Bibliomanie

Matteo Cavezzali, A morte il tiranno, Storielibere.fm, 2020
di , numero 58, dicembre 2024, Recensioni Podcast, DOI

Matteo Cavezzali, <em>A morte il tiranno</em>, Storielibere.fm, 2020
Come citare questo articolo:
Valentina Ricci, Matteo Cavezzali, A morte il tiranno, Storielibere.fm, 2020, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 27, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12069

A morte il tiranno è un podcast ideato, scritto e montato tra il 2019 e il 2020 da Matteo Cavezzali e Gianni Gozzoli, il frutto della loro prima collaborazione. Cavezzali è scrittore e giornalista, con i suoi romanzi ha vinto il Premio Comisso e il Premio Volponi e dal 2020 lavora per Radio Rai come autore di podcast; Gozzoli è autore e podcaster per Radio Rai, Storielibere.fm, Audible Italia e dal 2010 è formatore radiofonico e di podcast per vari enti nazionali e privati.
A morte il tiranno (in seguito anche libro edito da Harper Collins) è stato pubblicato sulla piattaforma Storielibere.fm, e racconta di sei attentati contro il Potere e contro coloro che lo impersonificavano avvenuti durante la storia moderna e contemporanea. Da un ascolto superficiale si può già capire che ogni puntata è riservata alla narrazione di un attentato, e che nell’arco di 35-45 minuti tale narrazione restituisce la storia personale dell’attentatore, un tentativo di profilazione psicologica e il contesto storico e sociale in cui si muoveva. Tuttavia il podcast non si riduce al racconto storicamente esatto delle singole imprese di Gaetano Bresci, Guy Fawkes, Gavrilo Princip, Violet Gibson, John Hinckley Jr. e Robespierre (rispettivamente attentatori di Umberto I, Giacomo I, Francesco Ferdinando, Mussolini, Reagan e Luigi XVI), ma racchiude delle vere e proprie narrazioni, andando ad ampliare la ricostruzione scientifica dei fatti e delle loro cornici socio-politiche, e restituendo all’ascoltatore un racconto preciso e accattivante allo stesso tempo. Questi due binari su cui si muove la narrazione, uno di ricerca scientifica, l’altro di letteratura e di finzione, si fondono nella voce narrante di Cavezzali, che passa con scioltezza dalla lettura del contenuto di una fonte storica alla descrizione fittizia dello stato del protagonista della puntata, accompagnando l’ascoltatore in questi passaggi con continuità e scorrevolezza.
La parte storica è quella su cui si basano tutte le puntate: il punto di partenza è il fatto, e la sua ricostruzione, sempre imparziale, si appoggia su fonti che non mancano di essere citate. Si pensi ai file audio in cui si sente la voce di Mussolini aizzare la folla o affermare «io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani» (quarta puntata), al continuo citare materiali d’archivio appartenenti alle indagini su John Hinckley Jr. (quinta puntata), o più banalmente alle ricostruzioni biografiche degli attentatori. Lo scheletro delle puntate così composto è arricchito da elementi tipici di una narrazione letteraria: oltre ai già citati tentativi di ricostruire i pensieri e gli stati d’animo dei personaggi, è proprio la struttura dei racconti che si può ricondurre alla narrativa più che alla saggistica. I flashback, gli incipit in medias res, il continuo spostamento di focus dalla figura dell’attentatore a quella della persona aggredita senza soffermarsi mai su un argomento per più di qualche minuto (tre o quattro al massimo): sono tutti accorgimenti delle fasi di scrittura e montaggio che hanno dato vita a un prodotto sia storico, sia di consumo, in cui scienza e narrativa si combinano e si bilanciano a vicenda. A complicare tale struttura già intricata intervengono tanti input provenienti da altre discipline: citazioni di opere letterarie e cinematografiche, spiegazioni di dottrine filosofiche e teologiche; l’insieme di questi materiali tanto eterogenei concorre a restituire un quadro delle vicende narrate più completo possibile. Sembra quasi di trovarsi davanti a una rimediazione di un programma televisivo di divulgazione scientifica per il grande pubblico, dove al racconto del presentatore si alternano video d’archivio o scene ricostruite con attori in costume, citazioni di opere e interviste agli esperti.
