La bellezza di non comandare
Letizia Soriano, La bellezza di non comandare, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 28, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12071
Nel 1968 Albino Bernardini pubblicò il libro Un anno a Pietralata, cronaca della sua esperienza nella scuola della borgata romana.
Un anno prima, nel 1967, era uscito Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, libro grazie al quale Bernardini raccolse l’eredità pedagogica, civile e politica di don Milani.
Pochi anni dopo, nel 1970, vide la luce anche Il paese sbagliato scritto da Mario Lodi.
Non è un caso che queste tre figure, così importanti nella storia della pedagogia e soprattutto dell’educazione attiva, raccontino e portino la loro esperienza più o meno negli stessi anni.
Difatti in Italia, intorno al 1970, la scuola era ancora in cima all’interesse pubblico e lo dimostra il numero di copie vendute: un milione per Lettera a una professoressa, centomila per Il paese sbagliato che vinse anche il Premio Viareggio.
Dunque, per raccontare qualcosa dell’esperienza di Albino Bernardini, ho volutamente riportato un titolo scelto del maestro Franco Lorenzoni per un articolo su Mario Lodi, in occasione del centenario della sua nascita1.
L’ho inserito perché anche la figura di Mario Lodi si avvicina e si interseca a quella di Albino Bernardini: entrambi tra i primissimi maestri iscritti al MCE (Movimento di Cooperazione Educativa)2 i quali, a loro volta, si troveranno poi a lavorare con il regista Vittorio De Seta.
Nel libro Un anno a Pietralata la bellezza di non comandare è presente in ogni pagina.
È una storia molto difficile quella dei suoi due anni di insegnamento nella borgata romana. La classe che gli viene assegnata è una classe di risulta, di ragazzini destinati all’abbandono scolastico. Nessuno di loro è intenzionato a imparare qualcosa, o semplicemente a vivere la scuola come possibilità di riscatto. Tutti cercano di sfuggirla per ritornare ai contesti degradati dai quali provengono, in cui la loro infanzia si è conclusa prima del tempo. Ma per quell’insegnante i ragazzi non hanno niente che non funzioni. O, per lo meno, lui sarà la persona che riuscirà ad accogliere, a contenere, il disprezzo per sé stessi, per gli altri e per il luogo in cui si trovano, a comprenderlo, e a un certo punto anche a plasmarlo in qualcosa che assomiglia alla passione di apprendere. Non senza difficoltà, senza scontri, e naturalmente dovendo subire l’ostracismo dei colleghi e della dirigenza, che non comprendono il motivo di tanto interesse per questi ragazzi già destinati alla strada. Tutti apparentemente senza nessuna tenerezza nei confronti del mondo.
Tenerezza che invece tireranno fuori a poco a poco, grazie a quel maestro che cercherà ogni giorno di trovare il modo per farli avvicinare all’idea che la scuola può contenere la vita. La loro vita. Riuscirà a farlo partendo dal loro contesto, cercando di arrivare a estrapolare argomenti che poi diventeranno materie di studio.
Bernardini cerca infatti di reinventarsi una scuola che sia interessante e vitale e mai di rinchiudere la sua classe dentro i programmi tradizionali che li vuole seduti, zitti e obbedienti, capaci solo di ripetere la lezione a memoria per avere un buon voto. La scuola delle punizioni, ma soprattutto delle sospensioni facili utilizzate per “ripulire l’ambiente”. Cerca piuttosto di liberare i suoi ragazzi da quell’idea sbagliata di scuola, aiutandosi e ispirandosi alla pedagogia attiva di Célestin ed Elise Freinet, fondatori del Movimento di Cooperazione Educativa.
E ci riesce: quasi tutti i suoi alunni, infatti, troveranno la strada per poter stare dentro l’istituzione sentendosi finalmente accettati per quello che sono e che possono dare3.
