Un dittico pucciniano. Parte prima. Un’introduzione storico-critica a Puccini
Rita Belenghi, Un dittico pucciniano. Parte prima. Un’introduzione storico-critica a Puccini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 29, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12074
1. Ouverture
1.1. “La brevità, gran pregio”
(La Bohème, Quadro I, Una soffitta)
Nell’ottobre del 1880 approdò a Milano un giovane non ancora ventiduenne che arrivava dalla provincia toscana. Il giovane si chiamava Giacomo Puccini, nato a Lucca il 22 dicembre 1858, primo figlio maschio di una famiglia che contava ben sette sorelle. Oltre a lui in famiglia c’era un altro fratello che ripeteva nel nome, Michele, quello del padre, scomparso quando quel secondo figlio maschio non era ancora nato.
Alla nascita il destino di Giacomo sembrava già tracciato: da molte generazioni il primogenito maschio dei Puccini occupava il posto di compositore ed organista a Lucca e non c’era ragione di pensare che quel bambino avrebbe deviato dalla strada già tracciata dai suoi avi a partire da almeno due secoli prima. Quando morì suo padre, Giacomo aveva poco più di cinque anni e la mamma, Albina Magi, ancora molto giovane, si trovò improvvisamente a far fronte, da sola, ad una famiglia molto numerosa alla quale stava per aggiungersi l’ultimo figlio del quale era incinta. Albina era anche una donna molto energica, dinamica ed intelligente che non si perse d’animo ed affrontò con coraggio gli eventi. Tra le priorità di Albina c’era la formazione musicale di Giacomo, perciò decise, in prima battuta, di affidare il figlio alle cure del proprio fratello, Fortunato Magi, insegnante presso l’Istituto Pacini di Lucca. Evidentemente lo zio ed il nipote non avevano quella che si suole chiamare una buona sintonia perché Fortunato non vedeva nel bambino alcuna scintilla di talento e crollava sconsolato il capo alle richieste della sorella sui progressi del figlio. Albina, con fede incrollabile nel talento di Giacomo, decise allora di far cambiare insegnante al figlio e lo affidò a Carlo Angeloni, anch’egli insegnante al Pacini.
Correva l’anno 1873 quando Giacomo Puccini cominciò i suoi studi sotto la guida di Angeloni, con il quale le cose andarono decisamente meglio, tanto che i progressi non tardarono ad arrivare. Nel contempo, Giacomo aveva seguito una Bildung ben più completa di quella necessaria alla formazione di un musicista: sempre per volere della lungimirante Albina, frequentò prima il seminario di San Michele, poi quello di San Martino conseguendo, sempre nel 1873, un’educazione di tipo umanistico corrispondente più o meno a quella fornita da un attuale ginnasio. In quegli anni Puccini cominciò a svolgere un’intensa attività come organista nelle chiese di Lucca e del circondario ed anche come pianista nei locali delle cittadine di villeggiatura alla moda, come Bagni di Lucca. In particolare, Giacomo frequentava il Caffè Caselli, del cui proprietario, Alfredo Caselli, divenne intimo amico; quel locale costituì ben presto un punto di ritrovo di artisti e intellettuali ed era frequentato anche da Pascoli che, in quegli anni, aveva preso una casa nella vicina Barga.
L’influenza di Carlo Angeloni su Giacomo Puccini fu particolarmente significativa anche perché sembra che sia stato proprio lui a far conoscere al suo giovane allievo l’opera lirica sottoponendo alla sua attenzione alcune tra le più importanti partiture verdiane.
Alla fine dell’Ottocento, come risaputo, Verdi costitutiva per i giovani allievi di musica un modello assoluto quanto a grandezza e perfezione, nonostante i giovani esponenti della Scapigliatura milanese avessero sollevato critiche dure e dubbi sul magistero verdiano. Tali critiche, però, vennero ben presto superate, prova ne sia il fatto che Arrigo Boito stava per dedicarsi alla stesura dei libretti delle ultime due opere di Giuseppe Verdi, Otello e Falstaff. Nel 1876, assieme ad alcuni amici, Puccini si recò a Pisa per assistere ad una rappresentazione di Aida di Giuseppe Verdi: l’effetto che quella rappresentazione provocò in lui somigliò a un’autentica folgorazione, che lo fece molto riflettere sul futuro, che era comunque ancora tutto da costruire perché, prima di tutto, c’erano gli studi al Pacini da completare e c’erano, per dovere scolastico, le prime composizioni da produrre; naturalmente, si trattava di produzioni molto lontane dal mondo dell’opera lirica e molto vicine, viceversa, alla musica sacra.
Le sue prime composizioni di carattere liturgico confluirono molto probabilmente nella Messa per quattro voci eseguita per la prima volta nell’estate del 1880. La Messa si colloca nell’ambito delle produzioni di musica sacra di cui l’Ottocento italiano, nei suoi ultimi decenni, fu particolarmente ricco perché sotto la spinta di analoghe produzioni in Europa anche in Italia si tentò di riscoprire la composizione di musica sacra ad alto livello. La Messa aveva comunque il merito di aver dimostrato ai lucchesi che, a dispetto delle preoccupazioni e delle crollate di capo dello zio Magi, anche l’ultimo Puccini era un degno erede della dinastia da cui discendeva, ma aveva anche fatto capire a Giacomo che Lucca non poteva dargli ormai niente di più: il diploma al Pacini era stato conseguito e, con esso, le basi sulle quali costruire la possibilità di entrare nel mondo al quale aspirava, quello che, dopo la visione di Aida, aveva deciso che sarebbe stato il suo mondo; una città di provincia, nondimeno, era troppo piccola per dar corpo a un sogno così grande: occorreva perciò proseguire gli studi in un luogo ove i sogni potevano diventare realtà, e quel luogo era Milano.
A questo punto, per superare le difficoltà economiche che si presentavano all’orizzonte si mobilitò, ancora una volta, l’energica Albina. Le strade che ella seguì furono due: la prima fu trovata in famiglia, della quale faceva parte un parente di Michele Puccini senior, Nicolao Cerù, medico e scapolo più che benestante, il quale era rimasto positivamente colpito dalle composizioni di Giacomo, in particolare dalla Messa. Il dottor Cerù era favorevole al fatto che Giacomo proseguisse gli studi musicali e si disse pronto ad aiutarlo economicamente. La seconda strada seguita da Albina fu quella di inviare una petizione alla regina Margherita “madre di tutti i poveri”, perché intervenisse in aiuto di una madre ansiosa di dare un futuro ad un figlio promettente e dotato. La risposta della regina si fece attendere e Albina dovette ricorrere alla marchesa Pallavicini, dama di corte della sovrana, affinchè fungesse da tramite. Finalmente Sua Maestà rispose alla petizione di Albina concedendo a Giacomo una borsa di studio di 100 lire al mese per un anno di studio in Conservatorio. Dal momento che l’intero corso durava tre anni, il buon Cerù si impegnò a pagare gli altri due.
Ed ecco Giacomo Puccini arrivare a Milano, dove fece domanda per essere ammesso a frequentare il Conservatorio. L’esame di ammissione fu superato senza difficoltà, il giovane possedeva una buona preparazione, apprezzata dalla Commissione che lo esaminò e lo accettò come allievo del corso triennale di perfezionamento sotto la guida prima di Bazzini e poi di Ponchielli.
In quegli anni Milano era uno dei centri culturali più importanti d’Italia e d’Europa, ove confluivano intellettuali da ogni parte del Regno: letterati ansiosi di collaborare con la casa editrice Treves, musicisti che bussavano alle porte dei tre grandi editori Ricordi, Sonzogno, Lucca. Tra le case editrici c’era una rivalità accesa, in particolare tra Ricordi, editore di Verdi, e Lucca, che si era accaparrata la rappresentanza di Wagner in Italia. Milano vantava ben quattro teatri, Scala, Dal Verme, Manzoni e Castelli, in cui annualmente si teneva una superba stagione operistica, e tanti salotti della ricca borghesia nei quali ferveva una ricca vita intellettuale.
Le occasioni offerte ad un giovane da una città come Milano erano tante e Puccini si immerse con entusiasmo in un ambiente che gli avrebbe insegnato come muoversi in un mondo così diverso da quello della sua città di provincia. Indubbiamente Giacomo era un ragazzo piacevole, intelligente e simpatico, gradito ai suoi insegnanti per lo zelo e le doti, gradito nei salotti dove veniva ricevuto volentieri, nonostante possedesse un vestito solo, dai rappresentanti di maggior spicco della Milano intellettuale, dai Treves, dai Marchi, dalla signora Giovannina Lucca, sempre in cerca di nuovi talenti da lanciare sulle strade di una musica rinnovata. Soprattutto Giacomo frequentava la Scala, anche se non entrava dalla porta principale, ma doveva ricorrere a qualche piccolo trucco, perché i soldi a sua disposizione erano pochi ed ogni spesa doveva essere ben ponderata.
Da Lucca Albina seguiva con attenzione la vita del figlio a Milano e ogni tanto scriveva a Bazzini e Ponchielli non solo per avere notizie sui risultati scolastici di Giacomo, ma anche per avere la rassicurazione che gli illustri maestri si sarebbero occupati del futuro del figliolo anche dopo il diploma e avrebbero cercato di aiutarlo a sistemarsi nel lavoro. Le notizie che giungevano dal Conservatorio erano buone: Giacomo studiava, lavorava bene, progrediva nella composizione anche se trascurava un po’ troppo gli studi accessori e Ponchielli, in una lettera del 1883, quando Giacomo era all’ultimo anno, rassicurava Albina scrivendole tutto il proprio impegno per aiutare Giacomo dopo il diploma.
Fra qualche attacco di nostalgia e le difficoltà economiche sopraggiunte alla fine del primo anno di corso, quando terminò l’erogazione della borsa di studio concessa dalla sovrana d’Italia1, gli anni del Conservatorio furono anni felici, specie perché il giovane Puccini non era solo: a Milano c’era Alfredo Catalani, anche lui lucchese, che, giunto a Milano cinque anni prima, era già entrato nella scuderia di Casa Ricordi e da lì dava una mano al suo concittadino; poi, nel 1882, in primavera, arrivò anche un terzo toscano, un livornese diciannovenne di nome Pietro Mascagni, che portava in dote una gran sicurezza nelle proprie possibilità e uno spirito quasi guascone.
Catalani lavorava già in teatro, Puccini e Mascagni lo seguiranno sulla stessa strada: è sul palcoscenico dell’opera che si conquistano fama e ricchezza, ma l’opera “alla moda”, come già rilevava con preoccupata irritazione l’anziano Verdi, tendeva allo strumentale. Puccini, già molto attento e sensibile alle variazioni del gusto, avvertiva bene da quale parte soffiasse il vento e, a differenza di quanto aveva fatto Catalani, per il saggio di diploma non presentò, secondo l’uso, una cantata ma un Capriccio sinfonico, con cui si impose all’attenzione dell’ambiente musicale: Franco Faccio ne fu entusiasta e lo diresse; il più autorevole critico musicale d’avanguardia, Filippo Filippi, ne scrisse una recensione molto positiva sulla “Perseveranza”, la Casa Lucca pubblicò il lavoro in una riduzione per pianoforte a quattro mani.
Terminati gli studi, il giovane maestro rientrò a Lucca ma, sulla scia del successo ottenuto con il suo saggio di diploma, cominciò subito a pensare alla composizione di un’opera. Nell’aprile del 1883 l’editore Sonzogno aveva bandito un concorso per un’opera in un atto unico riservato a musicisti esordienti. Come premio per il vincitore erano previste una somma in denaro, circa duemila lire, e la rappresentazione dell’opera in teatro. La consegna del lavoro doveva avvenire entro la fine dell’anno. Il problema era trovare un libretto, ma in tal senso intervenne il paterno Ponchielli che, nell’estate del 1883, presentò a Puccini il poeta milanese Ferdinando Fontana, molto vicino alla Scapigliatura, che si dichiarò disponibile a collaborare per il libretto.