A ciò si aggiunge un sapiente uso dell’audio: frequenti e brevissime pause nel flusso narrativo contribuiscono a incalzare il ritmo della narrazione e a renderlo alquanto scorrevole, mentre i suoni utilizzati per riempire tali pause (sia che si tratti di materiali di archivio, sia che si tratti di effetti sonori di repertorio), hanno il compito di prendere per mano l’ascoltatore e farlo immergere gradualmente e a fondo nell’atmosfera dei racconti. Più il processo di immersione è efficace, più il podcast riesce a trattenere l’attenzione dell’ascoltatore e a farlo affezionare alla trama. Anche il tono di voce calmo e pacato di Cavezzali contribuisce ad accrescere il legame personale tra podcast e ascoltatore: l’atteggiamento più simile a quello di chi sta raccontando una storia a un amico, che a quello di un professore in cattedra restituisce una forte sensazione di familiarità.
Da un punto di vista formale, A morte il tiranno presenta alcune caratteristiche ricorrenti che lo rendono riconoscibile e unico rispetto agli altri podcast. In primo luogo i titoli delle puntate composti da due parti: la prima è un nucleo di poche parole che rimanda in modo criptico al contenuto della puntata stessa, la seconda presenta sempre i nomi dell’attentatore e della sua vittima separati da un vs, come se i due si scontrassero in una sfida sportiva. Nell’arco delle puntate la voce stessa di Cavezzali è un elemento identificativo del prodotto grazie al tono pacato e all’accento ravennate che la contraddistingue. A questa si aggiungono un motivetto lento e molto breve, che si ripete all’inizio di ogni puntata e, talvolta, in sottofondo durante il racconto, e il rumore di due spari alla fine di ciascuna puntata.
Anche la struttura degli episodi, pur mantenendo la complessità sopracitata e un impianto irregolare da uno all’altro, presenta alcuni assetti ricorrenti, che fungono da bussola per l’ascoltatore. Innanzitutto l’incipit: ogni episodio inizia con il suono del momento del rispettivo attentato (gli spari e la folla che urla spaventata, la filastrocca sullo sventato colpo di Stato del 5 novembre 1605 in Inghilterra, il rumore della lama della ghigliottina che scende sul collo del condannato a morte) e un aneddoto intrigante legato alla vicenda, un assaggio del racconto che seguirà che ha il compito di accendere la curiosità di chi ascolta. In seguito, una volta dentro la puntata, si susseguono sempre tre voci differenti: oltre al narratore principale, in tutti gli episodi intervengono due esperti, uno psicoterapeuta, il dott. Enrico Ravaglia, e uno storico, il dott. Alessandro Luparini. I loro interventi, della durata variabile di alcuni minuti, offrono uno sguardo approfondito rispettivamente sul mondo interno ed esterno degli attentatori: anche se sembrano approcci molto distanti, quello che li accomuna è lo scopo finale, ovvero l’indagine delle motivazioni che hanno spinto le sei persone in esame a compiere un gesto estremo in nome dei loro ideali. Tale ricerca – che non avrà mai una risposta definitiva – è il motore che muove tutti i racconti, la motivazione profonda che spinge Cavezzali a raccontare e il pubblico ad ascoltare. Talvolta essa è dichiarata esplicitamente, talvolta è sottintesa, ma in ogni caso è la strada che il narratore vuol far intraprendere all’ascoltatore e attraverso cui si viene trascinati se ci si fa catturare dal concerto di tutti elementi analizzati finora.
Un’altra domanda di ricerca fondamentale di A morte il tiranno, che avvicina la narrazione alla finzione letteraria, è quella che interroga l’ascoltatore su cosa sarebbe successo se i fatti fossero andati diversamente: se Francesco Ferdinando non fosse morto, si sarebbe evitata la Grande Guerra? Se la congiura delle polveri fosse andata a buon fine, quali sarebbero state le conseguenze del più grande attentato terroristico della storia? Se Violet Gibson avesse ucciso Mussolini, la storia europea si sarebbe dipanata diversamente? E così via per tutte le puntate. Questo interrogativo non ha alcuna valenza ai fini di una ricerca storica, ma stimola la fantasia dell’ascoltatore, lo fa infiammare e appassionare alle vicende raccontate, aggiungendo pathos ai racconti.
In conclusione, si può affermare che in A morte il tiranno Cavezzali e Gozzoli sfruttano tutte le caratteristiche narrative di un podcast: la commistione di tanti generi e prodotti culturali diversi; la mediazione di una disciplina scientifica con metodi e finalità tipici della narrativa; l’uso della potenza evocativa dell’audio privato dell’immagine, che costringe l’ascoltatore a fare uno sforzo immaginativo, e a farsi coinvolgere profondamente all’interno della storia stessa. L’insieme di questi elementi ha conseguenze positive sulla fruizione del prodotto, ma gli ascoltatori devono essere consapevoli dei limiti. La verità storica, pur essendo presente, talvolta viene messa da parte in favore di una piacevolezza e funzionalità narrativa che rispondono all’obiettivo principale di questi prodotti mediatici: l’intrattenimento e lo svago.