Un libro così (che io ho recuperato da un cestino dell’immondizia, qualche anno fa) non poteva non suscitare l’attenzione di un regista interessato e presente alle problematiche della scuola come Vittorio De Seta. Lo stesso che, qualche anno più tardi, si occupò di girare la famosa serie: Quando la scuola cambia sempre con la consulenza pedagogica di Francesco Tonucci. Lo scopo era quello di rappresentare quattro esperienze di rinnovamento della scuola italiana, distribuite da nord a sud. Il primo episodio fu dedicato a una piccola classe di Vho di Piadena; il maestro di quei bambini era Mario Lodi e la puntata si intitola: Partire dal bambino.4
De Seta decide quindi di girare anche un film-verità ispirato al libro di Bernardini e lo intitola: Diario di un maestro. Dopo diversi provini (il regista desiderava che fosse un maestro vero e proprio a interpretare il protagonista) alla fine scelse l’attore Bruno Cirino che impersonificò in modo eccellente il maestro Bruno D’Angelo. Non fu facile girare il film, per diversi motivi. Il primo: perché invece di ricreare un set cinematografico si scelse di utilizzare una vera aula di scuola; il secondo: perché il film fu girato con una telecamera 16 mm, da tenere in spalla per tutto il tempo; il terzo: perché l’ambiente classe, così come era strutturato nella scuola tradizionale (lo vediamo all’inizio del film) non permetteva a nessuno di muoversi agilmente. Inoltre Bruno Cirino che era un magnifico attore ma di educazione e didattica non sapeva quasi nulla, dovette avvalersi del costante aiuto e delle indicazioni pedagogiche del maestro Francesco Tonucci. E grazie alla sua raffinata sensibilità riuscì a entrare nella parte in modo sorprendente, tanto che il film, costruito giorno per giorno, quando finalmente uscì, fu seguito da 15 milioni di spettatori.
La scelta fondamentale è che non abbiamo fatto un film; in realtà abbiamo fatto una scuola e l’abbiamo filmata. La mia posizione è stata di modestia assoluta. La scuola d’avanguardia si basa sull’interesse dei ragazzi. Fare un film su una scuola che non deve essere nozionistica, che non deve essere “insegnata” automaticamente diventa un film che non può essere “interpretato”.
(Vittorio De Seta, tratto da Il mondo perduto, di G. Fofi e G. Volpi, Lindau 1999)
Cosa colpisce di Diario di un maestro5? Sicuramente il fatto che Bruno D’Angelo si occupa realmente dei suoi ragazzi. Il primo giorno di scuola, quando arriva e scopre che metà classe, invece di essere in aula, è fuori a lavorare o in giro per la strada, decide di andare a cercarli aiutato dalle indicazioni dei pochi presenti. Comincia così, fuori dalla scuola, l’avventura di questo maestro che vuole recuperare a uno a uno i suoi studenti, recandosi nelle loro case per vedere dove vivono e per conoscerne le famiglie. Realizza un esempio di scuola che non cura i sani e respinge i malati, tutt’altro. Propone attività inusuali, sposta i banchi e li raggruppa, toglie la cattedra, costruisce terrari e acquari, utilizza il complessino tipografico per stampare il giornale di classe, ma soprattutto dà loro una voce. Li ascolta, sempre. Ed è così che riesce a capire come muoversi nel marasma inziale che quella esperienza gli porta incontro. Sono i ragazzi stessi a offrire gli strumenti per capire in che direzione andare. Sa assumersi, ogni giorno, la responsabilità e gli oneri di tutto ciò che questo comporta: il primo, tra tutti, quello di vivere questa bellissima e difficile esperienza da solo, senza nessun supporto da parte dei colleghi. Così come era successo a Mario Lodi, a Don Milani, e forse anche a qualcuno di coloro che stanno leggendo queste righe. Maestri, professori, educatori che capiscono perfettamente ciò di cui si parla e soprattutto come ci si sente. Lasciamo la parola dunque al maestro:
La scuola, sì, può fare molto. Ma non la scuola di Pietralata. Non la scuola del direttore miope e avaro di contatti umani, che cerca di risolvere i più delicati problemi dei rapporti con le famiglie come un incallito poliziotto. Non la scuola del secondo direttore che ha terrore della politica come della peste. Non la scuola dei maestri che pensano solo a fuggire, senza curarsi di conoscere, di indagare prima di agire nei confronti degli allievi; che si servono della sospensione come il domatore della frusta. Ebbene, quella non poteva essere la scuola di quei bambini. Non poteva essere la scuola di Beppe, bizzarro e sfrenato come un puledro di prateria, abituato a spaziare a piacere; non quella di Luciano, Buono, ma malata di nervi; di Roberto, esuberante e cocciuto; di Sandro, capriccioso e terribilmente elettrizzato; del nanetto, riflessivo ma incapace di acquisire Rapidamente nozioni astratte. Di una nuova scuola avevano bisogno. Questo è quello che ho cercato di dare nei due anni che ho trascorso fra loro: una scuola in cui si sentissero innanzitutto loro stessi, con la loro libertà, il desiderio sfrenato di fare, di realizzare; una scuola in cui fossero loro a cercare e trovare, a dare sfogo alla curiosità di conoscere il sapere, senza sentirsi strumenti della volontà altrui. (…). In quale misura questo fervore di vita, di attività, di lotte e contrasti, che continuamente si rinnovano nel progredire, abbia potuto contribuire alla formazione del loro domani, non è facile dirlo. Del resto mai mi sono posto una prospettiva così lontana, data la brevità del tempo a disposizione e il mite di un solo anno. L’esempio di Nunzia e Luciano della classe di semi recupero prima, e di Carletto dopo, mi incoraggiarono a credere che molto si poteva fare anche nei casi più disperati. Guardando oggi, con il distacco che la distanza del tempo impone, mi pare di poter dire serenamente, alla luce dei fatti, che la strada seguita sostanzialmente corrispondeva la realtà del momento. Al fondo delle mie convinzioni stava, e sta oggi, la volontà di guardare alla realtà, così come si presenta. In tutta la sua crudezza. Sognare una scuola modello, dove tutto è predisposto, fissato in anticipo, è stato il grossolano errore di quei colleghi che confrontavano la scuola di Pietralata con quelle del centro, senza però accorgersi che dietro la facciata dell’atteggiamento composto del bambino della famiglia “bene” del centro, insorgevano altri problemi, e non meno scabrosi. È da questo accostamento semplice e acritico che vedeva gli aspetti più appariscenti da una parte e negativi dall’altra che scaturisce la ingenua conclusione del “qui tutto male e là tutto bene”. Certo, per chi limita la sua funzione educativa il semplice puro insegnamento di nozioni, il confronto non regge. Ma chi di questo non si accontenta e vuole dare anche un contenuto ideale al suo lavoro, per agganciarsi ai più elevati principi del vivere umano, cercherà di soppesare le due componenti rallentatrici dello sviluppo del processo educativo. Fra il sordo conformismo e l’esasperato individualismo che si confonde e nasconde nell’apparente ordine del bambino “bene” e lo slancio generoso e spregiudicato dei piccoli di borgata, io preferisco il secondo, come punto di partenza. Sarà forse perché io amo la gente che non si rassegna al primo infuriare dei venti.
(Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, 1968)
Note
- Qui l’articolo: Mario Lodi e la bellezza di non comandare | Giunti Scuola
- Per approfondire: Home – Movimento di Cooperazione Educativa
- Qui una breve intervista: Albino Bernardini il maestro di Pietralata (Albino e Mirko) – YouTube
- Per vedere alcuni estratti: Home – Casa delle Arti e del Gioco – Mario Lodi
- Il film: Diario di un maestro – RaiPlay
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