«Pulling all the weight of history». Una riflessione sull’opera di Jesmyn Ward
Marco Petrelli, «Pulling all the weight of history». Una riflessione sull’opera di Jesmyn Ward, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 17, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12042
Definire il definito
«For the horrors of the American Negro’s life there has been almost no language», scrive James Baldwin in The Fire Next Time (1963), sermone laico e incendiario che lo scrittore indirizza al razzismo statunitense. È la stagione del Civil Rights Movement, di cui Baldwin fu forse il portavoce più celebre in letteratura, e certamente il più incisivo nelle accuse taglienti dirette all’intero edificio del potere bianco. «[I]n fact», prosegue Baldwin «the power of the white world is threatened whenever a black man refuses to accept the white world’s definitions».
Si scorge in questa breve citazione una riflessione che si era fatta strada all’interno del Novecento afroamericano almeno dall’Harlem Renaissance, il rinascimento culturale e letterario di un’America nera decisa a raccontarsi in prima persona e al di fuori degli schemi e degli stereotipi creati per essa dal dominio bianco. «I, too, sing America» affermava il “bardo di Harlem” Langston Hughes nell’epilogo della sua prima raccolta di poesie, The Weary Blues (1926), per concludere «I, too, am America». Due decenni circa dopo il sermone di fuoco di Baldwin, Toni Morrison ebbe a scrivere in quello che è il suo maggior libro, Beloved (1987): «definitions [belong] to the definer—not the defined», denunciando la violenza dell’oppressione – la spoliazione totale dell’oppresso fin nella possibilità di poter plasmare il proprio linguaggio – ma allo stesso tempo invocando la possibilità di sfuggire alla trappola dei significanti modellati dall’egemonia dominante per creare un racconto capace di ridare dignità umana e artistica a una cultura relegata nello spazio esiziale dell’alterità.
Erede di Hughes, di Baldwin e di Morrison, Jesmyn Ward prosegue nel solco di una letteratura autenticamente nera e naturalmente militante nel desiderio di mettere al centro la voce afroamericana senza filtri né deferenza nei confronti del canone, che tradisce la volontà di portare alla luce quelle unspeakable things unspoken cui proprio Morrison dedicò uno dei suoi interventi critici più illuminanti. Se disseppellire una storia soffocata da quella ufficiale e utilizzarla come strumento di emancipazione nel presente è indubbiamente uno degli impulsi fondamentali nell’opera del premio Nobel afroamericano, la narrativa di Jesmyn Ward muove in un certo senso in direzione contraria, radicandosi con forza nel presente del Ventunesimo secolo per poi scendere in un passato che è tanto propriamente storico quanto epico, racchiuso nelle forme soffuse del mito.
Dal Mississippi all’inferno
Il suo primo romanzo, Where the Line Bleeds (2008, tradotto in italiano da Monica Pareschi come La linea del sangue, NNE, 2020), è infatti un’indagine impietosa della condizione afroamericana contemporanea nel profondo sud degli Stati Uniti. Fa qui la sua prima comparsa la città di Bois Sauvage, traduzione geopoetica della cittadina di DeLisle, dove Ward è cresciuta e ha scelto di tornare a vivere dopo gli studi. Questo luogo reale-e-immaginato (per utilizzare una famosa definizione del geografo culturale Edward W. Soja) farà da sfondo anche ai successivi due romanzi della scrittrice. Nell’unione indistinguibile di riferimenti all’attualità e artificio narrativo, Bois Sauvage dimostra una chiara discendenza dalla più famosa delle geografie letterarie statunitensi: la contea di Yoknapatawpha nella quale William Faulkner (altro celeberrimo Mississippian) ha ambientato le sue opere maggiori. Faulkner è senza dubbio una delle influenze principali per Ward. Il rapporto fra i due è però piuttosto indicativo della poetica – nonché della politica – che muove la scrittura dell’autrice. Se infatti Ward ebbe a dire che la lettura di As I Lay Dying ebbe l’effetto di frustrare le sue ambizioni letterarie («He’s done it, perfectly. Why the hell Am I trying» afferma in un’intervista), d’altro canto fu la manchevolezza di Faulkner nel tratteggiare accuratamente i personaggi afroamericani, «the lack of imaginative vision regarding them», che diede a Ward la spinta a proseguire, come a voler integrare e correggere l’eredità dell’illustre predecessore.