Fontana, tra le cui virtù culturali c’era quella di conoscere il tedesco, propose a Puccini un soggetto derivato da una fonte francese quasi contemporanea, Les Willis, una novella di Alphonse Karr, un giornalista amico di Alfred de Musset, che a sua volta l’aveva ricavata da una leggenda popolare dell’Europa centrale. La storia aveva come protagonisti gli spiriti di fanciulle tradite ed abbandonate che danzano nella notte e guai all’amante infedele che le incontra perché dovrà danzare con loro fino alla morte.
La versione classica della novella era stata ripresa da Théophile Gautier per il balletto di Adam Giselle ou Les Willis : una fanciulla di paese corteggiata dal figlio del principe del luogo, già fidanzato, impazzisce e muore di dolore quando scopre l’inganno. Quando lui, di notte, visita la tomba della fanciulla, si trova improvvisamente circondato dagli spiriti delle fanciulle e la loro regina decreta che egli danzerà con loro fino a che la sua vittima non lo trascinerà con sè. Ma l’amore di Giselle lo sostiene sino alla fine e gli salva la vita, mentre la fidanzata lo perdona.
L’approccio di Karr alla vicenda è più realistico e macabro, l’ambientazione è in un villaggio della Foresta Nera governato dal capo delle guardie della foresta, Wulf, la cui figlia, Anna, è fidanzata con Heinrich. Costui un giorno parte per far visita a uno zio ricco e malato che abita a Mainz; la sua visita non solo fa ristabilire lo zio ma, poiché egli ha una figlia molto bella e tutta la famiglia desidera il matrimonio tra i due cugini, Heinrich accetta di buon grado le nozze. Il giorno del matrimonio è funestato dall’arrivo del fratello dell’infelice Anna, Konrad, che insulta Heinrich con tutta la veemenza di cui è capace, si batte in duello con lui e torna a casa ferito mortalmente. Consumata dal dolore, anche Anna muore, mentre il padre invoca la vendetta sull’assassino dei suoi figli. Passa un anno ed Heinrich, che la morte dello zio ha reso l’uomo più ricco di Mainz, ha comprato un castello non lontano dal suo villaggio natale. Una notte, tornando più tardi del solito da una battuta di caccia, sente da lontano voci e suoni che gli ricordano le danze del suo villaggio e, attirato da quel suono, si ritrova in una radura circondato da fanciulle bellissime che danzano. Una di loro, con il viso e l’aspetto di Anna, gli tende le braccia e cominciano a danzare. La mattina dopo il cadavere di Heinrich viene ritrovato nella radura.
Adattando la storia per un atto unico, Fontana concentrò l’azione in due momenti: la partenza di Heinrich, ribattezzato Roberto per ragioni di cantabilità, per Mainz e il suo ritorno nella foresta per la danza mortale. Il personaggio di Konrad fu eliminato e lo zio ricco diventò una zia, morta prima dell’alzata del sipario, della quale Roberto è l’unico erede. A Mainz Roberto cade sotto l’incantesimo di una “sirena” locale con la quale dilapida tutti i beni ereditati e quando torna al villaggio, poverissimo e pieno di rimorsi, ogni suo pentimento è inutile: Anna, ormai diventata Villi, è risoluta a vendicarsi.
Puccini ebbe il libretto in settembre e si mise al lavoro per musicarlo riuscendo a consegnarlo nei tempi previsti. All’inizio di aprile furono annunciati i vincitori ma delle Villi nemmeno una parola2. Fontana non si dette per vinto e fece di tutto per aiutare Puccini e anche se stesso, visto che il suo nome era legato a quell’opera. Tra le sue conoscenze c’era il giornalista Marco Sala e proprio in casa sua Fontana organizzò una serata nella quale Puccini potesse eseguire la propria musica davanti a un pubblico scelto di cui facevano parte Arrigo Boito, Catalani e l’immancabile Giovannina Lucca. Il pubblico si pronunciò in favore di Puccini e contro il giudizio della giuria; Fontana si impegnò a lanciare una pubblica sottoscrizione per far rappresentare le Villi al Teatro Dal Verme e Boito aprì la sottoscrizione con 50 lire, la nona parte del costo presunto. La rappresentazione ebbe luogo al Dal Verme il 31 maggio 1884 all’interno di una locandina di soli tre titoli ed il successo fu enorme: diciotto chiamate per l’autore e le rappresentazioni, che diventarono quattro con tanto di corona d’alloro offerta a Puccini dall’impresario dopo l’ultima recita.
I personaggi delle Villi sono tre: Guglielmo Wulf, sua figlia Anna e il fidanzato fedifrago Roberto; c’è anche un quarto personaggio, la cui presenza è decisiva, la “sirena di Magonza”, la seduttrice che intrappolerà l’ingenuo Roberto, costringendolo a dilapidare per lei tutta la fortuna ereditata dalla zia. In questo primo libretto pucciniano è assente la ricerca di verosimiglianza psicologica dei personaggi, ancora costruiti secondo stereotipi convenzionali ed in essi strettamente rinchiusi: sia Roberto che Anna obbediscono al modello del “tragico amoroso”, che impedisce all’autore di sviluppare le loro caratteristiche peculiari. Il giovane, sempre vissuto nel suo borgo di montagna, secondo la cultura che regola le esistenze di tutti gli abitanti, rompe lo schema ed inevitabilmente la sua incursione urbana lo rende preda di due miraggi peccaminosi: la disponibilità di denaro in quantità abbondante e una donna che incarna la disponibilità sessuale offerta all’uomo affinchè ne goda. Anna, la fidanzata, per contro, sembra non poter uscire dal modello della vergine pura, pura quanto lo sono le atmosfere di montagna.
Prima di uscire dal villaggio, Roberto confessa di aver amato Anna ma fino a quel momento ella rappresenta l’unico modello di femminilità accettabile e condivisibile, perché frutto della medesima cultura; al di fuori di quella Roberto entra in una dimensione caleidoscopica e destabilizzante i cui esiti sono il sentimento della colpa ed il conseguente desiderio di espiazione. Guglielmo Wulf, il padre di Anna, un personaggio paterno di statura ottocentesca, quasi verdiana, è colui che invocando le Villi impedisce a Roberto, colpevole della morte di Anna che, leopardianamente, cessa di soffrire per amore “al cader del verno”, di farla franca. Roberto muore trascinato nel vortice della danza dalle Villi, prima vittima del dilemma che non ha soluzione tra le vergini e le sirene, conflitto drammatico centrale in tutta la librettistica pucciniana, che oppone le ragioni del maschile a quelle del femminile.
Il 1884 fu un anno cruciale per Puccini: il grande successo delle Villi trovò il proprio amaro contraltare nella morte di Albina. Con lei Puccini perse un saldo punto di riferimento: la madre era stata la prima persona a credere in lui e nel suo talento, si era spesa in ogni modo per quel figlio di cui aveva intuito le grandi potenzialità e dal figlio era stata ricompensata con un amore assoluto, forse l’unico di cui Puccini sia stato capace in vita sua, perché quell’amore non gli chiedeva che di lasciarsi amare ed ogni contropartita era accolta come un dono, non pretesa come un dovere. La morte di Albina lo privava del paradiso dorato del fanciullo e lo proiettava nelle responsabilità sentimentali dell’adulto che Puccini, tuttavia, non sarà mai in grado di assumersi. Fortunatamente il successo delle Villi aveva attirato su di lui l’interesse di Giulio Ricordi in persona il quale, pochi giorni dopo la prima dell’opera, aveva invitato Puccini nel suo ufficio proponendogli di acquistare i diritti dell’opera, a patto che la stesura fosse riveduta ed ampliata in due atti perché facesse “serata”, e dandogli l’incarico di scrivere una seconda opera per la Scala con uno stipendio di 300 lire al mese per un anno. L’anticamera di Puccini non durò molto, appena il tempo del corso in Conservatorio, ma con la celebrità arrivarono anche le critiche, le accuse di sinfonismo, descrittivismo, wagnerismo, seguite dal clamoroso fiasco della nuova versione in due atti delle Villi al San Carlo di Napoli nel 1885. Giulio Ricordi aveva investito molto su Puccini, anche perché era necessario trovare un erede degno al maestro Verdi, che era un grande vecchio ma che frapponeva interminabili silenzi ai propri capolavori. Ricordi si spese in un meticoloso lavoro di promozione di Puccini, dimenticando poco alla volta tutti gli altri autori e combattendo strenuamente gli autori di casa Sonzogno. La pretesa di Ricordi di una grande opera da parte di Puccini dimostrava come egli non avesse inteso che l’astro nascente del melodramma italiano, che egli aveva elevato al rango di erede di Verdi, era profondamente diverso dal suo predecessore: Ricordi avrebbe continuato ad aspettare dal suo protetto una nuova Aida, oppure una tragedia dannunziana, ma restò sempre deluso dalla poetica delle piccole cose tanto cara, invece, a Puccini.
A Milano Puccini lavorava intanto alla nuova opera, Edgar, sempre su libretto di Fontana. Il libretto si basava su un testo non destinato alla rappresentazione scenica ma ugualmente scritto in forma di dramma: La coupe et les lèvres (1832) di Alfred de Musset. Fontana ne utilizzò soltanto un paio di motivi spettacolari dal punto di vista scenico e si curò poco del significato romantico e, lato sensu, simbolista dell’originale.
Puccini ebbe il libretto nel maggio del 1885 e, diversamente dalle Villi, composte in pochi mesi, con Edgar dovette affrontare problemi drammaturgici e musicali tali che impiegò ben quattro anni per trarne un’opera. Nel frattempo mentiva a tutti, specialmente a Ricordi che chiedeva incessantemente notizie del lavoro e minacciava, viste le lungaggini, di revocargli lo stipendio mensile che continuava a corrispondergli. C’è da dire, a parziale discolpa, che dopo la morte della madre Puccini era diventato il capofamiglia, un ruolo che non gli era affatto congeniale e, se le sorelle erano ormai tutte sistemate, doveva comunque provvedere al fratello minore, Michele, entrato anch’egli come studente in Conservatorio a Milano.
La prima rappresentazione di Edgar ebbe luogo alla Scala il 21 aprile 1889; il cast era decisamente di spicco: diretto da Franco Faccio con Gregorio Gabrielesco, famoso per la sua prova in Gioconda e degno sostituto di Tamagno – sul quale Puccini aveva sperato nel ruolo eponimo – con Aurelia Cattaneo nel ruolo di Fidelia e con Romilda Pantaleoni, il grande soprano che aveva “inventato” il ruolo di Desdemona, in quello di Tigrana. Si sperava in un successo, anche avallato dal grande battage pubblicitario di Ricordi sulla sua “Gazzetta Musicale”, ma non fu così: se i critici spesero parole benevole sottolineando i progressi compiuti dal musicista rispetto alle Villi, il pubblico rimase freddo. Ci furono anche giudizi duri, che però Ricordi cercò di vedere positivamente secondo il principio per il quale l’ostilità era comunque meglio dell’indifferenza.
Né Ricordi né Puccini, però, si facevano illusioni: l’opera non era riuscita e bisognava fare qualcosa per rimediare. Puccini la rivide più volte e in modo così incisivo come non avrebbe più fatto nei suoi lavori seguenti. Come che sia, Edgar non fu più rappresentata fino al 5 settembre 1891, quando risultò l’opera di punta per la stagione autunnale del Teatro del Giglio a Lucca, ove andò in scena ben tredici volte con grande successo di pubblico.
