli abitanti dell’Isola-Fortezza uccidono i gabbiani e i cormorani come in The Rime of The Ancient Mariner21 il marinaio trafigge a morte l’albatros, e si auto-condannano ad un futuro di povertà morale, di solitudine e di ignoranza.
Sull’essere o meno adatta dell’opera di Greder ad un pubblico di bambini: esiste la letteratura, la grande letteratura e basta, quella che non lascia mai indifferenti né uguali a sé stessi dopo averne fatto esperienza. Compito della letteratura cosiddetta “per l’infanzia” è togliere il lettore dalle proprie confortanti certezze, strapparlo alla zona di sicurezza alla quale talvolta indulge22. È infatti perturbante e si giova di un’aura di libertà che travalica i confini anagrafici del destinatario. Lo scopo è la necessaria parresìa per smantellare le versioni espurgate dei fatti. La grande letteratura -quella di Greder la è, nonostante la sua ritrosia nei confronti delle parole- previene il naufragio del significato a cui si assiste, con una certa impotenza, nella comunicazione ordinaria.
E dalle pagine volutamente buie di Greder emerge quella luce-guida per un tempo senza miti che ciascuno di noi, insegnante, educatore o studente, è chiamato ad interpretare.

Bibliografia
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Sitografia per conoscere l’opera di Armin Greder
Armin Greder – La Babele del mondo (link consultato il 31 agosto 2024).
Le opere di Armin Greder: gli albi illustrati sono solo per bambini? (link consultato il 31 agosto 2024).
L’intervista ad Armin Greder nella trasmissione di Radio 3 Rai Fahrenheit, del 15 agosto 2024, dal minuto 1 h e 27 ‘ Fahrenheit | S2024 | Ferragosto | Rai Radio 3 | RaiPlay Sound

Note

  1. In “Cosa sono le fonti. Un’esperienza. Le vacanze di Chiara a Creta”, una bambina della III classe della scuola primaria ricostruisce, collocandoli sulla linea del tempo, i fatti salienti della propria vacanza a Creta. È suggestiva l’immagine dei fatti, intesi come semi pronti a germogliare. A corredo, le immagini del mare azzurro dell’Isola e degli eventi più felici di un periodo sereno trascorso con i propri genitori, in Beatrice Borghi Le fonti della storia tra ricerca e didattica, Bologna, Pàtron Editore, 2009, p. 84-89.
    Completamente differenti le narrazioni e le raffigurazioni dei bambini migranti, raccolte da Marina Castigliani in Cercavo la fine del mare, Mimesis, Milano, 2019. A pagina 9 è raccolta la testimonianza di Dlônan, un piccolo profugo curdo di otto anni, in fuga dall’Iraq: “Sono arrivato in Grecia con un gommone. Non era come l’avevo immaginato. Le gambe e le braccia delle persone mi schiacciavano e quasi non riuscivo a vedere il mare. Il mio papà ha pianto per tutto il viaggio. Io mai. Io non ho mai avuto paura perché sono molto forte”.
  2. È lo stesso Greder a raccontarlo, in un’intervista reperibile a questo link: Armin Greder – La Babele del mondo (link consultato il 31 agosto 2024).
    “Nel 1970 ho scoperto che il governo australiano pagava il viaggio a quegli immigrati che si impegnavano a restare nel Paese per almeno due anni. Era troppo bello per lasciarmelo sfuggire. Sono andato in Australia e, come si è poi dimostrato, non sono mai tornato indietro. Lì, bluffando, sono entrato in un’agenzia di pubblicità e dopo qualche anno di un impiego redditizio (ma che distruggeva l’anima nel tentativo di convincere le persone a comperare quello di cui non avevano bisogno) ho trovato un lavoro come insegnante di disegno e di design in una scuola d’arte.”
  3. Stefan Morawski, Assoluto e forma. A proposito della filosofia dell’arte di Malraux, Edizioni Dedalo, Bari, 1993, p. 353.