Come avete scelto il soggetto del podcast e perché proprio queste sei storie?
Matteo. Il podcast nasce da un libro che ho scritto precedentemente, Nero d’Inferno, in cui racconto la storia di un italiano, Mario Buda, che fece saltare in aria Wall Street nel 1920. Per scrivere quel libro avevo consultato una serie di documenti che aprivano un’altra storia: Buda era passato da diverse città negli Stati Uniti, in particolare Patterson, dove c’era un’attiva comunità italiana anarchica e sovversiva, da cui poco prima era passato anche Gaetano Bresci. Così tra i documenti che mi servivano mi sono ritrovato anche quelli che contenevano l’incredibile storia di Bresci, della compagnia anarchica che si riuniva nel seminterrato di un albergo di italoamericani, e di come avessero deciso chi avrebbe ucciso il re Umberto I facendo una lotteria. Avevo deciso che la storia successiva l’avrei scritta su questo argomento, ma mentre raccoglievo documenti, mi sono imbattuto in quella di Violet Gibson, e mi sono detto che sarebbe stato il lavoro ancora successivo. Andando avanti in questo modo mi ero programmato tantissimi lavori per i prossimi anni, perciò ho pensato di trattare il tutto diversamente. Nel frattempo ho conosciuto Gianni e insieme abbiamo pensato di creare una serie podcast per sperimentare un linguaggio nuovo e riuscire a raccontare tante storie.
Gianni. Ѐ stato il primo lavoro insieme, era il 2019, in quel momento si era agli albori dei podcast. Appena abbiamo proposto il pitch del progetto a Storielibere lo hanno approvato. Abbiamo scelto sei tra tutte le storie che Matteo aveva trovato (le altre sono nel libro): la selezione ha premiato quelle che ci sembravano più adatte per una narrazione a voce, quelle che ci interessava di più raccontare, che si prestavano meglio al montaggio audio e al modo stesso di raccontare che ha Matteo.

Il libro è successivo al podcast?
M. Sì, il podcast stava andando bene e Harper Collins mi ha chiesto di farne un libro. Così ho pensato di creare un prodotto più approfondito e autonomo, inserendo quattro storie inedite e alcune parti che per l’audio non avevamo utilizzato.

Nel podcast si trovano tanti input diversi, storici ma anche letterari, psicologici, filosofici, ecc… pensate che doverli maneggiare con un prodotto mediatico di solo audio abbia favorito maggiormente la convivenza di tante discipline diverse e dei vari registri che queste richiedono, rispetto a un medium scritto?
G. Sicuramente sì: con il libro si ha solamente la forma scritta e l’unica azione possibile è leggere. Il podcast invece, avendo la voce, i suoni e le musiche, permette di andare oltre la parola. Per esempio, per la puntata su John Hinckley Jr. abbiamo usato il suono del momento dello sparo a Reagan, e questo non si può rendere in un libro: sicuramente il podcast ha una forza evocativa maggiore, riesce meglio nel prendere per mano l’ascoltatore e guidarlo dentro al racconto. In A morte il tiranno i suoni dovevano essere molto presenti proprio per tutti questi motivi. Poi ogni medium ha i suoi pro e i suoi contro, nel libro si sono potuti inserire molti più dettagli e più storie.

