Bibliomanie

Proposte di lettura
di , numero 58, dicembre 2024, Letture e Recensioni, DOI

Proposte di lettura
Come citare questo articolo:
Marzio Zanantoni, Proposte di lettura, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 20, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12055

Autobiografie di militanti nel Biennio Rosso
Nel 1962 Cesare Bermani, uno dei primi ricercatori a praticare il metodo storiografico della storia orale, la cui prima ispirazione gli venne dalla lettura di alcuni saggi pubblicati negli anni Settanta dalla rivista maoista «Vento dell’Est», durante varie ricerche sul campo dei canti sociali del Novarese e del Vercellese, si rese conto di quanto le persone intervistate, perlopiù militanti di partiti di sinistra, ascoltati nei luoghi da loro più frequentati (osterie, sezioni di partito, circoli operai, feste dell’Unità) raccontavano volentieri la loro vita e che la storia del movimento operaio che emergeva dai loro racconti era qualcosa di diverso da quella appresa dai libri. Bermani si accorse che quelle narrazioni orali potevano far emergere la cultura dei militanti, dirigenti o di base, e potevano rappresentare un imprescindibile arricchimento alla storia del movimento operaio, seppure localizzate in un luogo certamente ristretto – il Piemonte -, ma importantissimo per quanto riguardava la geografia rivoluzionaria tra il 1919 e il 1920-21 (il cosiddetto Biennio Rosso). Da quella grande massa di registrazioni, conservate nell’Archivio Bermani, sono state selezionate nel libro di Cesare Bermani e Marcello Ingrao, «L’alba intravista, Militanti politici del Bienni rosso tra Piemonte e Lombardia», Biblioteca di prospettiva marxista, s.i.p., le narrazioni dei militanti comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani e squadristi degli anni 1920, registrazioni che sono state trascritte come riferite dal parlato. Il lungo ed esaustivo saggio introduttivo di Marcello Ingrao fornisce invece un quadro storiografico e metodologico degli avvenimenti e fa emergere, fara le varie osservazioni, un tema sicuramente essenziale in quei frangenti rivoluzionari: la presenza di una soggettività politica che si interseca con la spontaneità proletaria. Problema dibattuto in quei frangenti non poco dal gruppo torinese di Gramsci e Togliatti legati ai giornali «Il Grido del popolo» e «L’Ordine nuovo». Cosa emerge dalla lettura di decine di racconti e di storia di vita? A me sembra che l’inizio di quella che è stata definita comunemente «egemonia comunista» in qualche modo inizi da qui: da quelle persone in carne ed ossa che con i loro comportamenti, le loro speranze, le loro fedi hanno posto i loro piedi nella terra delle esperienze rivoluzionarie operaie, mostrando alla società italiana e internazionale che la loro strada non era soltanto aperta verso un orizzonte politico, ma apriva anche un campo di visibilità di ordine morale.

L’Aventino e l’antifascismo
Il bel libro di Claudia Baldoli e Luigi Petrella, «Aventino: storia di una opposizione al regime», Carocci, euro 26,00 presenta una accurata analisi di quella esperienza politica comunemente e sinteticamente definita con il termine di «Aventino», nata il 27 giugno 1924, quando Il leader socialista Filippo Turati pronunciava davanti alle opposizioni, a pochi giorni dall’assassinio di Giacomo Matteotti, una furiosa invettiva contro la Dittatura mussoliniana. Era la prima risposta a quel tragico evento di regime, al quale seguì la «secessione dell’Aventino»: i parlamentari antifascisti, radunati in una coalizione piuttosto eterogenea (120 deputati tra socialisti, cattolici, democratici e repubblicani), decisero di astenersi dai lavori della Camera. Nei partiti dell’Aventino era fortemente maggioritario l’orientamento non violento e questo indirizzò l’alleanza verso una strategia di lotta esclusivamente legalitaria. Per un brevissimo periodo anche i comunisti parteciparono alla coalizione e Gramsci guardò con attenzione alla scelta degli altri partiti, ricavandone tuttavia, a breve, l’idea, espressa da Togliatti a Mosca che in realtà l’Aventino era stato un blocco di forze reazionarie della borghesia e la lotta di quei partiti non avrebbe condotto ad una capillare e attiva resistenza contro il fascismo. Essa apparve dunque, e di fatto fu, una scelta di ispirazione prevalentemente etica, sottoposta a forti critiche da uomini come Gobetti, Rosselli, Sturzo. Nel novembre del 1926, a due anni dalla sua costituzione, il groppo di aventiniani decadde dal mandato parlamentare decretando la fine di quell’esperienza politica. La ricerca di Baldoli e Petrella, molto completa e intelligente, ne scandisce le tappe cronologiche e delinea le azioni e gli uomini che ne furono protagonisti, lasciando, alla viglia della Resistenza del ’43, sia la sua eredità morale che un esempio di unità. Tuttavia, all’interno della lotta di liberazione, alcuni protagonisti non poterono mancare di sottolineare i limiti profondi di quella esperienza: mancò al suo compito nella lotta politica concreta, insomma, come evidenziato da altri storici, «una cronaca di un insuccesso politico».