  4. “Il mare non è tutto uguale. Lo capisci quando navighi in Sar libica, intorno alle piattaforme petrolifere. È uno dei rari luoghi al mondo che si possono ancora definire accessibili a pochi. Sicuramente è più frequentato l’Everest. È il paesaggio più sinistro che abbia mai visto, e provoca allucinazioni. L’ho scoperto di notte, in barca a vela. Il mare nero, che annulla ogni confine fra l’acqua e un cielo senza luna, è persino rassicurante al confronto. Quell’inferno invece ti brucia la vista. E tu hai le visioni dei dannati. “In Caterina Bonvicini, Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie. Con un saggio e le fotografie di Valerio Nicolosi, Einaudi, Torino, 2022, p. 14.
  5. “Ma c’è una cosa che non si vede e si può capire solo da lì, perché si sente: è un odore. Un odore terribile e inconfondibile. Lo senti da lontano, appena ti avvicini un po’ con il rhib, anche se sei in mare aperto. È l’odore di quella melma che stagna sul fondo del gommone. È fortissimo e spaventoso, è l’odore della disperazione. Io, la prima volta, l’ho scoperto dalle mie scarpe. Toglievo i vestiti bagnati ai bambini e l’acqua mi colava sui piedi, avevo le scarpe imbevute di distress. Il dissalatore della Mare Ionio era rotto, potevamo farci una doccia solo con una bottiglia di acqua minerale, e non avevo la mia valigia, rimasta sulla barca a vela d’appoggio. Lavare le scarpe con l’acqua di mare? Mi dicevano che era peggio. Non potevo certo girare scalza sul ponte di un rimorchiatore, pieno di ganci e trappole. Quindi con quell’odore di distress ho semplicemente convissuto. Mi ci sono abituata e l’ho fatto mio. Era un modo per conoscerlo, in fondo. Un giorno sono entrata in cucina per bere un bicchiere d’acqua. I marinai di Licata di prima mattina preparavano dei sughi meravigliosi, al ragù o con il pesce, circolava per il corridoio della nave un profumo buono di casa, affettuoso. Uno dei due ha spalancato gli occhi: «Cos’è questo odore?» Io ho piegato la testa e mi sono guardata i piedi: «Le mie scarpe, credo». È uscito dalla cucina di corsa. Avevo appena fatto vomitare un marinaio.”, Ibid. p. 6.
  6. “Da giugno 2016, un numero significativo di barche sono state intercettate o salvate da navi delle Ong senza alcuna segnalazione e senza informazioni sul luogo del salvataggio. La presenza delle Ong e delle loro attività vicine e, occasionalmente, all’interno delle acque territoriali libiche, sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente, per un totale di quindici assetti non governativi (quattordici marittimi e un aereo). Parallelamente il numero complessivo di incidenti è aumentato drammaticamente.” Così Valerio Nicolosi, in Mediterraneo. A Bordo delle navi umanitarie, a p. 206. I dati sono tratti dal rapporto annuale Frontex del 2016 di cui Nicolosi fornisce il link: https://frontex.europa.eu/asset/Publications/Risk_Analysis/Annual_Risk_Analysis_2017.pdf, ora disponibile in inglese al seguente indirizzo: Annual_Risk_Analysis_2017.pdf [link consultato il 25 agosto 2024]
  7. Nel luglio 2024, sono sbarcate sulle coste italiane 7645 persone. Nelle sole giornate del 23 e 24 agosto 2024, sono state soccorse oltre 450 persone in mare. I due principali telegiornali, Tg 1 e Tg 2, hanno dedicato meno di sette minuti complessivi alla notizia. [Dati aggiornati al 25 agosto]
  8. “Basta ascoltare la storia di Amir per capire di altri drammatici e tristissimi esodi: «Il 30 agosto 2014, un piccolo fiume, talmente piccolo da non avere nemmeno un nome, esondò a causa delle abbondanti piogge. La mia casa fatta di legno e paglia crollò, nonostante avessimo tentato di rafforzarla. Niente da fare. Perdemmo tutto e i vicini mi aiutarono a costruire una capanna fatta di plastica e altri materiali di fortuna. I miei parenti vivono ancora lì, come baraccati. La mia vita era di un alluvionato senza futuro. Non sapevo cosa fare fino a quando un trafficante del mio villaggio mi propose di andare in Libia. Il viaggio costava tanto. Me lo sono pagato vendendo i gioielli di mia moglie e con i soldi presi in prestito da