Torniamo a Where the Line Bleeds, passando per un’opera successiva: Men We Reaped (2013, da noi Sotto la falce, traduzione italiana di Gaja Cenciarelli, NNE, 2021). In questo memoir dedicato a cinque giovani afroamericani con i quali Ward ha trascorso la giovinezza, tutti prematuramente scomparsi per via delle trappole letali del razzismo sistemico statunitense (tra questi, il fratello minore Joshua, ucciso da un guidatore ubriaco poi fuggito dalla scena del crimine), la scrittrice riporta un dialogo avuto con gli amici ai tempi in cui era ancora un’autrice in erba. «What you want to write?», chiede qualcuno. «Books about home. About the hood», risponde Ward. La sorella Charine s’intromette: «She writing about real shit». Questo desiderio di scrivere «real shit», ovvero di calare la scrittura in una dimensione assolutamente realistica così da farne quasi un documento sociale, è evidente nell’esordio dell’autrice. Where the Line Bleeds narra la storia di due fratelli, Joshua e Christophe, colti nella loro ultima estate di libertà: la scuola è finita e i due dovranno presto unirsi al mondo degli adulti. In apparenza un romanzo di formazione, l’opera svela piuttosto come la parabola ideale del Bildungsroman sia del tutto preclusa ai neri poveri del Sud: le uniche strade possibili sono quella del lavoro operaio, sfiancante e sottopagato, o quella della criminalità. In entrambi i casi, il futuro, possibilità garantita a gran parte dell’America bianca, diventa una proiezione incerta, la sopravvivenza stessa un diritto da strappare a un ambiente interamente votato alla mortificazione della vita afroamericana.
C’è in Ward un inveterato pessimismo, frutto tanto della sua travagliata storia personale quanto di una compiuta riflessione sull’ingiustizia endemica e razzializzata che caratterizza la società statunitense. Lo si vede bene nel suo secondo romanzo, Salvage the Bones (2011, in italiano, Salvare le ossa, traduzione di Monica Pareschi, NNE, 2018), ispirato all’esperienza dell’autrice durante il cataclisma dell’uragano Katrina, disastro naturale fra i più letali della storia d’America. Raccontato altrove come sorta di punizione divina calata dal cielo per distruggere la Sodoma del Sud, ovvero la città di New Orleans, Katrina fu piuttosto un’epifania cruenta capace di svelare le radicate iniquità razziali ed economiche della nazione, abbattendosi con violenza inusitata proprio sugli ultimi e portando alla luce l’anima predatoria del neoliberismo statunitense.
Il romanzo di Ward ne è ben cosciente, e lo dimostra narrando l’impatto dell’uragano attraverso la storia di Esch, quindicenne segretamente incinta, e della sua famiglia, un gruppo di personaggi male in arnese che, a rimarcare la disperazione in cui sono stati precipitati dal sistema, vive in una casa fatiscente in una zona di Bois Sauvage soprannominata “la fossa”. Le vite già pericolosamente in bilico della famiglia, fra abbandono, alcolismo, violenza e povertà, saranno messe ulteriormente alla prova dall’arrivo di Katrina, il cui avvicinamento progressivo scandisce i capitoli come in un conto alla rovescia verso la distruzione. Ward affermò di aver scritto il romanzo perché insoddisfatta di come la memoria dell’uragano fosse tenuta in vita nel discorso pubblico statunitense. Un’operazione di salvataggio storico, quindi, che per la prima volta nella carriera dell’autrice viene sorretta anche da un’impalcatura mitica. Il metodo mitico, ce lo insegnano i grandi modernisti da James Joyce a T.S. Eliot passando per Ezra Pound, è sostanzialmente votato a mettere ordine nel caos della vita moderna, donando al contempo una risonanza eterna, e in definitiva eroica, alle piccole storie quotidiane di uomini in balia di un mondo indecifrabile. In questo caso, però, la ripresa del mito segue anche motivazioni più apertamente politiche. «It infuriates me that the work of white Americans can be universal and lay claim to classic texts, while black and female authors are ghetto-ized as “other”», afferma Ward. È chiara qui la lezione fondamentale di Toni Morrison, che ebbe a dire come «canon building is empire building. Canon defense is national defense», laddove «impero» e «canone» vanno intesi come emanazione dell’edificio, scalfito ma non demolito, del dominio bianco e maschile. Decisa a scardinare le difese di un canone costruito a immagine e somiglianza dell’egemonia culturale occidentale, Ward riprende allora la storia di Medea, che definisce un’anti-eroina per eccellenza, e ne scompone le caratteristiche in una trasfigurazione tripartita: Medea è Esch, ragazzina di buon cuore costretta ad armarsi contro le circostanze; è China, il pitbull da combattimento del fratello di Esch, i cui preziosi cuccioli sembrano morire uno dopo l’altro come per una maledizione; e Medea è Katrina, virgo cruenta capace di cancellare intere dinastie per capriccio. Salvage the Bones è un romanzo intensamente poetico, straziante ma non privo di speranza nell’amore che dedica alle vite più umili, ma per questo più preziose, alle quali non resta altro che “salvare le ossa” di fronte a un mondo in cui la povertà endemica e la forza degli elementi si uniscono nella creazione di un vero e proprio Armageddon.