Studi sul Pci
Prendendo spunto dal centenario della nascita del Partito comunista d’Italia (poi Partito comunista italiano dal 1943) si è manifestata anche in editoria una notevole attenzione a questo avvenimento. Sono molto i libri pubblicati e tra questi, uno dei più interessanti è quello di Alessandro Barile, studioso già noto per le sue ricerche sul comunismo italiano. L’ultimo suo lavoro – «Una disciplinata guerra di posizione. Studi sul Pci», F. Angeli, euro 33,00 – si presenta come una ricerca molto ambiziosa nella quale, in 190 pagine, si dà conto della storia del PCI, dalla Liberazione agli anni Ottanta, che affronta temi enormi ed essenziali. Temi – lo scontro ideologico tra Partito e intellettuali, il riformismo incompiuto, la modernizzazione prodotta dal neocapitalismo -, certamente già affrontati ma che Barile esamina con occhi più freschi e con una encomiabile bibliografia e documentazione archivistica di grande utilità. Mi sembra che i capitoli dedicati al complesso rapporto tra la cultura italiana, dalla letteratura alla filosofia, dall’arte alla musica, siano i più riusciti, a fronte dei capitoli riguardanti i rapporti tra Pci e nuova sinistra dentro gli anni Settanta, oscurati da interpretazioni legittime, ma meno raccontate nei fatti accaduti. Molto chiaro e completo (a parte l’accenno eccessivamente minimale a Enrico Berlinguer) è infine il capitolo conclusivo, dedicato ai materiali pubblicati o mancanti in occasione del centenario del Partito. Una fonte davvero preziosa.

Croce e Togliatti. Alla ricerca di una memoria antagonista
Nelle eleganti edizioni di Bibliopolis, e con la consueta cura editoriale, esce un nuovo lavoro di Michele Maggi, importante studioso soprattutto di Benedetto Croce. Il titolo del libro «Il vuoto alle spalle. Croce, Togliatti e la memoria nazionale», euro 25.00, diventa pienamente comprensibile una volta giunti alla fine delle 350 pp. del volume. Durante la lettura circola in chi legge un certo spiazzamento, tanti sono i temi che compongono il libro, temi che devono essere sempre ricomposti dentro un nucleo comune. Intanto perché il contesto è sostanzialmente il dopoguerra dove la figura di Croce appare quasi di traverso, cioè come protagonista in negativo, il cui pensiero viene man mano rimosso dall’attacco della cultura comunista e progressista, attraverso il recupero di Gramsci e l’opera polemica di Togliatti, Garin e Bobbio. Sparito Croce, la gran parte dei capitoli divengono una minuziosa storia delle varietà del marxismo italiano, nella quale tanti protagonisti, anche minori in verità, si muovono volontariamente o meno per distruggere quella memoria nazionale costruita con fatica anche con Croce, ma che, a iniziare dai Quaderni gramsciani, ha, per l’Autore, un solo scopo: pensare e costruire l’Anti-Croce. Da qui la perdita complessiva di quella memoria nazionale che lascerà un «gran vuoto alle spalle».