Non ancora contento, Puccini sacrificò il quarto atto, e l’opera in tre atti andò in scena il 28 gennaio 1892 a Ferrara con un cast modesto, poi a Madrid, il 19 marzo dello stesso anno, con grande successo. Ma Puccini non aveva ancora finito con Edgar. Nel 1901 considerò addirittura l’ipotesi di tagliare tutto il secondo atto e di recuperare, con alcune modifiche, il quarto, ma poi non ne fece nulla. L’edizione definitiva, ottenuta accorciando la versione in tre atti del 1892, fu preparata nel 1905 in occasione del debutto a Buenos Aires; Puccini che, secondo il suo solito, era presente, scrisse: “Edgar, iersera, poco poco. È una minestra riscaldata, l’ho sempre detto. Ci vuole un soggetto che palpiti e ci si creda, non le panzane.”3.
La vicenda di Edgar è ambientata nelle Fiandre, nel 1302, anno della battaglia di Courtray tra francesi e fiamminghi. Edgar è combattuto fra il puro amore di Fidelia e la passione per la sensuale Tigrana, abbandonata bambina da nomadi mori e allevata dal padre di Fidelia. Di lei è innamorato anche Frank, il fratello di Fidelia, ma Tigrana lo respinge.
Una domenica Tigrana scandalizza gli abitanti che escono da messa cantando una canzone impudica; essi la minacciano e in suo soccorso giunge Edgar che, nell’ira, brucia la propria casa e fugge con Tigrana. Frank lo sfida in duello ma rimane ferito. Quasi subito Edgar si pente del suo gesto e della fuga, rimpiange Fidelia e si unisce a un gruppo di soldati di passaggio nel capitano dei quali riconosce Frank, col quale si riappacifica, mentre Tigrana giura vendetta. Si celebra una messa di requiem per Edgar, che tutti credono morto quando, improvvisamente, un monaco sconosciuto svela i crimini orrendi dei quali, a suo dire, Edgar si sarebbe macchiato in vita. I soldati si lanciano contro la bara di Edgar per farne a pezzi il corpo e gettarlo in pasto ai corvi, ma la bara contiene solo un’armatura vuota. Il monaco svela la propria identità: è Edgar in persona e Fidelia si lancia tra le sue braccia, ma è pugnalata a morte da Tigrana.
Dopo la fiaba nordica e spettrale delle Villi, con il libretto di Edgar Fontana propone la trama di un grand-opèra, che gli Scapigliati tradurranno in opera-ballo, in piena regola, fatta di cori, colpi di scena, grandi masse umane, sommosse e battaglie, orchestra e ballo. All’eterogeneità di Edgar contribuisce anche la straordinaria impressione prodotta su Puccini dall’Otello di Verdi mentre, a partire dal 1892 Puccini deve fare i conti con il terremoto provocato da Cavalleria Rusticana e da Pagliacci, nonché confrontare il suo opera-ballo – influssi di Carmen e Otello compresi – con l’opera cosiddetta verista e con il suo linguaggio, fatto di elementi emotivamente forti inseriti in un’azione svelta, priva degli spunti su cui poggia l’opera-ballo.
Con Cavalleria e Pagliacci e le loro trame snelle viene meno il gusto per i concertati estesi; preludio e ouverture, ancora, diventano un peso e finisce la stagione delle opere di gusto nordico fiabesco, l’attimo fuggente che le Villi avevano colto pienamente. L’intreccio, pur tenue, delle Villi ha una sua tenuta teatrale, a dispetto del linguaggio scapigliato di Fontana, mentre Edgar è più incoerente, a cominciare dal libretto tratto da un dramma concepito per la lettura e non per il teatro, non importa se di musica o di parola.
Secondo il costume ottocentesco, sia nelle Villi sia in Edgar c’è ancora la lotta fra il bene e il male e, se nella prima opera il bene riesce vittorioso, nella seconda è invece il male ad avere il sopravvento. In questo dissidio, Puccini da sempre non si riconosce, tanto che abbandonerà ben presto la speculazione sul profondo, decisivo problema morale: per il Nostro, di fatto, la morte è una legge di natura e la natura è al di là del bene e del male, è semplicemente. Anche l’amore vira nell’immedesimazione con l’eros che si appaga in se stesso.
Non è un caso che, nel corso delle diverse revisioni dell’opera, il personaggio di Tigrana, unico caso di mezzosoprano protagonista nell’universo pucciniano, perda sempre più spessore a favore di Fidelia, non personaggio ma “occasione lirica” che anticipa i personaggi femminili delle opere seguenti: Tigrana nasce come personaggio verdiano, come figlia di Abigaille o di Azucena, e prendere le distanze da lei significa, nella piena coscienza drammaturgica che Puccini ha di se stesso, prendere le distanze dal mondo verdiano sentito sempre più estraneo. Tigrana ha un merito, però: nel suo essere malvagia, nel suo apparire impudica e sguaiata mentre canta sulle note dell’organo che in chiesa ha accompagnato le devozioni dei paesani, nel rappresentare il profano sullo sfondo del sacro, anticipa e prefigura Scarpia, con il quale ha molto in comune, sia come tratti psicologici sia come accenti musicali.
Con tutti i suoi limiti, con tutta la sua fragilità costituzionale ed il suo cammino accidentato e mai risolutivo, Edgar fu tuttavia un’esperienza salutare per Puccini, giacché lo costrinse non solo a misurarsi con un’opera di vaste proporzioni, ma a tentare addirittura l’impossibile per supplire con la musica alle carenze della vicenda. Nel chiudere, dopo quell’esperienza, la collaborazione con Fontana, che comunque non capì le ragioni di quella decisione, e nell’aprire quella con i molteplici librettisti dell’opera successiva, Manon Lescaut, Puccini farà tesoro di quell’esperienza e così, se non ci sono dubbi che Edgar sia stato un insuccesso teatrale, altrettanto innegabile è che sia proprio quell’opera – l’unica di tutta la produzione a non esser mai stata tradotta, e che l’autore stesso, del resto, non amò mai4 – a rappresentare un momento importante del suo progredire come musicista e come drammaturgo.
1.2. “In quelle trine morbide”
(Manon Lescaut, Atto II)
Il libretto di Manon Lescaut, la cui prima rappresentazione si tenne al Teatro Regio di Torino il 1° febbraio 1893, non reca sul frontespizio alcuna indicazione quanto alla sua paternità letteraria. Vi misero mano ben sette uomini che furono quasi tutti compagni di viaggio del Puccini maturo, e il travaglio che le fasi della stesura dovettero affrontare pare simbolicamente segnare un passaggio cruciale: dei dodici libretti pucciniani questo segna l’abbandono di Ferdinando Fontana e, con lui, di un Ottocento dal sapore ancora verdiano, ove il contrasto tra celestiale virtù e diabolico vizio, traccia del grande modello goethiano di Margherita ed Elena, si cristallizzava in Anna e Fidelia da un lato, nella “sirena di Magonza” e Tigrana dall’altro.
Immediati antecedenti della scelta del grande soggetto settecentesco furono i contatti con Giuseppe Giacosa, alfiere della commedia borghese, che propose un argomento di ambientazione russa, e con Marco Praga, figlio dello scapigliato Emilio, che, forse incoraggiato dal successo di Otello e Falstaff, aveva suggerito come argomento le vicende dei vari Enrico shakespeariani. Sembra, però, che proprio dal negletto Fontana fosse partito, nel 1885, il suggerimento di trarre un’opera dal romanzo di Prévost L’histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut, pubblicato nel 1731, ma celebre soprattutto nell’età romantica. Il soggetto aveva avuto molto successo, tanto che nel corso dell’Ottocento ne erano stati ricavati ben quattro lavori teatrali, e dal romanzo di Prévost era già stata tratta da Jules Massenet un’opera intitolata Manon, rappresentata a Parigi nel 1884.
Il primo ad occuparsi della stesura del libretto fu probabilmente Ruggero Leoncavallo, ancora indeciso tra un futuro da letterato oppure da musicista, che maneggiò quel soggetto senza troppa convinzione. A lui si sostituì Marco Praga, al quale Puccini si era rivolto sulla scia di un lavoro teatrale del 1890, intitolato La moglie ideale, portato al successo dall’interpretazione di Eleonora Duse. Convinto delle capacità teatrali di Praga, Puccini lo aveva pregato di occuparsi di Manon promettendogli che avrebbe potuto avvalersi della collaborazione di un poeta di sua fiducia. Il prescelto fu Domenico Oliva che da poco aveva pubblicato un fortunato volume di poesie. Scaltrito dalla collaborazione con Fontana, Puccini cominciò a trovare da ridire sulla stesura di Praga e Oliva: egli aveva preso l’abitudine di lasciar lavorare un poco i librettisti e poi di esaminare corposi blocchi del loro lavoro e questo sistema, se creava l’occasione per una dialettica di più ampio respiro, nascondeva però il rischio del rifiuto del lavoro di mesi.
I due poeti consegnarono a Puccini il libretto nell’estate del 1890, ma il musicista, in una lettera spedita a Ricordi nel settembre di quell’anno, si dimostrò ben poco entusiasta del lavoro ricevuto. Di fronte alle critiche Marco Praga, infastidito, abbandonò l’intrapresa, mentre Oliva tenne conto delle osservazioni di Puccini e preparò una nuova stesura, finché, stanco dei continui ripensamenti e delle critiche del musicista, abbandonò a sua volta l’opera in fieri. A quel punto Ricordi decise di rivolgersi a Giacosa, che rifiutò, ma fece contestualmente il nome del piacentino Luigi Illica, che accettò l’incarico; volle tuttavia l’autorizzazione scritta di Praga e Oliva prima di mettere mano alle loro stesure. Gli interventi di Illica furono decisivi, con l’introduzione nel I Atto del Parrucchiere, del Maestro di Musica e del Maestro di Danza e, nel II Atto, della canzone del Lampionaio. La grandiosa scena dell’imbarco, nel III atto, ove fu portato a undici il numero delle prostitute imbarcate con Manon, sembra sia stata suggerita, con gran senso del teatro, dallo stesso Puccini.
La composizione di Manon terminò nel 1892, in autunno, ma già dal maggio dell’anno precedente era ricomparso Giacosa ad affiancare Illica. Complessivamente il lavoro era durato tre anni. Terminato il tutto, si presentò il problema del teatro in cui dare la prima: la Scala era da evitare perché in gennaio avrebbe ospitato l’ultima opera di Verdi, Falstaff, e poi Ricordi voleva evitare Milano, anche perché ricordava molto bene con quale e quanta freddezza vi fosse stato accolto Edgar: temeva, in sostanza, l’atteggiamento del pubblico verso quella nuova opera. La scelta cadde su Torino: nel cast spiccava Cesira Ferrani, nel ruolo di Manon. Fu un successo straordinario: la critica scrisse meraviglie su quell’opera, il cui autore venne salutato come il più probabile erede di Verdi5.
Con Manon Lescaut Puccini prese le distanze dall’impianto valoriale del teatro ottocentesco, dove l’amore aveva anzitutto la valenza etica d’intensificare i valori più decisivi della vita ed era sostenuto da principi morali, da ideali di sacrificio e onestà, al punto da diventare assoluto e, per questo, capace di resistere all’impossibile, così lontano da qualsiasi ipotesi di fisicità da potersi compiere soltanto dopo una morte catartica.
In Puccini la morte nulla ha di catartico, ma è il compiersi di un evento che, per quanto terribile, rappresenta un dato di natura come dato di natura è l’amore, che nel passaggio al XX secolo, non vuole più donne angelicate, e vuole invece farsi pienamente amore senza rinunciare alla dimensione dell’eros – o a nasconderla sotto motivazioni morali. In Manon Lescaut l’eros diventa a-morale e coincide con una passione disperata della quale Puccini era perfettamente consapevole, e che considerava la cifra italiana della sua Manon rispetto a quella di Massenet6, datata Parigi 1884, e data in Italia nello stesso anno di quella pucciniana. La passione disperata prelude, fin dalle prime battute alla catastrofe che si sta ineluttabilmente preparando.