conoscenti. Era un acconto, la metà del pattuito, il resto glieli avrei dovuti inviare dalla Libia. Non avevo altra scelta e feci l’accordo. Arrivai a Bengasi e trovai lavoro come pulitore di tappeti, ma non mi pagavano mai e anzi mi maltrattavano. Da lì andai a Tripoli, dove per un po’ feci l’aiuto benzinaio. Successivamente, riuscii a imbarcarmi per l’Italia. Sapevo che potevo anche morire nella traversata, ma non avevo alternative. Tornare al mio villaggio non lo posso fare nemmeno oggi perché non saprei come mantenere la mia famiglia. Da qui almeno posso mandare soldi», Il Bangladesh è uno dei Paesi più vulnerabili e sotto pressione climatica. L’erosione e la diminuzione di terre coltivabili determinano epocali spostamenti interni di popolazione, e aggravano le dispute relative alla proprietà anche di piccoli fazzoletti di terra. L’Istituto per gli Studi di Sviluppo del Paese rileva che il 77% dei poveri vive in baraccopoli, e il 44% occupa e lavora terreni pubblici.”, in Francesca Santolini, Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019, p. 67.
  9. Giorgia Grilli, Books for children that cause no harm to adults / books for adults that cause no harm to children. Orecchio Acerbo: a pioneering publishing experience in Italy, in Rivista di Storia dell’Educazione, 2/2018, pp. 305-324, in particolare pp. 309-310, in cui nota: “the intense book L’isola, by the Australian Armin Greder, an implacably sincere, very politically incorrect insight into how naturally unwilling we all are, despite all rhetorical proclamations, to accept and welcome the ‘foreigner’ into our midst”.
  10. Paul Klee, Diari, nota 494 – da giugno 1902 a settembre 1906, Milano, Il Saggiatore, 1960.
  11. Si veda il saggio di Maria Donzelli, in Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la parola, a cura di Francesca Corrao e di Maria Donzelli, Donzelli, Roma, 2009, p. 115-116: “La poesia ha a che fare con l’arte e si sa, le arti comunicano tra loro. La poesia di Bennis ha il colore azzurro, un colore che l’accomuna al mare. Il rinvio a Kandinskij e al movimento de Il cavaliere Azzurro, da questi creato insieme a Franz Marc, è esplicito. Kandinskij, nella sua opera Lo spirituale nell’arte (1910), aveva così descritto le gradazioni dell’azzurro fino al potere del blu: «La vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa ed intima. Più il blu è profondo più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale»”.
  12. Sul contesto scolastico degli alunni NAI o di seconda generazione si veda il capitolo a cura di Sabina Rapari, intitolato I bambini raccontano: il contesto scolastico e la migrazione, in Nella scuola multiculturale. Una ricerca sociologica in ambito educativo, volume a cura di Alessandra Vincenti e Guido Maggioni, Donzelli, Roma, 2006.
    “Gli allievi appartenenti a minoranze possono essere discriminati per il loro livello di competenza nella lingua del paese di accoglienza, mentre sono perfettamente competenti nella loro lingua” […], p. 232
    I bambini -stranieri e non- della scuola Diana Sabbi di Pianoro sono stati tutti paritariamente coinvolti dalle insegnanti Maria Rosaria Catino e Ivana Baldi nella realizzazione di un video con le tavole tratte da Mediterraneo di Armin Greder e nella resa “interpretativa” delle tavole, che va al di là dell’apposizione, nel video, dei sottotitoli, resi necessari dalla pronuncia spesso ancora incerta della lingua italiana. È stata un’esperienza di educazione tra pari e di intercultura veramente significativa, oltre che molto efficace nell’intrecciare i vissuti personali sommersi degli alunni tramite la proposizione e, talvolta, l’invenzione di particolari impliciti nelle tavole di Greder. Perché, come dice ancora Sabina Rapari a pag. 236 “Anche quando si fa riferimento allo stesso gruppo di età, l’esperienza educativa di ogni bambino è unica: il suo risultato cognitivo è concretamente basato sulle opportunità che le sue relazioni sociali e l’ambiente facilitano. Le famiglie e gli spazi istituzionali, scuole, classi, permettono ai bambini opportunità differenti”.