Antifascismo. Benedetto Croce e la resistenza al fascismo
Uno dei lavori più recenti di Mimmo Franzinelli è davvero un gran bel libro. Semplicemente intitolato «Croce e il fascismo», Laterza, cartonato, euro 29,00 avrebbe potuto intitolarsi «Croce e l’antifascismo», o ancora più efficacemente, forse, «Croce antifascista». Il nucleo del libro è insomma questo: quanto è stata presente, e attiva, negli anni del Regime, la figura di Benedetto Croce, non solo e non tanto come studioso che, attraverso la sua rivista «La Critica», ha insegnato, divulgato e interpretato libri e avvenimenti di quegli anni tragici, ma soprattutto quanto la sua personalità ha costituito il punto di riferimento per l’antifascismo e gli antifascisti, a iniziare ovviamente dal «Manifesto degli intellettuali antifascisti» del maggio 1925. Grazie ad una impressionante mole di documenti, anche inediti, Franzinelli fa emergere come Croce avesse vissuto gli anni del fascismo da «sorvegliato speciale»: tutto gli veniva controllato, dalle lettere che spediva ai diversi amici e a interlocutori anche occasionali (di ciascuno i diversi Ministeri raccoglievano un dossier che trasmettevano a Mussolini, documenti presenti nell’Archivio di Stato) all’elenco degli abbonati a «La Critica» (ed è davvero interessante ripercorrere i nomi). Insomma, più di quanto si è sempre pensato, il filosofo abruzzese è stato sempre all’interno dell’antifascismo nazionale, divenendone il protagonista assoluto. I movimenti liberali, Giustizia e libertà, il socialismo progressista: la luce, per tutti, è Croce, i suoi insegnamenti, ma anche le vessazioni vissute più o meno aspramente. Franzinelli non dimentica, ed è cosa molto opportuna, il rapporto con il movimento comunista, che invece ha sempre visto in Croce un conservatore, nemico di classe e osteggiato da Mussolini con i guanti bianchi: viene richiamata la posizione di Gramsci che, nel Quaderni carcerari, affronta con forte spirito critico e analitico, il pensiero di don Benedetto sino al progetto necessario di un Anti-Croce, da costruirsi con la armi della battaglia politica certo, ma soprattutto con le armi ideologiche che il marxismo poteva e doveva mettere in campo. Ma tanti sono gli aspetti meritevoli di questo libro di Franzinelli, tali da essere riassunti in una conversazione come questa. Ultimo pregio, come segno distintivo dell’Autore, la leggibilità e la chiarezza della scrittura: 350 pagine da leggere con grande curiosità, quasi senza interruzioni.

Gramsci giornalista
Che grande giornalista fu Gramsci! Di fronte alle 1.000 pagine del nuovo volume di «Scritti (1918)», terzo tomo degli «Scritti (1910-1926)» gramsciani, a cura di Leonardo Rapone e Maria Luisa Righi, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, euro 70,00, non si può che constatare la straordinaria capacità e intelligenza del politico sardo di essere giornalista militante durante l’esperienza della stampa socialista torinese, in questo caso dal «Grido del popolo» alle edizioni dell’«Avanti!». E credo che al termine della pubblicazione degli scritti giornalistici, a fronte di tale mole quantitativa e qualitativa, vada probabilmente ripensata, più di quanto è stato fatto sino ad ora, quell’esperienza che, messa in collegamento con gli scritti del carcere, gli articoli giornalistici appaiono un altro monumento di produzione intellettuale e conferiscono a Gramsci una statura giornalistica, intellettuale e politica di immensa portata, delineandone ancor più la figura di uno dei maggiori interpreti del Novecento italiano, utilizzando, in questo caso, non la forma «saggistica», come per i Quaderni, ma lo stile cronachistico. Non si tratta certo di compare il Gramsci degli Scritti carcerari con quelli precarcerari, ma di giungere finalmente alla delineazione di un intellettuale militante il cui corpus letterario ci mostra la grandezza di analisi quotidiana e, più a lungo, speculativa di cui è capace. Questo nuovo volume della Edizione nazionale comprende 344 articoli, di cui una ventina attribuiti per la prima volta a Gramsci, rispetto ad altre raccolte precedenti, corredati da una cura redazionale eccellente. In questo contesto, non si può certo impegnarsi in un’analisi neppure sommaria dei tanti temi presenti negli articoli gramsciani. Di sfuggita ne vorrei solo accennare un paio: innanzitutto va tenuto presente che siamo immediatamente alle spalle della rivoluzione bolscevica con gli echi che giungevano in Italia e che dunque Gramsci non poteva non ascoltare e commentare. Ma l’atra questione che permea molti articoli si dipana attraverso la riflessione intorno a un problema che tanto ha fatto discutere e che ancora gli studiosi gramsciani affrontano opportunamente: il tema è quello di un teorico/pratico, che contiene forti valenze politiche, che si raggruppa intorno a concetti «idealistici» quali quelli di volontà/spirito, con forti connotazioni che spingono verso un campo di visibilità che è quello dell’individualismo. Accenno solo ad articoli come «La tua eredità», in «Avanti!» del 1° maggio 1918; «Il nostro Marx», nel «Grido del popolo», 4 maggio 1918; «Anche a Torino», «Avanti!» del 5 dicembre 1918. Certamente, rispetto ad anni precedenti, tale nodo strategico inizia a dipanarsi all’interno di comportamenti politici più collettivi, di organizzazione e di unificazione di classe: ma qui Gramsci rifletterà a lungo, attraverso un percorso che lo condurrà ad una lettura ed elaborazione del pensiero di Marx e di Labriola sempre più materialistica.
Un’ultimissima annotazione: faccio anche mia la esortazione espressa da Guido Liguori circa la reperibilità di volumi fondamentali come quelli dell’Edizione Nazionale degli Scritti gramsciani. Ci auguriamo che la Treccani pensi ad una pubblicazione più democratica, ad uso e consumo dei molti utenti che cercano in Gramsci anche una lettura per il presente.