Nel romanzo di Prévost il depravato fratello di Manon, che in Massenet diventa il cugino, era il prototipo del libertino che provoca, incoraggia, aiuta la parabola di Manon e Des Grieux fino alla sua morte in un conflitto a fuoco. La fine di Lescaut era funzionale al giansenismo prévostiano, che esigeva la punizione del colpevole, ma in Puccini scompare, rafforzando la corda tragica e acuendo i contrasti dal I Atto, dove la combriccola dei giovani di cui fa parte il giovane Cavaliere Des Grieux canta e amoreggia.
Il cuore dell’atto è costituito dall’arrivo di Manon, in carrozza, accompagnata dal fratello che deve scortarla in convento dopo una lunga serie di trasgressioni da parte della giovane, e da un occasionale compagno di viaggio, l’anziano e ricco Geronte de Ravoir, “cassiere generale”. La sfolgorante bellezza della diciottenne innesca almeno tre azioni maschili: il fratello è distratto dalla sua passione per il gioco delle carte e così facendo consente la seconda, l’organizzazione da parte di Geronte del rapimento della ragazza, dopo aver corrotto l’oste con l’oro che certo non gli manca; la terza è quella che permette a Des Grieux, già innamoratissimo, di fuggire con Manon alla fine dell’atto. Il consenso della ragazza spezza i primi due disegni, ma favorisce una più salda intesa tra i due beffati, Geronte e Lescaut, che conosce molto bene le debolezze della sorella e del suo nuovo amante.
Nel II Atto il progetto è pienamente realizzato e Manon si trova nel palazzo di Geronte servita da un parrucchiere. Nel corso della toilette, la giovane mostra tutta la propria frivolezza e compie il rituale dell’erotismo settecentesco, mentre nella sua camera da letto, come in un teatro, si alternano musiche, balletti, ballerini, abati e vecchi signori. Nella “schizofrenia” di Manon, divisa tra amore e lusso, si insinua un elemento moderno, la noia: non per caso sogna il luogo di una redenzione che, lontano da “quelle trine morbide, nell’alcova dorata…”, le risparmierebbe il prezzo di notti disgustose.
Pure Des Grieux, al quale le donne piacciono molto, è un personaggio in bilico, lacerato tra vocazione e sorte, tra vizio e virtù. Manon lo pone di fronte ad una magnifica sintesi degli opposti: una giovane donna bellissima e sensuale, che coniuga nel proprio fascino modelli altrove distinti. Dal contrasto un po’ elementare ed esteriore che, in Fontana, contrapponeva personaggi monolitici, si giunge alla finezza psicologica di Praga e Giacosa, che disegnano a mano a mano per la musica di Puccini il contrasto interiore di un personaggio, elaborando una drammaturgia più complessa e di livello indubbiamente europeo.
Des Grieux e Geronte sono due facce della stessa medaglia, quella della mascolinità proterva, forte, nel primo, della freschezza, della gioventù, di un potere di seduzione virile tutto promesse e passione, nel secondo di un potere economico e di una posizione sociale che non riescono, però, a nascondere i guasti degli anni che sono trascorsi ed un compiaciuto sentimento dell’eros, perversamente ripiegato sul possesso della creatura giovane, che non raggiunge ancora le vette della malvagità di Scarpia nè lo sciocco cinismo e la tracotanza di Pinkerton.
Una perfidia borghese, quella di Geronte che, di fronte allo specchio impietoso che Manon gli pone davanti al viso, escogita una punizione trasversale: arrestata per aver rubato dei gioielli, la giovane finisce in carcere da dove, in una scena notturna e cupa di ascendenza wagneriana7, Des Grieux cerca di farla fuggire ma il piano fallisce e Manon sarà imbarcata insieme ad un gruppo di prostitute, destinazione New Orleans. Des Grieux chiede ed ottiene di seguirla: la seguirà fino alla landa desolata dove Manon, incolpando della situazione presente, come la principessa Eboli di Verdi, la propria bellezza fatale, spirerà mentre nel delirio vede davanti a sé, come una corte d’accusa, tutte le colpe passate. Solo un’eco lontana il suo nome, nel grido di dolore impotente del Cavaliere Des Grieux.
Con Manon Lescaut il genio di Puccini come compositore di teatro è definitivamente affermato, così come affermata è la sua capacità di procedere libero da quei problemi che avrebbero assillato la maggior parte dei compositori italiani coevi, primo fra tutti la difficoltà di evitare di diluire il contenuto musicale a favore dell’azione scenica, più semplice per opere brevi come Cavalleria rusticana o Pagliacci. Per i compositori della generazione di Puccini, il ricorso al Leitmotiv wagneriano poteva essere una soluzione, ma era difficile conciliarlo con uno stile che richiedeva la supremazia della voce umana: Puccini riuscì a trarre profitto dalla lezione wagneriana, piegando i procedimenti alle esigenze e in nessuna delle sue opere l’influsso di Wagner è più evidente che in Manon Lescaut.
Se, sotto l’aspetto della caratterizzazione drammatica, il soggetto di Massenet, ove Manon è una donna avida fin dall’inizio e viene quasi logicamente abbandonata, è superiore a quello di Puccini e dei suoi librettisti che fanno di Manon una ragazza semplice e innocente, che cede alla corruzione sotto la pressione del fratello e del vecchio Geronte, sotto l’aspetto dell’invenzione musicale la Manon di Puccini supera di gran lunga il suo precedente francese e ci rendiamo conto dell’interesse del compositore per l’integrazione completa tra suono, parola ed azione scenica. Con Manon Lescaut il linguaggio si fa interprete di suggestioni intimiste, è aderente alle cose ma capace di riflettere su un piano elevato la civiltà del tempo, le sue mutevoli idealità e i suoi problemi.
La giovane, fresca, passionale, erotica, infedele e innocente Manon spalanca le porte del Novecento al melodramma italiano.
2. Atto I.
2.1. “Che cosa faccio? Scrivo.”
(La Bohème, Quadro I, Una soffitta)
All’inizio del 1893, all’insaputa l’uno dell’altro, Puccini e Leoncavallo stavano lavorando allo stesso soggetto, Scène del la vie de Bohème di Henri Murger8, pubblicato a puntate, secondo la moda del feuilleton, sul Corsaire Satan fra il 1845 e il 1849, adattato per le scene nel 1849 e raccolto nel 1851 in un volume. Murger, parigino, nato nel 1822, aveva condotto una vita molto grama collaborando a riviste di moda che non pagavano mai, abitando in una soffitta in Rue de la Tour d’Auvergne, frequentando artisti che campavano più o meno come faceva lui. Seguendo a suo modo le tappe di una discreta carriera letteraria, pubblicò sul Corsaire Satan dei bozzetti in cui raccontava la vita del Quartiere Latino, attingendo in parte al proprio vissuto. Il successo ottenuto dalla commedia, rappresentata alla presenza di Luigi Napoleone, e dal romanzo costituirono per Murger il salto di qualità, e l’ex bohémien si ritrovò improvvisamente benestante e tanto famoso che, quando morì (1861), ebbe esequie solenni, un monumento e persino un busto al Luxembourg. Il romanzo di Murger segna nella letteratura francese ottocentesca la comparsa di elementi naturalistici: se, infatti, l’identificazione vita-letteratura era stato uno degli aspetti poliedrici del romanticismo, il gusto per la narrazione dell’esperienza del quotidiano si avventurava già in un campo che altri avrebbero praticato scientificamente.
Non sappiamo perché Puccini scegliesse proprio quel soggetto, ma la prima teatrale di Cavalleria rusticana era stata nove anni prima ed aveva portato il crudo verismo verghiano ad un pubblico più vasto; nel 1890 c’era stata la prima della Cavalleria operistica di Mascagni e, più di recente, del 1892 erano i Pagliacci di Leoncavallo, un personaggio decisivo per i rapporti tra Puccini ed il verismo9.
Non era certo una decisione facile per un compositore che aveva alle spalle un solo successo, sia pure pieno come quello di Manon Lescaut, affrancarsi dal Verismo, soprattutto dopo i grandi successi di Mascagni e Leoncavallo, ma con la grande novità di Bohème Puccini rispose ai lavori dei colleghi, soprattutto a Leoncavallo con il quale aveva troncato i rapporti, chiarendo subito a sé e agli altri che le sue strade erano differenti, che avrebbero potuto incrociarsi con modi naturalistici o accoglierne spunti, senza però cedere nulla della propria originalità, lontana dal naturalismo rusticano e popolaresco fatto di duelli, morti e coltelli grondanti di sangue. A Puccini interessava molto di più una sorta di verismo sentimentale, una verosimiglianza con sentimento e poesia come emollienti.
Con la composizione della Bohème ebbe inizio il fortunato, virtuoso sodalizio di Puccini con Illica e Giacosa. Illica, vulcanico e fantasioso, era straordinario nel lavoro di riduzione e sceneggiatura, tanto da poter ridurre a libretto qualunque soggetto. Difendeva strenuamente la fedeltà all’originale mentre Puccini voleva, ed ottenne, un rinnovamento rispetto al romanzo. Giacosa, forse il miglior commediografo dell’Italia umbertina, lavorava di lima, rifinendo con magistrale pazienza. Artista molto vicino alla psicologia femminile, alle inquietudini e disagi del mondo borghese, Giacosa rappresentava un autentico punto di riferimento per il Nostro che per la sua pazienza infinita – dote indispensabile per un librettista che volesse collaborare con Puccini, diventato un vero tiranno dopo l’esperienza con Fontana – lo aveva soprannominato “Buddha”.
La maestria di Puccini nell’alternare episodi leggeri e momenti drammatici è supportata da un libretto magistrale e dalla concezione nuova che mescola lo stile aulico, usato con distacco ed ironia, ad un lessico familiare e comune. Il libretto di Illica e Giacosa, nella sua fusione di dramma e commedia, anticipa la costruzione musicale e permette che il passaggio dalla vie terrible alla vie charmante e ritorno, avvenga fluidamente, con tocchi leggerissimi anche nei momenti di maggiore tensione drammatica.
La Bohème, pur considerando Puccini come un unicum del ventesimo secolo dal momento che da Manon in poi ogni sua opera fu un capolavoro, rappresenta qualcosa di speciale sia nel canto e nella vocalità che nel rifarsi non tanto a Cavalleria o a Pagliacci ma piuttosto a Falstaff, l’opera che ha cambiato il teatro musicale, nel dinamismo dell’azione, nell’avvicendarsi di comico e sentimentale, nell’imprimere alla più piccola cellula del parlato caratteri melodici. Non solo questo: Puccini imparò da Falstaff il racconto della realtà in presa diretta, anticipando quasi il linguaggio cinematografico. Bohème è un’opera a tableaux impressionistici, non in atti ma in quadri, in cui la protagonista è Mimì, anche se l’opera non porta il suo nome. Chi è Mimì? Mimì è tante Mimì, talmente complessa da far litigare Puccini con il murgeriano Illica10; è un personaggio che la struttura in quadri contribuisce a lasciare indefinita, passibile di diverse interpretazioni: Mimì è una donna che lavora; è inoltre, fra il resto, una ragazza sinceramente cristiana, una ricamatrice di fiori, una donna libera e devota al suo amato; ma Mimì è anche una piccola creatura, senza radici e senza un nome “vero”, perché nessuno sa che lei si chiama Lucia, destinata a passare senza lasciare traccia, con le sue manine gelide da malata e i suoi piccoli desideri: una cuffietta rosa, la crema, un manicotto.