    Sulla esperienza condotta dalle docenti Baldi e Catino si veda B. Borghi, I. Baldi, M.R. Catino, Illuminare il Mediterraneo, tra ricerca e didattica della storia, «DIALOGHI MEDITERRANEI», 2024, 65, pp. 1 – 9, a questo link: Illuminare il Mediterraneo, tra ricerca e didattica della storia | Dialoghi Mediterranei (link consultato il 31 agosto 2024).
  13. Il Mediterraneo ha offerto spesso importanti occasioni di didattica della storia. Si veda l’articolo Il Mediterraneo nella didattica della storia. Alcune considerazioni sulle origini e riflessioni sul presente del docente Fabrizio Castaldini Istituto Comprensivo “don Minzoni” di Argenta, pubblicato nella rivista Didattica della storia – 1 / 2019. Così Castaldini a p. 112 “La scrittura creativa diventa il mezzo grazie al quale i bambini hanno la possibilità di interpretare e fissare quell’universo di tracce e segni del passato, ma anche del presente, che quotidianamente ci attraversano. Diventa lo strumento principe per conoscere il mondo e decifrarlo, ma anche conoscere se stessi e la propria posizione e il proprio ruolo nella storia e nel presente, andando oltre alla mera esecuzione di un compito scolastico.”
  14. Vi sono state rappresentazioni teatrali che hanno consentito una lettura in parallelo dei drammi di Eschilo col naufragio di Portopalo. Si veda, ad esempio, Supplici a Portopalo. Dalla tragedia di Eschilo al dramma dei migranti, uno spettacolo teatrale con la regia di Gabriele Vacis, interpretato da Vincenzo Perrotta e andato in scena per la prima volta il 19 settembre 2009, nel Parco Archeologico di Portopalo e replicato all’indomani nel Teatro Greco di Siracusa. L’ideazione e la drammaturgia sono di Monica Centanni, grecista dello IUAV di Venezia e già curatrice delle tragedie di Eschilo per i Meridiani Mondadori. Nel 2017, anno dell’uscita di Mediterraneo di Armin Greder, lo spettacolo andava in scena il 21 luglio, al Plautus Festival di Sarsina e due giorni dopo a Nora, in Sardegna. Per maggiori approfondimenti, si vedano Engramma n° 74 (settembre 2009) ed Engramma n° 78 (marzo 2010).
  15. A questo proposito, si veda il saggio di Elda Turco Bulgherini, Soccorso, controllo delle frontiere e contrasto alla criminalità nel traffico via mare dei clandestini, in Immigrazione, integrazione, marginalizzazione, a cura di Agata Cecilia Amato Mangiameli, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 123-171, e in particolare p. 155, in cui viene ripercorsa minuziosamente la macchinosa procedura di sostituzione dell’Operazione Triton con l’operazione Themis, dal febbraio 2018. Un’operazione con un mandato decisamente più ampio rispetto alla precedente, nel quale le ONG di soccorso in mare sono state obbligate a sottoscrivere un codice di condotta, proposto dalle autorità italiane nel corso di una riunione dei Ministeri di Giustizia e degli Interni degli Stati membri dell’Unione Europea, tenutasi a Tallinn il 6 luglio del 2017. Quasi tutte le più importanti ONG che operano Search and Rescue nel mediterraneo hanno sottoscritto l’accordo, come ricorda Duccio Facchini, in Alla deriva. I migranti, le rotte del Mar Mediterraneo, le Ong: il naufragio della politica, che nega i diritti per fabbricare consenso, edito da Altreconomia, Milano, 2018, a p. 109: “Il codice di condotta governativo viene sottoscritto, nell’estate 2017, da quasi tutte le Ong.”. In particolare, l’autore ricorda Sea Watch e SOS Méditerranée. Fu l’unico modo per continuare ad operare senza fastidi, in un clima reso avvelenato da una campagna di demonizzazione delle ONG di soccorso, culminata con un titolo del quotidiano Libero: “Che bello, le ONG lasciano il Mediterraneo”. In questo clima, solo Médecins Sans Frontières e l’organizzazione tedesca Jugend rettet non firmarono il protocollo.