Libri e idee per una mentalità democratica
Come si costruisce una mentalità democratica? È la domanda chiave che Simonetta Fiori, per tanti anni inviata di «la Repubblica», nel libro da lei curato: «La biblioteca di Raskolnikov. Libri e idea per un’identità democratica», Einaudi, euro 18,00 (Raskolnikov, evocato del titolo, è un personaggio letterario protagonista del romanzo di Dostoevskij «Delitto e castigo» e rappresenta la tortuosa discesa nella coscienza alla necessaria ricerca tra il bene e il male), ha posto a una decina di intellettuali liberali e progressisti: da Canfora a Cardini, da Anna Foa a Lagioia, da Revelli a Schiavone sino a Gustavo Zagrebelsky, il quale, nell’ultimo intervento ci offre un’analisi dello stato di salute della democrazia oggi.. Ma possiamo farci un’ulteriore domanda: questo percorso culturale ed esistenziale si può strutturare in un percorso di bussole saggistico-letterarie che dia il senso di una biblioteca ideale, o almeno di riferimento, entro la quale orientarsi?Ogni intervistato ricorda soprattutto le sue prime letture che per conto proprio o attraverso i genitori aveva scoperto: erano i classici dell’infanzia, da Mark Twain a Tolkien. Poi i sentieri di ciascuno si dividono, tra letture più orientate decisamente a sinistra, da Marx a Tronti, da Gobetti a Bobbio, dalla Luxemburg a Pasolini, da Croce a Hemingway, sino ad un eclettismo che include Autori eretici, comunque di ispirazione antifascista, uniti a scrittori più consueti e frequentati come Calvino o Primo Levi. Come è stato già notato, fa una certa impressione non trovare, in una ideale biblioteca per una formazione democratica, il nome di Antonio Gramsci: evidentemente le vie per costituire una coscienza progressista hanno avuto radici meno consuete di quanto immaginato.

Intellettuali e letteratura
Di recente, alcune pubblicazioni hanno ripreso a ridiscutere l’idea di letteratura che è stata elaborata nel corso dei molti secoli della nostra storia letteraria. Vuol dire immergersi in una storia culturale del nostro paese nella quale gli intellettuali, critici e scrittori o, volte critici-scrittori, hanno avuto un loro peso decisivo nella ricostruzione di un canone letterario mutante di generazione dopo generazione.
Alfonso Berardinelli, critico e saggista, con la nuova raccolta dei suoi scritti (Antinomie. Letteratura, intellettuali, idee, inSCHiBBOLETH Edizioni, euro 26,00) entra nel vivo di questo ed altri problemi con la originalità e l’irruenza consuete, riprendendo nel corso degli anni polemiche e giudizi, tanto da essere definito da qualcuno “critico teppistico”. È anche il caso di un altro tema a lui molto a cuore: il rapporto tra testo e lettore, dunque il ruolo del critico letterario.  Emerge in alcuni saggi la sua polemica posizione verso quei critici nei quali il primato della teoria e della metodologia svalutava la lettura come esperienza personale, e questo primato del lettore e dello specifico letterario viene ribadito con insistenza, in opposizione allo strutturalismo e alla semiologia che per qualche decennio, secondo Berardinelli, costruì una teoria della letteratura che divorò la letteratura stessa. Il libro viene poi concluso da una serie di saggi dedicati a singoli critici letterari, o che comunque hanno riscritto la nostra storia culturale: da Debenedetti ad Asor Rosa, da Timpanaro a Fortini. 