Questo podcast nelle sue modalità di racconto e spiegazione dei fatti mi ha ricordato i programmi di divulgazione scientifica che si possono trovare in televisione. Avete sperimentato delle differenze tra un prodotto di divulgazione fatto per la televisione e uno fatto per il solo ascolto? (esclusa l’assenza dell’immagine per il secondo)
M. Innanzitutto noi avevamo molta libertà, quindi abbiamo deciso di sperimentare mettendo insieme tante cose diverse perché l’idea ci divertiva. Sicuramente con l’audio c’è la possibilità di far immaginare agli ascoltatori quello che è successo realmente, mentre il video ha il pregio di mostrare direttamente le cose, ma può essere anche un limite: su alcune vicende storiche le documentazioni visive scarseggiano, e quando ci sono si ripetono e sono legate al bianco e nero, quindi creano molta distanza tra la storia e il pubblico. Se, invece, il pubblico ascolta la storia, può ricreare tutta la situazione nella sua testa e ha la possibilità di sentirsi molto più vicino alla storia reale – almeno secondo noi. Crediamo che ci sia una forza, un potenziale da sfruttare e che esso giochi proprio con la fantasia di chi ascolta e ricrea nella propria testa l’atmosfera evocata.
G. Con il podcast forse non ci accostiamo al radiodramma, però abbiamo creato una narrazione che integra il racconto con la fiction, un po’ come avviene in alcuni documentari sulle piattaforme che spopolano oggi. Per esempio, unendo il racconto di Guy Fawkes con il suono dei passi e dei barili di esplosivo che rotolano nei sotterranei del Parlamento. Abbiamo voluto sperimentare proprio questa posizione intermedia tra narrazione e radiodramma, facendo capire volutamente che c’era della finzione.

Si sente bene che a volte la narrazione scivola nella finzione. Si specifica più volte che i racconti, i loro dettagli, sono presi da documenti, ma in alcuni casi ci si addentra nell’intimità dei personaggi e si riportano cose che sono impossibili da trovare in un archivio (penso a quando vengono descritti pensieri o stati d’animo). Quanto c’è di vero e quanto di finzione narrativa?
M. La vicenda storica si ferma ai dati di cronaca, poi i racconti si concentrano sul tentativo di ricostruire i sentimenti e le emozioni di chi li ha vissuti.

Perché avete scelto di inserire le voci di due esperti? Quali sono le differenze rispetto a una spiegazione che avreste potuto scrivere e far leggere a Matteo in fase di registrazione?
M. L’idea era di dare dinamicità nell’audio, quindi di avere voci diverse per spezzare il ritmo della narrazione. La scelta è ricaduta sulle figure di uno storico (dott. Alessandro Luparini ndr.) che desse il contesto di quando si stavano svolgendo le storie, e di uno psicanalista (dott. Enrico Ravaglia ndr.) che ci potesse portare dentro la testa dei personaggi, tutti afflitti, in modo più o meno esplicito, da disturbi di personalità. Chiunque decida di uccidere un dittatore sa che con quel gesto andrà incontro alla morte, e questa è la cosa che accomuna gli attentatori nel podcast: cosa porta una persona a sacrificare la propria vita per un ideale? Per spiegare questo ci vuole un professionista.

E come avete svolto le interviste? Le avete preparate o avete improvvisato? Gli intervistati avevano un discorso pronto?
G. Noi facciamo le interviste insieme, per compensare i nostri modi di lavorare che sono opposti: io arrivo con le domande scritte dalla prima all’ultima, come se avessi già in mente le possibili risposte e in che modo montarle; Matteo invece si prepara sulla persona da intervistare, ma non scrive nulla. Così le domande scritte si mescolano alle suggestioni che il discorso ci provoca, e di quello che prepariamo spesso resta poco, perché l’intervista prende più la forma di un flusso di coscienza. Luparini, per esempio, era arrivato preparatissimo, con un testo scritto da leggere; noi gli abbiamo fatto leggere il foglio, ma poi lo abbiamo incalzato con altre domande.
M. Luparini è uno storico che conosciamo ed è direttore della biblioteca Oriani che ha uno dei fondi più importanti sulla storia del ‘900, quindi è molto esperto in quell’ambito. Ravaglia invece è uno psicanalista che tiene lezioni in pubblico e scrive su riviste di settore, quindi la scelta è ricaduta su di lui perché oltre a essere esperto è una persona che sa parlare.

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