Di Mimì Murger ne aveva fatto una modella di pittori, una che per lavoro si spogliava con facilità, una giovane civetta, come Musetta o come Manon Lescaut, che muore di tisi, sola, in ospedale e viene gettata in una fossa comune, cambiandone la sorte nel dramma del 1849 quando l’aveva fatta morire nella soffitta di Rodolfo. Il dramma di Murger avvicinava Mimì alla Marguerite Gautier di Dumas, secondo il gusto della Francia di Luigi Napoleone, che amava il mito della mantenuta che ama molto ma necessariamente perisce in nome della dura legge della mentalità borghese. Puccini non voleva correre il rischio di far supporre che Mimì fosse una donna leggera o infedele, e per questo soppresse la festa in casa di Musetta, dove Mimì civetta col viscontino Paolo, che si è mescolato con le grisettes per ottenere facili conquiste. Ma, così facendo, Puccini apre alle ambiguità: accade, ad esempio, nel Terzo quadro (barriera d’Enfer), quando Rodolfo si lamenta con Marcello e gli dice di voler lasciare Mimì, giacché è una civetta, che “sgonnella e scopre la caviglia”; poi, indagato da Marcello, ammette che non è così, che la ragione sta nella malattia di lei, che lo spaventa, e nella povertà di lui, che non può farla curare, perciò meglio separarsi.
I conti, allora, non tornano: una fervente cattolica non civetta con gli uomini, neppure se si tratta di viscontini eppure, nel Quarto quadro, quando Musetta irrompe col fiatone nella soffitta per annunciare l’arrivo di Mimì morente, ribadisce che la giovane in fin di vita “era fuggita dal Viscontino”. Dunque, chi è Mimì? La Mimì pucciniana è un tenero, disincarnato ideale, capace di provare un amore “profondo ed infinito come il mare” e di confessarlo pienamente solo in punto di morte e solo a Rodolfo, pudicamente, quando gli altri “sono andati” mentre lei fingeva di dormire per consegnare all’unico amore della sua vita, che pure l’ha spinta tra le braccia di un uomo più ricco, l’ultimo dono della sua breve esistenza.
Così la morte di Mimì è anche l’addio alla spensieratezza della gioventù, perché Bohème è anche – se non essenzialmente – questo: il rimpianto di una stagione di spensieratezza incosciente, l’elegia, triste e dolcissima per la giovinezza che è un inganno; tutta la vita, d’altronde, appare qui un inganno: con la maturità e la consapevolezza, in effetti, giunge implacabile il dolore, come dimostrano Colline e Schaunard, disperati, impotenti e inutilmente generosi nel fronteggiare qualcosa più grande di loro, dopo che Musetta è entrata gridando “C’è Mimì, c’è Mimì che sta male…”, o negli accordi in minore sui quali Rodolfo appoggia la sua angoscia chiedendosi: “Che vuol dire quell’andare e venire…”, e riconoscersi, alla fine, improvvisamente e dolorosamente adulto, nel triplice grido finale del nome dell’amata, ormai perduta per sempre.
2.2. “Va’ Tosca…”
(Tosca, Atto I)
Tosca era un soggetto al quale Puccini pensava da tempo. Tosca era un dramma del francese Victorien Sardou andato in scena con grande successo nel 1887 e che Puccini stesso vide nel 1889 al Teatro dei Filodrammatici di Milano, protagonista Sarah Bernhardt, per la quale il lavoro era stato creato. Dopo aver terminato La Bohème Puccini decise di attendere a quel lavoro e di mettere in musica il soggetto. Alla decisione non era estraneo il successo che stava riscuotendo Andrea Chénier di Umberto Giordano, un dramma storico ambientato durante la rivoluzione francese, che stava facendo la fortuna del suo autore.
Una leggenda non verificabile è quella secondo la quale l’interesse di Puccini per Tosca si sarebbe riacceso nel 1894 dopo aver saputo che Verdi, a Parigi per il debutto francese di Otello, dopo aver assistito ad una rappresentazione del dramma di Sardou, aveva espresso apprezzamento per il lavoro, soprattutto per l’addio di Cavaradossi prima della fucilazione che Verdi sentiva, ottocentescamente, come addio alla patria e Puccini, novecentescamente, sentirà come addio alla vita e all’amore.
Mentre Puccini era occupato nella composizione di Bohème, Ricordi aveva affidato l’incarico di comporre Tosca al barone Alberto Franchetti, specialista in soggetti storici ma, nel frattempo, terminata l’opera, Puccini aveva ripreso interesse per quel soggetto e Ricordi convinse Franchetti, che magari qualche dubbio in proposito già lo aveva, che quell’opera non faceva per lui. Franchetti rinunciò al progetto che passò di nuovo a Puccini.
Ricordi, per l’occasione, volle ricostruire il duo Illica-Giacosa secondo l’idea dei librettisti a coppie che aveva preso dal teatro francese, dove il lavoro in coppia consentiva di sbrigare più rapidamente il lavoro. Come già aveva dimostrato Bohème Illica era il mago della sceneggiatura, della “parola scenica”, e Giacosa era un fine versificatore la cui capacità di addentrarsi nella psicologia femminile lo rendeva molto caro a Puccini e se al confronto tra dramma e libretto emerge la superiorità della rielaborazione italiana che lo stesso Sardou, onestamente, ammise, ciò fu conseguenza dell’assottigliamento della trama e dell’introduzione di quegli ingredienti di poesia e di sentimento di cui Giacosa, in campo letterario, e Puccini, in campo musicale, erano campioni.
Si è visto in Bohème, dove i tratti prevalenti erano nella coralità urbana e nel solidale cameratismo maschile dei quattro amici della soffitta, Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline, quanto il procedere per quadri nuocesse in un certo senso alla definizione dei personaggi; qui Floria Tosca, cantante prediletta di Cherubini e Paisiello, non avrà l’ambiguità allusiva di Mimì e la tanto criticata violenza ottocentesca e verista di quest’opera non deve distogliere dalla logica efficace dello scontro tra passioni travolgenti, dal ritmo serrato del dramma che annoda intorno al tema della gelosia le situazioni più drammatiche.
La realizzazione del libretto fu più semplice di quella di Bohème, anche se Giacosa espresse più di una perplessità sull’opera che gli sembrava poco adatta alla scena vista la scarsità di situazioni liriche. Nel 1897 Puccini si recò in Inghilterra per una rappresentazione di Bohème e poi andò a Parigi per incontrare Sardou, infine a Roma per partecipare ai lavori della Commissione permanente per la musica. In quell’occasione strinse amicizia con don Pietro Panichelli, che gli fornì informazioni utili per Tosca sulle campane mattutine attorno a Castel Sant’Angelo e sulla loro intonazione e gli indicò il tema del Te Deum per la folla nella chiesa di Sant’Andrea della Valle. Don Panichelli non trovò però parole adatte da far cantare al coro, così Puccini si inventò una quartina piena di “o”, tutte accentate per ottenere l’effetto brontolio desiderato11.
Confrontarsi con un soggetto recente e con un autore vivo ed interferente fu un’operazione rischiosa ma felice, tanto che Puccini avrebbe ripetuto altre due volte lo stesso esperimento12. Sardou aveva settant’anni quando incontrò Puccini, era un parlatore instancabile, energico ed egocentrico, ma i due si piacquero e la reciproca simpatia rintuzzò perfettamente i capricci e le poco verosimili pretese del francese13. Nel dramma di Sardou non mancava certo la storia, anzi era una presenza forse eccessiva con le lunghe chiacchiere da club politico che Angelotti e Mario Cavaradossi, fino a quel momento reciprocamente sconosciuti, si scambiano nel primo Atto; tutto il II Atto, poi, con la festa in onore della regina di Napoli aveva l’intento puntiglioso di calare il rapporto passionale di Tosca e Mario all’interno di una rete di potere e, nello stesso atto, il barone siciliano Vitellio Scarpia, capo dei servizi di sicurezza della regina, risultava ricattato da due donne, affinché catturasse ed eliminasse, pena la testa, Angelotti evaso da Napoli.
Il ricatto aumentava la dose di misoginia nel dramma dove le donne erano, senza scampo, ingenue o crudeli; la sua eliminazione da parte di Puccini esaltò la natura perversa di Scarpia, che appare spinto all’abuso di potere e alla crudeltà fisica e mentale soltanto dalla propria lussuria. I cinque atti dell’originale subirono tagli salutari diventando tre, ciascuno con una singola ambientazione: la chiesa di Sant’Andrea Della Valle (Atto I), l’appartamento di Scarpia a Palazzo Farnese (Atto II), Castel Sant’Angelo (Atto III); la festa in cui si celebra la presunta vittoria di Melas su Napoleone, alla quale Tosca deve esibirsi, scivola su uno sfondo puramente musicale e fa da contrappunto al serrato interrogatorio a cui, nel II Atto, Scarpia sottopone Mario Cavaradossi; il dialogo con cui Scarpia insinua in Tosca il tarlo della gelosia passa dalla festa mondana alla chiesa, esasperando la crudeltà demoniaca del barone, mentre Villa Cavaradossi è appena citata, sognata da Tosca perché quella casa accoglie e protegge i giochi amorosi tra lei e Mario.
Tosca è una donna sana e forte, diversa dalle fragili Anna, Fidelia, Manon, Mimì, è una donna che lavora, è una diva del canto e rivendica un proprio ruolo riconosciuto nella società maschile. Sa bene ciò che vuole e, “agil qual leopardo”, si muove nella società romana fitta di intrighi e di pericoli difendendo con le unghie e con i denti della sua cieca gelosia l’uomo che ama, il suo Mario, dalle insidie delle dame della nobiltà papalina che hanno occhi azzurri e cascate di riccioli dorati mentre lei è bruna ed ha gli occhi neri. Il pittore Cavaradossi, dal canto suo, è sensibile al fascino della bellezza femminile, anche troppo: in chiesa ritrae Maria Maddalena, cortigiana redenta, dandole le sembianze della marchesa Attavanti che in Sant’Andrea si era recata, fingendo di pregare, solo per portare abiti femminili al fratello fuggiasco Angelotti; infine, turbato dalla vista della donna e dalla scossa emotiva che ne riceve, estrae dalla tasca un medaglione che ha bisogno di guardare per persuadersi di amare soltanto Tosca.
Nel libretto la scena della tortura viene trasferita da Villa Cavaradossi agli appartamenti di Scarpia a Palazzo Farnese, proprio sopra il salone delle feste: l’assassinio e il progetto di Tosca sono portati dall’unità di luogo in Castel Sant’Angelo di Sardou alla separazione, e ciò rende più comprensibile nel libretto il ritardo con cui la notizia della morte del capo della polizia arriva a Spoletta ed ai suoi. In Puccini il luogo dell’amore passionale viene diviso da quello della tortura e della sessualità violenta: il presente è il campo della sofferenza, l’assente è luogo di rimpianto o di meta sognata. Angelotti, che appare subito ad apertura sipario suscitando tensione, conosce già il “volterriano” Mario e non si dilunga in disquisizioni politiche impensabili per un fuggiasco braccato dalla polizia; i personaggi vengono ridotti da ventiquattro a nove, dei quali tre hanno scarso rilievo e tre sono semplici comprimari. Il gran daffare che Puccini si diede per rendere la Roma di Tosca più autentica possibile rende allora Tosca opera verista? Se l’intento fosse stato quello di rendere il vero, la vicenda non sarebbe stata ambientata in una Roma d’inizio Ottocento; meglio, allora, parlare di verismo dei sentimenti perché è la loro dinamica che interessa, non il quadro di attualità storica.