Editoria. Andare per case editrici
Anni fa Il Mulino diede vita ad una collana – “l’Identità italiana” – diretta da Ernesto Galli della Loggia con lo scopo di tracciare una mappa della nostra storia: gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo. Chiusa dopo una cinquantina di volumi, la stessa Casa editrice ha riaperto un analogo cantiere editoriale – “Ritrovare l’Italia” – questa volta sotto la definizione comune di “Andare per luoghi”: ad es. andare per l’Italia longobarda, per colonie estive, per caffè storici ecc. ecc. Ora siamo giunti oltre il trentesimo volume con il libro di Roberto Cicala, “Andare per luoghi dell’editoria”, Il Mulino, euro 14,00. A differenza di alcuni testi usciti anche di recente che presentano una panoramica dell’industria del libro in Italia, il lavoro di Cicala, che traccia un panorama, città per città, da Torino a Palermo delle Case editrici nel nostro Paese, presenta almeno due pregi da evidenziare. Il primo è che finalmente la panoramica descritta dall’Autore arriva a gettare lo sguardo su decine di piccole e quasi sconosciute aziende editoriali, sparse in ogni città e piccoli centri regionali, che in altri lavori erano del tutto assenti, in favore delle solite grandi o famose Case editrici, come se l’industria del libro in Italia fosse costituita solo da Mondadori, Rizzoli, Sellerio, Einaudi, Feltrinelli ecc. L’altro merito del libro è la grande scorrevolezza e leggibilità del racconto: è davvero un “andare per”, come se anche il lettore venisse trasportato, camminando, dentro gli uffici editoriali, per case, ville e palazzi. Un bel libro, insomma, tutto da leggere e da godere.

Un racconto di formazioni anomale
Per un lettore comune, un criterio indubbiamente certo per capire quanto sia interessante e piacevole la lettura di un libro (un’opera letteraria soprattutto) è il desiderio che ci spinge a riprendere in mano appena possibile quell’involucro di carta e ricominciare a scoprirne la trama. È quello che succede con l’ultima prova narrativa di Bruno Pischedda, «MUSTER. Una giovinezza fantastica», Zacinto edizioni, euro 20,00. Definirei MUSTER – l’individuo anomalo, come è stato precisato – un racconto di formazioni, al plurale, piuttosto che al singolare. C’è un protagonista, certo, ma la sua strutturazione fisica e psicologica si forma con gli altri e le altre, figure che di contorno non sono. Pischedda, che insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi di Milano, racconta la sua storia giovanile, o come scrive lui, «i più solenni sputtanamenti», con un metodo specifico: «fissare questi punti in altrettante diapositive o fotogrammi»: insomma, il fermo immagine come pausa di riflessione, in un rapporto con il tempo che scorre e che esemplifica il ruolo della memoria quando non si è più giovani. Così si dispongono avvenimenti, persone e atti in quelle zone a Nord di Milano – l’inizio della «verde» Brianza – così tanto note anche a me: quegli odori e rumori dei treni delle Nord, che da Milano si inoltrano verso un nuovo territorio; l’ex manicomio di Limbiate-Mombello, con villa Crivelli e i ricordi napoleonici e poi psichiatrici e ora una nuova scuola; la diossina tra Meda e Seveso. Dentro una linea spazio-tempo non strettamente cronologica, Pischedda rimane all’interno di un racconto realistico dettagliato: un puro racconto sul quale l’Autore pare interrogarsi anche da studioso dei generi letterari, ricavandone una riflessione che emerge a tratti in superficie, oltre e sopra gli avvenimenti fattuali. Se MUSTER si chiede allora cosa rimarrà inciso di noi sull’asse del tempo, forse risposta migliore potrebbe essere questa: siamo tutti individui anomali, ma le nostre anomalie esprimono la nostra normalità storica.

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