Il pessimismo di Ward troverà poi l’espressione forse più cupa nel romanzo successivo, Sing, Unburied, Sing (2017, da noi Canta, spirito, canta, traduzione di Monica Pareschi, NNE, 2019). Di nuovo a Bois Sauvage, di nuovo all’interno di una famiglia nera che si tiene coraggiosamente in piedi in un paesaggio di violenza e possibilità negate. Jojo vive con i nonni, che adora, e una madre, Leonie, distante e vittima della droga. Suo padre, bianco e condannato per spaccio, proviene da una rispettata famiglia locale con forti legami politici: suo cugino ha ucciso Given, lo zio di Jojo, durante una battuta di caccia, uscendone pressoché illeso grazie alla corruzione e al razzismo del sistema legale del Mississippi (lo stesso, ricordiamo, che condannò l’assassino del fratello di Ward a una pena irrisoria mai del tutto scontata). Il giorno della scarcerazione del padre, Leonie, Jojo e sua sorella treenne Kayla si mettono in viaggio per recuperarlo dalla prigione di Parchman nella regione del Delta, area storicamente segnata dall’economia di piantagione. In questo romanzo, l’influenza del Faulkner di As I Lay Dying è trasparente: il viaggio dei protagonisti viene svelato attraverso capitoli alternativamente narrati da Jojo e Leonie, che si abbandonano a flussi di coscienza accorati nell’esaminare le proprie anguste condizioni esistenziali. A questi, si aggiunge un terzo narratore: Richie, il fantasma di un adolescente morto nella prigione di Parchman mezzo secolo prima, la cui storia è indissolubilmente, e misteriosamente, legata a quella della famiglia di Jojo.
Piuttosto interessante è notare come, con questa terza prova, Ward riprenda la volontà di scavare nella recente storia afroamericana per portarne alla luce gli aspetti più cupi e dimenticati; ma come, allo stesso tempo e per la prima volta, il realismo impietoso che aveva caratterizzato i romanzi precedenti vada ad arricchirsi di un elemento fantastico, e anzi più propriamente gotico e orrifico. Tananarive Due, eccellente autrice di speculative fiction spesso virata nei toni del terrore, ha affermato: «Black history is Black horror», esplicitando come il linguaggio dell’horror sia paradossalmente più adatto di quello del naturalismo per raccontare i secoli di prigionia, segregazione e linciaggi che caratterizzano l’esperienza afroamericana. Come a seguire idealmente l’intuizione di Due, Ward conduce la propria esplorazione del passato violento (e di un presente altrettanto violento) del Mississippi attraverso una storia di fantasmi. Lungi dal diluire la lirica durezza che aveva caratterizzato le sue opere precedenti, questa scelta riesce nell’intento di comunicare la profondità della sofferenza nera in tutta la sua sconcertante magnitudine. L’eredità della prigione di Parchman, già cupamente immortalata in vari blues – uno fra tutti, Parchman Farm, inciso da Bukka White nel 1940 – viene qui riscoperta e disvelata: quello che le istituzioni chiamavano «il miglior carcere della nazione» altro non è stato che una vera e propria piantagione contemporanea, subdolamente sopravvissuta alla Guerra civile e al Tredicesimo emendamento, e che ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso continuava a schiavizzare la popolazione nera per profitto dietro l’apparenza fraudolenta di istituto penale. Con questo romanzo, Ward sembra sposare in toto le tesi dell’afropessimismo, corrente di teoria critica che vede la vita afroamericana ancora sostanzialmente definita dall’eredità della schiavitù, che, come ha scritto Orlando Patterson nel fondamentale Slavery and Social Death (1982), trasforma le sue vittime in veri e propri morti viventi, larve costrette a una non-vita di prigionia. Una condizione trasfigurata nel fantasma di Richie, la cui unica salvezza sembra risedere nella speranza che qualcuno racconti la sua storia. «I need the story to go», afferma infatti lo spettro, dando voce a un’aperta, seppur incerta, fede nel potere salvifico della letteratura come strumento capace di dar voce alle storie altrimenti sommerse delle vittime di oppressione istituzionale.