In Sardou Tosca era un personaggio finalizzato a un calcolatissimo intreccio, creato per esaltare il forte temperamento artistico di Sarah Bernhardt, creatrice di memorabili scene d’amore e di gelosia, di tenerezza e di passione che mandavano in visibilio il pubblico. Non si trattava, però, dell’unico personaggio femminile perché, oltre a lei, sulla scena si muovevano la Regina di Napoli, la principessa Orlonia, dama di compagnia della sovrana, e Luciana, la cameriera di Tosca. Nell’opera pucciniana, invece, Tosca rimase l’unica donna, in un gioco teatrale volto a renderla doppiamente personaggio proprio in virtù di questa unicità; di Tosca Mario dice che è una donna gelosa: in quanto tale, la teme molto; quando lei irrompe in chiesa, avendo trovato l’uscio insolitamente chiuso e avendo udito i bisbiglii del pittore che accendono i suoi sospetti, egli cerca goffamente di calmarla con un bacio che viene rifiutato, perché Tosca ritiene più importante, in quel momento, compiere l’offerta di fiori alla Madonna. La ritrosia di Tosca accende i sensi di Mario che, completamente stordito dal miraggio della prossima notte, apostrofa l’amata con l’appellativo non nuovo di “sirena”, scoccando finalmente quel bacio impetuoso che lascerà la diva “tutta spettinata”.
Nel rapimento dei sensi, Mario commetterà l’errore “politico” di rivelare a Tosca il nascondiglio di Angelotti, nel pozzo di casa sua, dimenticando che con Tosca la prudenza è necessaria, perché lei “credente al confessor nulla tiene celato”. Infranta dal crollo nervoso di Tosca la sua resistenza eroica alla tortura, Cavaradossi tornerà prima della morte a immergersi completamente nell’universo erotico prima con il rimpianto dell’ardente intimità con Tosca nel suo addio alla vita “E lucean le stelle…”, e poi, quando Tosca giunge trafelata a Castel Sant’Angelo, rivelandogli di aver appena assassinato Scarpia, commuovendosi di fronte alle mani di lei (“dolci mani, mansuete e pure”).
In quest’opera dove sangue, tortura e amore si legano strettamente alle sorti dei personaggi e la sensualità, portata all’eccesso, segna il tempo di una triplice morte – un vero record tra i libretti pucciniani –, spicca il più esplicito accenno a una sessualità veramente consumata, non più, dunque, solo allusa dai pudichi baci e da altre moderate manifestazioni affettive presenti in altri contesti. La formidabile carica erotica di Tosca travolge anche il capo della polizia, il barone Vitellio Scarpia, del quale accende le più turpi fantasie.
Parlandone ad Angelotti in Sant’Andrea della Valle, Cavaradossi lo presenta così: “Scarpia?! Bigotto satiro che affina/ colle devote pratiche la foia/ libertina – e strumento/ al lascivo talento/ fa il confessore e il boia!”. Scarpia, come tutti i veri “grandi inquisitori”, conosce profondamente la psicologia umana e ben presto, mettendo insieme gli indizi che gli sottopone il vilissimo Sagrestano, riesce a trovare il ventaglio, che starà al fazzoletto di Desdemona quanto Scarpia stesso a Jago.
Arrigo Boito, nella stagione estrema di Verdi, quella che parte dal rifacimento di Simon Boccanegra e Don Carlos per arrivare a Otello e Falstaff, aveva contribuito a incrinare la rigida morale ottocentesca, facendola scivolare verso le incertezze della modernità; proprio Otello, nella figura di Jago come archetipo del male, possiede già la modernità e la potenza espressiva da cui prende vita Scarpia che canta: “Va’, Tosca! Nel tuo cuor s’annida Scarpia./ […]/ Va’, Tosca! È Scarpia/ che coglie a volo il falco/ della tua gelosia./ […]/ A doppia mira/tendo il voler, né il capo del ribelle/è la più preziosa. Ah di quegli occhi/vittoriosi veder la fiamma/illanguidir, con spasimo d’amore!/ La doppia preda avrò. L’uno al capestro,/ l’altra fra le mie braccia…”. Se Scarpia ha un duplice fine, quello di eliminare in Cavaradossi un nemico politico ed un rivale della sua turpe passione e quello di possedere Tosca, Jago ha, apparentemente, in Shakespeare, quello di eliminare in Cassio un rivale nella carriera, mira a cui Boito aggiunge il gusto maledetto per il Male in senso assoluto. Lo strumento per perseguire il fine è comunque per entrambi la gelosia, di Otello e di Tosca.
Il II Atto, quello della tortura, fisica ai danni di Cavaradossi e mentale ai danni di Tosca, vede Scarpia nel pieno del suo furore libertino: la sua trama punta a spazzare via le difese della donna con le urla e la vista del corpo torturato e sanguinante di Mario. A differenza di Rodolfo, Scarpia si appaga poco “di sospiri/ e di lattiginose albe lunari”, non sa corteggiare e, dopo aver inorridito Tosca mostrandole Mario insanguinato, le offre vino di Spagna nel suo stesso bicchiere, un gesto intimo che anticipa il perfido patto che le propone: il corpo di Tosca “per un istante” in cambio della vita di Mario. Accettando, disperata, il patto sacrificale, dopo un primo istinto suicida, Tosca si abbandona ad una preghiera-lamento “Vissi d’arte, vissi d’amore”, poi accetta il vino che le offre Scarpia ma, nel portare il bicchiere alle labbra scorge sul tavolo un coltello affilato, lo afferra ed il primo, brutale abbraccio di Scarpia, è anche l’ultimo.
Dopo Tigrana, Tosca è la seconda accoltellatrice pucciniana, ma entra a buon diritto tra le vittime perché uccide per legittima difesa: Illica, Giacosa e Puccini si sarebbero accontentati di punire il suo delitto con la perdita dell’amato Mario con la “finta fucilazione”, se non fosse stato per Sardou, che invece la voleva “morta a tutti i costi, quella povera donna!”14. Tosca è una donna di teatro sfortunata perché quando decide di istruire Mario nella “scenica scienza” di cui ella è maestra, rimane vittima della trappola crudele architettata da Scarpia. Nel disperato tentativo di salvare Mario, Tosca aveva tradito la parola data e la consegna del silenzio ed era rimasta vittima del conflitto generato dal suo fascino nei due rivali, politici e sessuali. Stretta tra la morte di Mario ed il minaccioso accorrere degli sbirri e di Spoletta sugli spalti di Castel Sant’Angelo, Tosca sceglie il già vagheggiato tuffo nel vuoto, gesto eroico ed estremo di una diva colpevole di troppa bellezza e di un fascino conturbante; di lì a poco, “avanti a Dio!..” l’appuntamento con l’abominevole Scarpia, immeritevole del perdono ricevuto, per la resa dei conti definitiva.
3. Atto II
3.1. “Vogliatemi bene,/ un bene piccolino,/ un bene da bambino”
(Madama Butterfly, Atto I)
Nel giugno 1900 Puccini si recò a Londra per seguire la prima di Tosca al Covent Garden. Il 21 dello stesso mese, al Duke of York’s Theatre egli assistette ad un atto unico, Madame Butterfly di David Belasco basato su un romanzo di John Luther Long. A Puccini il soggetto piacque molto e, anche se, per il momento, si trattava solo di un apprezzamento personale, chiese a Belasco i diritti sull’opera. La pagatissima star di Broadway avanzò, probabilmente delle pretese economiche che a Ricordi costarono oltre un anno di trattative ma, alla fine, cedette: alla fine di marzo del 1901 dall’America giunse la notizia che Madame Butterfly era a disposizione e, anche se il contratto con Belasco non potè essere firmato fino a settembre, Puccini fu in grado di affidare ad Illica il compito di stendere uno scenario.
Il dramma di Belasco, americano di San Francisco, nato nel 1853 da genitori ebrei portoghesi, educato in un monastero cattolico in ricordo del quale portava un collare da chierico, era tratto da un racconto di John Luther Long, un avvocato di Philadelphia, pubblicato nel 1897 sul periodico “Century Magazine”: si raccontava di un ufficiale americano, la cui nave ha fatto scalo a Nagasaki, che sposa una giovane geisha secondo l’uso giapponese, poi la lascia con la promessa di tornare “quando i pettirossi avrebbero rifatto il nido”. In effetti, l’ufficiale in questione torna ma ha al proprio fianco una moglie americana e chiede di avere il figlio che nel frattempo era nato. La geisha tenta il suicidio, ma la domestica interviene e la salva fasciando la ferita. Long dichiarò che il suo racconto era tratto dalla vita reale, ma c’è almeno un precedente letterario di cui Long doveva considerarsi debitore: Madame Crysanthème di Pierre Loti, nome d’arte di Jules Viaud, ufficiale della marina francese. Il romanzo, pubblicato nel 1887, è il diario di un matrimonio in cui la professione del protagonista e l’ambientazione sono gli stessi del racconto di Long.
L’interesse dell’Occidente per tutto quanto era orientale era cresciuto costantemente fino dalla metà dell’Ottocento ed il Giappone, l’ultimo in ordine di tempo ad essere scoperto dai viaggiatori occidentali, appariva come uno scrigno delle meraviglie tanto che all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 l’arte giapponese aveva avuto la sua prima vetrina europea. Da allora in poi elementi della cultura giapponese cominciarono ad infiltrarsi nella cultura francese ma fu proprio Madame Crysanthème che fissò l’immagine giapponese negli anni a venire. Si trattava di un romanzo autobiografico basato sul diario che Loti aveva tenuto durante il servizio in Marina: anche lui aveva sposato una ragazza del luogo per il tempo della sua permanenza, secondo le usanze che davano la possibilità di considerare il matrimonio sciolto dopo un mese di lontananza ed il versamento di una piccola cauzione. Incantato dal paese, bellissimo ed emozionante, l’ufficiale detesta però i giapponesi, che trova animaleschi e ridicoli, e la loro cultura, incomprensibile per una mente europea. Crysanthème stessa non è diversa: è un piacevole passatempo, un giocattolo con occhi da gattina, ma la sua conversazione, assolutamente lo infastidisce e quando torna a casa per darle l’ultimo addio si sente sollevato dal trovarla intenta a far risuonare le monete che lui le ha lasciato per saggiarne l’autenticità. Inutile dire che il romanzo fu trovato offensivo non solo dai giapponesi ma anche da europei più sensibili al rozzo razzismo ed all’arroganza imperialista mostrati da Loti.
La risposta al romanzo di Loti può essere considerata il racconto di Long. La narrazione comincia con l’ufficiale Benjamin Franklin Pinkerton che accette il cinico consiglio di un subalterno e prende una moglie temporanea per il periodo di permanenza nel porto; segue poi una breve descrizione del matrimonio organizzato con la piena approvazione della famiglia fino a quando Pinkerton decide di cacciare di casa quei suoi insopportabili e impresentabile parenti che rinnegano la giovane sposa, Butterfly alla quale il marito non solo anglicizza il nome, Cio-Cio-San, ma addirittura proibisce di professare la propria religione. Il racconto riprende parecchi mesi dopo la partenza di Pinkerton, quando Butterfly ha già dato alla luce il figlio di lui, e tratteggia la graduale delusione della giovane quando la realtà dell’abbandono le sarà svelata dal sensale di matrimoni, dalla sua serva, da un nobile locale che la corteggia, dal console americano e, infine da Kate, la moglie americana con la quale Pinkerton si ripresenta solo per reclamare il bambino.
Butterfly, pur essendo un creatura più definita rispetto a Crysanthème, ne condivide i bamboleggiamenti, il linguaggio che è un cinguettio di fantasia, caratteristica mantenuta nel dramma di Belasco che inizia con Butterfly già abbandonata e madre di una bambina, poi l’azione prosegue come in Long con l’eccezione che Belasco fa svolgere tutta l’azione nella casa di Butterfly dove la sua eroina riesce nel suo proposito suicida rinunciando al lieto fine di Long che riassegnava la protagonista al ruolo di geisha dopo il goffo tentativo di suicidio.