  16. Tutto il capitolo Cinque del romanzo Tremore di Teju Cole, edito da Einaudi, Torino, 2024, è una pressante digressione su una lezione ascoltata dal narratore, Tunde, al Museum of Fine Arts di Boston. Ne riporto i passaggi salienti: “Qui voglio interrompermi per una breve ma fondamentale considerazione, perché avendola pronunciata mi rendo conto di essere turbato dalla parola «schiavo», che colpisce ancora l’orecchio come una frustata. C’è chi schiavizza e c’è chi viene schiavizzato. Ma non c’è nessuno la cui essenza, o vera natura, sia quella di «schiavo». Una persona può essere schiavizzata, può essere intrappolata in quella situazione di morte in vita nota come «schiavitù», ma non per questo è uno schiavo. La schiavitù è qualcosa di intollerabile che le sta accadendo o che le è accaduto. Per questo motivo credo che un titolo più accurato sarebbe Schiavisti che gettano in mare i morti e i moribondi. “E ancora: “Come dicevo, rimango traumatizzato ogni volta che vedo La nave negriera di Turner. Ma ultimamente ho cominciato a vivere il museo stesso come un luogo di traumi continui. Traumi che nascono dalla sensazione di una sorta di colpo di frusta mortale: la meticolosità della pratica curatoriale da un lato e quelle pozze scure di sangue umano dall’altro. Le opere del Benin contengono un appello e il loro appello non è isolato: è condiviso da altre opere presenti in questo museo, opere «acquisite» da Kuba, Sébé, Mandé, Hemba, Mangbetu e Yoruba, tra gli altri. È un appello a ripensare l’idea che la comprensione occidentale superi quella dei popoli che hanno creato e sacralizzato questi oggetti, che l’apprezzamento estetico o la pratica critica esistano solo qui in Occidente. È un appello a prendere sul serio la restituzione, un appello a reimmaginare il futuro del museo, a considerarlo non come uno spazio di conoscenza superiore o come deposito di mondi sottratti ad altre persone, ma come un luogo di intervento, in cui sia possibile una nuova conversazione sulla giustizia. In altre parole, il museo ha amato a lungo gli oggetti altrui, stringendoli in una morsa fatale. Può rinunciare a quell’amore mortale? In seguito potrebbero sbocciare nuovi amori, potrebbero emergere nuove possibilità. Se seguiamo quella strada, in futuro il contenuto di questo edificio sarà diverso e la nostra concezione collettiva della proprietà di opere d’arte storicamente significative potrebbe cambiare. Mi piace pensare che questo cambiamento non sia qualcosa da temere”.
  17. A questo proposito, si veda il saggio di Sandra E. Greene, intitolato Christian missionaries on record: documenting slavery and the slave trade from the late fifteenth to the early twentieth century, contenuto nel volume a cura di Alice Bellagamba, Sandra E. Greene e Martin A. Klein, African voices on slavery and the slave trade, vol. 2, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, pp. 50-73.