E questa stessa interpretazione del reale, a metà tra un pessimismo irredimibile e la fiducia sconfinata nelle possibilità del racconto, sembra sostenere anche il più recente dei romanzi di Jesmyn Ward, Let Us Descend (2023, in italiano Giù nel cieco mondo, tradotto da Valentina Daniele, NNE). Qui, la scrittura dell’autrice sembra giungere a una summa delle diverse ispirazioni che la animano, trovando un equilibrio – in tutta onestà ancora incerto nel suo sperimentalismo – fra la vocazione storica, l’afflato mitico, e la semantica del fantastico che aveva già sorretto Sing, Unburied, Sing. Let Us Descend narra infatti della catabasi di Annis, giovane schiava nel sud antebellum spinta in una discesa agli inferi dalle dinamiche spietate dell’economia di piantagione. I più attenti avranno già intuito dal titolo italiano come il palinsesto per questo viaggio, tanto spirituale quanto crudamente carnale, venga fornito all’autrice dalla Divina Commedia. Il “cieco mondo” dantesco è qui trasfigurato in un Sud allucinato, popolato non di anime dannate ma di individui condannati a quella particolare dannazione in vita che è la schiavitù. Annis, inizialmente una schiava domestica, ascolta di nascosto il precettore della famiglia a cui appartiene spiegare l’opera del Sommo poeta alle figlie del padrone. “L’italiano” diventa quindi una figura capace di fornire un telos a un mondo di orrori altrimenti indecifrabili, la sua opera una mappa per sopravvivere all’Orco del profondo meridione: il cerchio più profondo dell’inferno in terra in cui gli schiavi erano costretti. La palude stigia diventa quindi la Great Dismal Swamp che Annis, venduta come sua madre prima di lei e alla ricerca di questa, deve attraversare insieme ai suoi compagni di sventura; la città dolente di Dite è riproposta nelle splendide e fosche descrizioni di New Orleans, all’epoca sede di uno dei più fiorenti e mercati di schiavi della nazione.
Al posto di Virgilio, guidano la bambina attraverso una serie ininterrotta di gironi sempre più terribili gli spiriti del mondo naturale riveriti dai suoi antenati africani. Aza, capriccioso spirito dell’aria, «Lei Che Ricorda», spirito del fuoco, e «Loro che Prendono e Danno», la terra che inghiotte e consuma ma promette anche rinascita. A detta dell’autrice, la volontà di affrontare il periodo più cupo della storia afroamericana è stata accompagnata dal desiderio di contrapporre a quella realtà insopportabile – e in definitiva indescrivibile – un mondo d’immaginazione che potesse ribadire l’importanza della speranza e della fede nel buio altrimenti senza schiarite della schiavitù. Il recupero della spiritualità africano-occidentale, già presente in Sing, Unburied, Sing, raggiunge qui una dimensione più compiuta e decisiva, andando progressivamente a sostituire il sostrato dantesco con quello delle religioni animiste in cui gli schiavi africani, oppressi tanto da padroni spietati quanto da un Dio bianco e distante, trovavano rifugio e consolazione. C’è in Let Us Descend, come del resto in Salvage the Bones, la volizione di appropriarsi della mitologia occidentale per poi sovvertirla. Non per fare strame di una tradizione che, in quanto occidentali e per quanto forzatamente, è ormai impressa in modo indelebile nella cultura dei neri d’America, ma piuttosto per contaminarla con un sapere più antico e intoccato dalle devastazioni del capitalismo colonialista, forzarne i limiti, svelarne le contraddizioni, denunciarne l’ipocrisia. Se lo schiavo (e lo schiavo nero in particolare), come insegnano Patterson e gli afropessimisti, è stato spinto al di fuori del cerchio dell’umano e trasformato in un “oggetto parlante” nella celebre definizione di Karl Marx, un romanzo come Let Us Descend mira quindi ad ampliare quello stesso cerchio attraverso la ripresa di un’epistemologia altrimenti soffocata dai discorsi fondanti dell’Occidente. Così facendo, Ward partecipa allo sforzo collettivo ancora in atto attraverso il quale artisti e intellettuali afroamericani tentano di recuperare e riarticolare, investendola di spessore ontologico a lungo negato, una storia e una cultura ancora troppo spesso distorte e neglette.