Il I Atto dell’opera di Puccini rappresenta un’innovazione rispetto alle fonti americane e si avvicina maggiormente a Loti attento alla descrizione della relazione con Crysanthème. L’azione si svolge a Nagasaki dove il mezzano Goro mostra a Pinkerton la casa e si irrita quando l’americano la trova frivola. Goro ha offerto a Pinkerton molte geishe, ma esse lo hanno rifiutato non trovandolo abbastanza avvenente: soltanto la quindicenne Cio-Cio-San, rimasta sola con la madre dopo il suicidio rituale del padre, accetta l’offerta dei 100 yen dello straniero per lasciare quel mestiere che la disonora e trovare una sistemazione.
Il contratto per l’acquisto della casa e della moglie impegna la parte giapponese per 999 anni, mentre Pinkerton è libero di cambiare idea, unilateralmente, ogni mese. Il mezzano allude, malizioso e ossequiente, alla possibilità di una discendenza da quell’unione e ciò solletica i sensi già accesi dell’americano. Goro, che sghignazza alle spalle di Butterfly per la sua credulità e la ricatta, dopo che lei ha rifiutato la proposta di matrimonio del principe Yamadori, sulla sorte del piccolo Dolore il bambino dagli occhi azzurri e dai riccioli d’oro, ha un solo merito, quello di provocare uno scatto di ira furiosa della protagonista che mitiga la tentazione di considerarla una tenera vittima remissiva: anche Butterfly conosce dei registri espressivi violenti e la dolcezza non è la sua unica corda. La custode delle tradizioni giapponesi nella casa americanizzata di Butterfly è la serva Suzuki. Il personaggio non ha spicco autonomo: con le sue preghiere cerca conforto alle sventure della giovane padrona, diventa una madre surrogata per Butterfly sostituendo quella vera, incapace di sostenere la figlia dopo il ripudio pronunciato dallo zio Bonzo e dai parenti una volta conosciuto lo scopo della visita alla missione cristiana, quando Butterfly rinuncia ad ogni tutela del proprio retaggio culturale e nazionale per abbracciare in un gesto sacrificale premonitore la religione del marito straniero.
L’unico che, con Suzuki, tenta la difesa dell’adolescente giapponese è il console americano Sharpless. Dapprima un po’ cinico, questo maturo signore si accorge degli eccessi imperialisti del suo compatriota e ne critica l’atteggiamento, anche se la sua azione non è mai decisa a vantaggio di Cio-Cio-San verso la quale mantiene un atteggiamento formale che costa, però, fatica alla sua natura paterna, paga l’affitto della casa durante i tre anni di assenza di Pinkerton, affronta con imbarazzo il compito di riferire la lettera in cui l’ufficiale annuncia di essersi unito in matrimonio con una “vera sposa americana” con la quale desiderava, peraltro, già sposarsi prima di unirsi a Butterfly.
Seccato e imbarazzato per l’agitazione della giovane che cerca ovunque per casa delle sigarette americane da offrire all’ospite, Sharpless non trova il coraggio di compiere il suo incarico e maledice Pinkerton con le parole “Quel diavolo d’un Pinkerton”, il cui significato è molto diverso da quello della stessa frase, pronunciata con grande tolleranza, soffocando una risata, nel romanzo di Loti. Impotente di fronte al dovere diplomatico che gli impone di favorire il connazionale, in Sharpless il senso d’angoscia crescerà sempre di più per sciogliersi nel singhiozzante abbraccio a Dolore subito dopo il suicidio della sua giovane, infelice madre.
Ben più odioso è il personaggio di Pinkerton15, il primo tenore pucciniano che si accosta all’idea dell’amore con calcolo e arrogante freddezza. Nella prima e nella seconda versione del libretto, entrambe del 1904, Pinkerton esordiva con frasi di sommo disprezzo all’indirizzo della servitù di Cio-Cio-San, rifutandosi di pronunciare i loro nomi e definendoli “Muso primo, secondo e muso terzo” e rincarando la dose più avanti quando pretende che i tre “Musi” gli servano il pasto, che ritiene composto dalla “più nauseabonda leccornia della Nipponeria”. Anche in tema d’amore le idee di Pinkerton non andavano oltre all’esigenza dell’appagamento fisico che lo spingevano a cogliere “i fiori d’ogni plaga…/d’ogni bella gli amor.”. Vero Don Giovanni, considera Butterfly come il proprio giocattolo e considera i suoi tristi presagi come sciocche paure, mentre Butterfly rinuncia a tutto per lui, chiedendogli in cambio soltanto “un bene piccolino”. Pinkerton ha fretta di sbarazzarsi dei parenti per soddisfare subito il desiderio che lo brucia, vuole “infrangere le ali” a quella moglie adolescente che desidera e disprezza nello stesso tempo. Butterfly è una fanciulla in lotta contro la realtà dei fatti, dentro di lei convivono il desiderio di vita e l’illusione autodistruttiva di essere “la fanciulla più lieta del Giappone, anzi del mondo”. Il suo obiettivo è quello di trovare una figura autorevole, paterna, a cui appoggiarsi e a cui donarsi interamente, ed il pugnale paterno, su cui sono incise le parole “con onor muore/chi non può serbar vita con onore”, sarà il tramite di un rapporto edipico impossibile. Ella recita con ostinazione la sua parte di sposa, attingendo al repertorio matrimoniale che le appartiene ed anche all’altro, quello dell’americano a causa del quale è “Sola e rinnegata/ Rinnegata e felice”, annaspando, tenendosi alla fragile convinzione del sentimento. Nelle sue spoglie esotiche e colorate da farfalla preziosa Cio-Cio San è una vittima dell’istituzione matrimoniale, costretta dalla propria debolezza etnica e sociale a subire una sconfitta totale; il suo ménage si è consumato tutto tra il I ed il II Atto, proprio come aveva scritto Loti nel suo diario dove aveva annotato disaffezione, fastidi e noie diventati nauseabondi come le leccornie giapponesi che tanto disgustano Pinkerton.
Il filo di fumo della nave che riporta in Giappone il tenente fedifrago e la sua bionda sposa americana Kate annuncia la fine delle speranze di Butterfly che, ormai diciottenne, dopo il padre ha perso anche l’illusione di averlo sostituito e Dolore, l’unico sopravvissuto, entra a far parte di una famiglia artificiale che lo accetta, perché i riccioli d’oro e gli occhi azzurri non tradiranno mai la sua origine e, nel contempo, cancelleranno ogni traccia di sua madre Butterfly.
La prima di Butterfly fu data alla Scala il 17 febbraio 1904 e fu un vero fiasco, tra fischi, risate e apatia; “Un vero linciaggio”, ebbe a dire Puccini commentando la serata16. Anche la stampa non fu benevola e Puccini stesso non aveva dubbi che l’ostilità fosse stata organizzata già in precedenza. Una supposizione, non del tutto infondata, potrebbe indicare l’autore della macchinazione nell’editore rivale di Ricordi17, Edoardo Sonzogno. La sua conduzione per due anni della Scala aveva bandito tutte le opere pubblicate da Ricordi e si era conclusa con un deficit pauroso e la chiusura del teatro per tutti il 1898. Cambiato il consiglio di amministrazione del teatro, nominato Arturo Toscanini direttore principale e Giulio Gatti-Casazza impresario, Sonzogno era stato estromesso e l’unica opera pubblicata dalla sua casa editrice ad essere rappresentata nel teatro milanese fu Le Maschere di Mascagni, nel 1901, in quella che voleva essere una delle sette prime assolute date in contemporanea in tutta Italia. Due anni dopo, il ritardo nella produzione di Madama Butterfly causato dalla lenta ripresa di Puccini dopo l’incidente stradale nel quale era stato coinvolto, spinsero Sonzogno a farsi avanti con un’altra opera pubblicata dalla sua casa editrice, Siberia, di Umberto Giordano. Si trattava di un buon lavoro che ottenne però un fragile successo: ecco perché era così importante che l’opera di Puccini, seguendo a ruota, non eclissasse quella di Giordano. A disposizione c’era un’arma potente, la claque che, facilmente pilotabile, poteva decretare il successo o il fallimento di opera e autore in una sola sera.
Dopo il fiasco della prima rappresentazione scaligera dell’opera, che annichilì Puccini ma non scosse la sua fede nella validità di Butterfly più di quanto il fiasco della prima rappresentazione di Traviata avesse scosso la fiducia di Verdi nella propria creazione, il compositore ed i librettisti si misero al lavoro per revisionare l’opera, che fu rappresentata a Brescia il 28 maggio, accolta da manifestazioni di grande entusiasmo. Nel ruolo eponimo, al posto di Rosina Storchio, c’era Salomea Krusceniski, unico cambiamento nel cast. Madama Butterfly è un’opera pienamente novecentesca: drammaturgo infallibile, capace di tradurre il nuovo in risultati irresistibilmente teatrali, Puccini effonde a piene mani uno spirito musicale e drammaturgico moderno nell’esotismo di stampo liberty, ma anche nella costruzione dei suoni, nelle dissonanze, nell’uso onomatopeico degli strumenti, nel martellare ossessivo dei timpani, nel logoramento delle sonorità, nel finale dove la soluzione armonica adottata da Puccini accentua l’orrore per la morte di Butterfly.
In Madama Butterfly Puccini esprime anche una nuova concezione del tempo, quello della quotidianità, che si dilata, si estende fino all’immobilità nel “Coro a bocca chiusa”, emblema della capacità di Puccini di far coesistere i modi della tragedia, nell’unità di luogo, e senso del nuovo, tre anni che trascorrono tra il I ed il II Atto. Il tempo pucciniano non scorre più uniformemente dall’inizio alla fine, come nel racconto tradizionale, ma è fatto di continui ritorni al passato e di preannunci del futuro, di ricordi, di presentimenti ed anche di lunghe stasi. La temporalità discontinua, aperta, fluttuante, problematica, sospesa tra cuore e memoria, in bilico per il venir meno della certezze ottocentesche rappresenta un modo di sentire e di raccontare il tempo nel Novecento che accoglie in sé quest’opera pucciniana, figlia e madre del presente in cui è ambientata.
3.2. “È Minnie!… È Minnie!… È Minnie!…”
(La Fanciulla del West, Atto III)
Dopo il primo fiasco scaligero di Madama Butterfly ed il successivo trionfale riscatto a Brescia, Puccini si era già messo alla ricerca di un nuovo soggetto. Era una ricerca ancora confusa: la ricerca di novità, mai così assidua, lo condusse a prendere in considerazione anche la Bibbia come fonte per un soggetto. Di tutte le proposte che Illica gli sottoponeva soltanto Notre Dame de Paris di Hugo accese il suo interesse, ma Illica aveva appena cominciato a scrivere che già Puccini cominciava con i dubbi e con i ripensamenti.
L’interesse si appuntò, allora, su una raccolta di novelle di Gor’kij che Puccini aveva avuto modo di leggere durante la convalescenza dopo l’incidente automobilistico. Si trattava di soggetti piuttosto forti, sui quali erano comunque d’accordo sia Illica che Giacosa ma, poichè l’idea sarebbe stata quella di presentare tre titoli insieme, compositore e librettisti ebbero il veto di Ricordi per il quale tre titoli per una sola serata rappresentavano un rischio al botteghino.
Nel frattempo, all’insaputa di Illica, Puccini aveva preso accordi col drammaturgo toscano Valentino Soldani autore di un “mistero” su santa Margherita da Cortona. Con Soldani Puccini insistette molto sull’essenzialità del testo per ottenere una rappresentazione sobria, semplice e, nello stesso tempo, efficace nel definire i personaggi. Ben presto, però, dato che Soldani non era Illica, non possedeva grandi qualità di sceneggiatore e, soprattutto, non era in grado di capire velocemente e compiutamente cosa volesse Puccini, la cosa sfumò. Illica ripropose allora un vecchio progetto su cui egli si era impegnato notevolmente, Maria Antonietta. Il progetto andò molto per le lunghe, non convincendo mai completamente Puccini che vi rinunciò definitivamente non volendo correre il rischio di fare di Maria Antonietta una pallida copia di Andrea Chénier che lo stesso Illica aveva scritto per Umberto Giordano. In tutto questo daffare, inoltre, la salute di Giacosa si era fatta sempre più malferma, aggravandosi l’asma che lo avrebbe condotto alla morte il 1° settembre 1906.