  18. Tremenda è la denuncia della condotta dei funzionari governativi e non in Sierra Leone, condotta da Sally Hayden in E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al Mediterraneo, Milano, Bollati Boringhieri, 2022. A p. 165 si legge: “Gli occidentali benestanti e la maggior parte dei sierraleonesi conducevano vite nettamente separate. Una sera andai ad un party organizzato intorno ad una piscina di un enorme complesso residenziale recintato che svettava sulle luci della città. Nel complesso vivevano i funzionari di un’ambasciata insieme alle loro famiglie; a ogni “expat” era stato assegnato un bungalow di più stanze. Non erano autorizzati ad usare i mezzi pubblici, quindi, chi non aveva la macchina, quasi non usciva di lì, ma non ne avevano davvero bisogno. Ballavano e bevevano, oppure si rinfrescavano in piscina, coi drink che galleggiavano accanto a loro, in portabicchieri gonfiabili a forma di fenicottero e ananas”. E ancora, “Come nella maggior parte dei paesi africani, anche in Sierra Leone i volontari stranieri facevano una bella vita: alloggiavano in case spaziose con tanto di addetti alle pulizie e di guardie; giravano in fuoristrada bianchi e splendenti guidati da autisti privati; si godevano località balneari nel week end e ai posti di blocco venivano fatti passare con un semplice cenno della mano, mentre i sierraleonesi erano ingiustamente costretti a pagare mazzette. La diaria giornaliera di un dei dipendenti dell’Onu, in aggiunta al consueto salario, era di 254 dollari al giorno. Cominciai a chiedermi chi beneficiasse davvero dei servizi di assistenza straniera in quell’industria multimiliardaria. Certamente anche autorizzare le migrazioni verso i paesi più ricchi era una forma di assistenza necessaria: bisognava permettere agli africani di guadagnare denaro all’interno dei sistemi che li avevano sfruttati per così tanto tempo, di mandare i soldi alle famiglie e poi di tornare a casa se volevano”.
  19. “Quando finalmente sono apparsi più o meno come appare un fantasma, sul loro gommone bianco, ci siamo subito resi conto che non erano per niente fatti dello stesso tessuto dei sogni: non stavano zitti un attimo. C’era addirittura un ragazzo con il cellulare sollevato che faceva un video. Un video durante il soccorso? Il team leader era furioso: «Mettete via quel telefono! Questo è un salvataggio!»”, ibidem, p. 90.
  20. “Racconta Ibrahim […] «Una domenica sono andato al mercato per comprare dei vestiti. Mentre tornavo a casa la polizia mi ha fermato e mi ha portato in prigione. Eravamo in più di trenta al freddo e seduti su una panca di cemento. Non c’era acqua e neppure da mangiare. I volontari italiani di Operazione Colomba con mia mamma sono venuti a chiedere notizie su di me, ma la polizia ha risposto loro che non ero lì. Alcuni altri giovani che sono stati arrestati con me sono stati portati a forza in Siria a combattere. In Libano avevo molta paura perché la polizia era violenta con i siriani. Nel 2019, grazie ai corridoi umanitari, sono venuto con la mia famiglia a Torino. Adesso stiamo bene, i miei fratelli vanno a scuola, io sto facendo un tirocinio come aiutante pizzaiolo e sto studiando l’italiano. Penso però spesso al mio fratello maggiore che vive ancora in un campo profughi vicino ad Ildib con sua moglie e i suoi due bimbi. Ogni giorno, nelle tende vicino alla sua, qualche bambino muore o di freddo o di fame», in Vite sospese, a cura di Enrico Milletto e Stefano Tallia, FrancoAngeli, Milano, 2021, p. 205.
  21. With my cross-bow/ I shot the Albatross— versi 81–82. Samuel Taylor Coleridge, Rime of the Ancient Mariner, 1798. Si vede, nella tavola di Greder, un uccello marino trafitto da un dardo. Una delle superstizioni più diffuse del folklore marittimo è la maledizione associata all’uccisione di un albatros. Si ritiene che l’albatro incarni le anime dei marinai perduti e si dice che ucciderlo invochi l’ira degli spiriti.
  22. “La letteratura per l’infanzia finisce, insomma, per mettere in discussione l’adulto – la sua normalità, la sua visione del mondo, la sua posizione nell’universo- nel momento in cui riconosce, come nessun altro discorso letterario (o politico) fa, l’esistenza non solo dei bambini (qualcosa che più o meno tutti notiamo) ma molto più profondamente di un Mondo Bambino, inteso come qualcosa di vasto, potente e parallelo a noi con cui, almeno nelle sue pagine, non è possibile non fare i conti. Conti che – felicemente – non tornano mai fino in fondo, perché la letteratura per l’infanzia, nei suoi esempi migliori, intende il bambino come quanto di più irriducibile all’adulto si possa dare, e dunque come qualcosa di cui, a rigore, non potrebbe parlare.”, in Giorgia Grilli, Di cosa parlano i libri per bambini. La letteratura per l’infanzia come critica radicale, Donzelli, Roma, 2021, p. 7.

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