Stavolta, il fuoco
Oltre alla produzione romanzesca, accolta da un grande successo di critica e pubblico, Ward ha dato alle stampe il già citato Men We Reaped, libro di memorie in cui l’esperienza personale serve all’autrice per analizzare gli effetti nefasti del razzismo endemico statunitense. I cinque giovani le cui brevi vite tragiche sono narrate nell’opera, scrive l’autrice, sono vittime di un’epidemia: un male che colpisce unicamente i neri indigenti, progettata a tavolino da una nazione incapace di affrontare e curare il proprio razzismo. Come a sottolineare la natura rapace di questa piaga strutturale, la città di DeLisle viene qui definita «Wolf Town», un’entità predatrice dall’appetito insaziabile, perennemente a caccia di sangue. Come scriveva del resto James Baldwin nel saggio con cui si apre questo articolo, il «problema nero» non è certo un problema dei neri, quanto piuttosto una piaga creata e mantenuta in vita dai bianchi, che sarà risolta solo quando la società bianca sarà costretta a venire a patti con le proprie storture patologiche.
Come ho scritto, l’opera di Jesmyn Ward non è separabile dalla sua dimensione politica. L’indubbia maestria stilistica dell’autrice e la sua naturale tensione al lirismo sono sempre al servizio della denuncia, del desiderio di speak truth to power, di dare voce agli oppressi e fare luce sulla loro condizione senza alcuna reticenza. «I [need] narrative ruthlessness», dice Ward a tal proposito. La vocazione più propriamente di denuncia dell’opera dell’autrice è probabilmente maggiormente esplicitata – perché spogliata di metafora e allegoria – dalla raccolta da lei curata nel 2016, The Fire this Time. Volume miscellaneo che contiene saggistica, autobiografia, poesia e fiction, questo libro venne pubblicato a seguito della nascita del movimento Black Lives Matter, come a fornire una sponda letteraria a quelle rivendicazioni che finalmente acquistavano impeto e risonanza pubblica. Chiaramente ispirata al saggio di Baldwin, nel cambiare l’aggettivo da next a this The Fire this Time dimostra se possibile una forza ancor maggiore del predecessore nello scagliarsi contro un sistema sordo e ostile. «Ascoltateci», sembrano dire gli autori coinvolti, «o stavolta bruceremo tutto». L’intento della raccolta, scrive Ward, è quello di creare «an epic wherein black lives carry worth», un racconto dell’esperienza afroamericana capace di innalzarla al di sopra della mortificazione cui è stata ed è soggetta. Di nuovo, il desiderio di strappare la narrazione della vita nera dalla pagina dei necrologi per consegnarlo a quello della grande letteratura, la volontà di fornire un’epica fondante alla propria cultura.
Tutta l’opera di Jesmyn Ward risponde a questa chiamata alle armi. Come ha scritto Cormac McCarthy nel suo penultimo, splendido romanzo The Passenger, alcuni libri sono stati scritti «in lieu of burning down the world—which was their author’s true desire». E i libri di Ward sono esattamente questo: fuoco simbolico capace però di innescare la rivolta contro un mondo ingiusto, nella speranza di poterne immaginare e costruire un altro. Un testamento all’anima e alla forza di un popolo trascinato attraverso l’inferno, ma che ha sempre trovato nuovi modi per sopravvivere. E per raccontarlo.
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