Dopo la morte di Giacosa, i rapporti tra Illica e Puccini si ridussero a forme di consulenza per la scelta dei soggetti, per deteriorarsi completamente quando Puccini cercò di convincerlo a farsi affiancare da un nuovo collaboratore. Il problema del libretto nuovo non era ancora risolto quando Puccini e la moglie si imbarcarono il 9 gennaio 1907 per un viaggio di due mesi a New York per assistere, su invito del direttore del Metropolitan Opera House, ad una stagione interamente pucciniana. In quell’occasione aveva certamente potuto vedere il nuovo dramma di Belasco, The Girl of the Golden West ed evidentemente ne ebbe un’ottima impressione dal momento che appena sbarcato in Italia dichiarò ai giornalisti la propria intenzione di ricavare un’opera da quel soggetto teatrale. Anche in quell’occasione il progetto non fu di facile né di breve attuazione soprattutto per le minacce che i francesi Vaucaire e Louys facevano a Ricordi di adire a vie legali.
Finalmente Puccini riuscì a sciogliersi da quel pasticcio: l’opera passò a Zandonai lasciandolo libero di concludere il contratto per acquistare i diritti del dramma di Belasco. Si trattava di trovare un librettista: rotti i rapporti con Illica, Ricordi propose il poeta e giornalista bolognese Carlo Zangrini che non aveva ancora grande esperienza in campo operistico ma aveva l’enorme vantaggio, almeno secondo Ricordi, di poter affrontare quel soggetto con un minimo di cognizione di causa dal momento che sua madre era americana. La piena intesa con Puccini durò un anno circa e finì nell’ennesimo pasticcio di schermaglie legali. A quel punto fu convocato un nuovo poeta, il crepuscolare Guelfo Civinini, livornese, a cui fu affidata la seconda stesura del libretto di Zangrini, stesura che segna il libretto definitivo di un particolare tono intimista.
Il dramma The Girl of the Golden West era stato scritto da Belasco appositamente per mettere in luce le caratteristiche attoriali di Blanche Bates, che era stata anche la prima interprete di Madame Butterfly, ed era stato rappresentato per la prima volta a New York nel 1905. Come il lavoro precedente, faceva uso di effetti scenici spettacolari a partire da una proiezione cinematografica delle montagne californiane prima dell’apertura del sipario.
L’azione è ambientata in California nel 1849-’50, al tempo della corsa all’oro. La protagonista della vicenda, Minnie Falconer, identificata per tutto il testo semplicemente come “Girl”, gestisce da sola il Polka Saloon in una comunità di minatori. Dalle lunghe didascalie introduttive che illustrano i personaggi apprendiamo che Belasco descrisse Minnie come “abbastanza complicata”, ma forte ed energica, dolce e selvaggia, fieramente virginale. Estremamente franca, capace di giostrarsi in una società maschile della quale conosce perfettamente i desideri, Minnie è tuttavia capace di essere una buona amica per i minatori dell’accampamento e nessuno osa mancarle di rispetto. Il libretto pucciniano non si discosta molto dall’originale, salvo che Puccini volle ridurre a tre i quattro atti di Belasco, assorbendo il quarto atto della fonte nel terzo dell’opera.
Minnie è una giovane monella che resiste in un gruppo maschile, una figura, dunque, non nuova nell’opera italiana, basti pensare alla Maria di Donizetti o alla Preziosilla di Verdi, ma quello che la distingue dalle altre è la sua autorevolezza: Minnie è una ragazza di campagna, per nascita e per formazione, parla il linguaggio dei minatori e sa come metterli al loro posto ma, essendo più istruita di loro, è in grado di comportarsi come se fosse la loro maestra. Molti fra i minatori la corteggiano, ma nessuno si sognerebbe di approfittarsi di lei. Il più insistente tra i corteggiatori di Minnie è lo sceriffo Jack Rance, uomo dalle passioni forti, giocatore impassibile, freddo e deciso che, come gli altri, ha ricevuto da Minnie un secco “No!”. Un uomo ha comunque fatto breccia nel cuore di Minnie: si tratta di uno straniero di circa trent’anni, glabro, l’unico che abbia un aspetto da signore, modesto nei modi, eppure vagamente inquietante. Si presenta come Dick Johnson di Sacramento e nessuno sospetta che si tratti del famigerato bandito di strada Ramerrez e che abbia intenzione di rapinare il saloon, almeno fino a quando le crescente ammirazione per Minnie e le attrattive della “Girl” non gli fanno cambiare idea. Anche Minnie, del resto, riconosce prontamente in lui l’uomo con il quale anni prima aveva scambiato tenere parole d’amore.
Di nuovo si ripropone il triangolo: come in Tosca una bella e giovane donna, forte e indipendente, è amata da un ribelle, ma gentiluomo, che da lei è ricambiato, e da un odioso rappresentante della legge che abusa del proprio potere. Più tardi, comunque, l’identità di Johnson-Ramerrez viene scoperta ed egli è seguito fino alle vicinanze della casa di Minnie, dove lei lo intrattiene nel debito rispetto delle regole e del decoro. Eroina pucciniana, Minnie vive nel decoro e nelle regole: anche se apre il suo saloon ai minatori, che giocano a poker e barano, che ballano insieme, come nella Bohème, in una sorta di consolatorio cameratismo maschile, li edifica leggendo loro la Bibbia, li istruisce nella religione e nella morale. D’altronde, le eroine pucciniane amano i ribelli proprio perché sfidano le regole del “quieto vivere”, hanno un cuore generoso, sono colti e, a volte, artisti, conoscono e praticano le regole di un corteggiamento galante e appassionato.
Quando Minnie apprende la vera identità dell’uomo, gli impone di uscire nel bel mezzo di una tempesta di neve: in realtà, a Minnie non importa che egli sia un bandito ma che le abbia mentito negando di essere l’amante della “sirena” di turno, Nina Micheltorena, finta spagnola “che fa molto consumo/ di nerofumo/ per farsi l’occhio languido”. Anche Minnie, per la verità, si profuma, si agghinda, mette un fiore tra i capelli per accogliere Johnson-Ramerrez: la differenza con la Micheltorena è che Minnie vuole che l’uomo che sedurrà diventi il suo uomo per sempre.
Uscito disarmato dalla casa di Minnie, Johnson-Ramerrez cade ferito da una fucilata e Minnie lo riporta dentro nascondendolo in soffitta. Alcune gocce di sangue che cadono dal soffitto svelano allo sceriffo Rance la presenza del ferito, Minnie, allora, fa appello al giocatore che c’è nello sceriffo e gli propone una partita a carte, che ribalta la situazione tra Tosca e Scarpia: se lui vince, lei sarà sua; se invece perderà, Johnson-Ramerrez sarà libero. Rance accetta di giocare e Minnie vince con l’imbroglio.
Da questo momento il dramma si avvia alla conclusione: c’è una “Accademia” nel corso della quale si percepisce come la cattiva coscienza di Minnie metta in pericolo la sua capacità di mantenere l’ordine e le distanze tra i suoi allievi poi, a sua insaputa, Johnson-Ramerrez viene catturato e condotto al patibolo dove la corda è già pronta. Egli chiede una grazia, che Minnie non sappia dell’impiccagione ma lo creda fuggito, libero e lontano. Ma, dopo una galoppata furibonda, sopraggiunge Minnie, armata di pistola con la quale minaccia di uccidere lui e se stessa se qualcuno si avvicina; nel frattempo, si rivolge ai minatori ricordando che è stata lei a custodire il loro oro, ad aiutarli e consolarli; amica e sorella di tutti, ha sempre dato senza chiedere nulla in cambio: ora chiede l’uomo che ama. I minatori si commuovono, lo sceriffo Rance, che non è malvagio come Scarpia, accetta di non giustiziare il bandito, suo rivale nella legge e in amore, Johnson-Ramerrez è liberato e tutti salutano tra lacrime e singhiozzi i due innamorati che, felici, partono a cavallo.
La prima dell’opera, il 10 dicembre 1910, a New York, con la direzione di Toscanini e la regia di David Belasco, fu uno degli eventi più spettacolari: quarantasette chiamate alla ribalta e una ghirlanda d’argento offerta a Puccini da Gatti-Casazza, impresario della Scala. I critici, però, avanzarono più critiche del solito, non riconoscendo in quell’opera lo stile, la cifra di Puccini. Molti insistettero sulla derivazione di quella musica da Debussy, influenza che Puccini fu così imprudente da ammettere in un’intervista, altri, con maggior equilibrio, riconoscevano nella Fanciulla del West, come l’aveva intitolata con un colpo di genio l’acuta Sybil Seligman, un avanzamento del linguaggio armonico di Puccini, ma sottolineavano come solo il tempo avrebbe potuto dire se il compositore era stato davvero all’altezza del compito che si era assunto musicando un’opera tanto complessa nell’intreccio e tanto rapida nell’azione. Nel periodo immediatamente successivo i dubbi furono confermati: dopo le prime, accolte con favore, di Londra, Roma, Budapest e Parigi, l’opera fu tranquillamente messa da parte e persino in Italia non riuscì ad entrare nel repertorio principale.
Molte ragioni furono addotte, tra le quali la prostrazione di Puccini per la tragedia di Doria Manfredi e l’insolito lieto fine, ma nessuna di queste ragioni può considerarsi valida: gli avvenimenti che condussero al suicidio della giovane Doria, al processo contro Elvira Puccini ed al terremoto familiare che ne seguì ebbero come effetto quello di ritardare la composizione della Fanciulla del West, non certo di impoverirla o di renderla un’imitazione poco credibile di qualcosa di precedente, ed il ricorso al lieto fine è la conseguenza “naturale” dell’eliminazione del quarto atto di Belasco, un’operazione che permette a Puccini di mostrare che se l’errore deve essere pagato – in questo caso con l’esilio – si può pure soffrire senza morire.
Il vero ostacolo alla circolazione dell’opera era un’asprezza inaspettata del linguaggio armonico ed uno stile di scrittura per il canto che spesso si avvicina al “recitar cantando” barocco, con una conseguente diminuzione dell’elemento lirico. In altre parole, Puccini aveva oltrepassato il gusto del pubblico contemporaneo e solo negli ultimi decenni La Fanciulla del West ha riguadagnato il tempo perduto ed è andata ad occupare il posto che le spettava fra le opere pucciniane.
4. Intermezzo I
4.1. “Chi il bel sogno di Doretta”
(La Rondine, Atto I)
Il 26 dicembre, carico di regali costosi per i familiari, Puccini salpò per l’Europa insieme al figlio Tonio. Dopo due giorni trascorsi a Londra dove incontrò Marconi, il 7 gennaio 1911 Puccini era nuovamente a Milano e da quel momento l’anno sarebbe trascorso nelle solite attività, viaggi per seguire le recite delle sue opere e, specialmente, la ricerca di soggetti nuovi. Fu La Fanciulla del West che occupò gran parte dell’anno: una messa in scena al Covent Garden di Londra fu accolta con grande successo di pubblico ma, ancora una volta, i critici ebbero un atteggiamento molto prudente nei confronti del nuovo corso impresso da Puccini al suo comporre.
Puccini incaricò Clausetti, gerente della filiale napoletana di Casa Ricordi, di comporre una garbata risposta che facesse ben capire che tutti i compositori, negli anni, avevano evoluto il loro stile, che per quanto lo riguardava, gli era stato più volte rimproverato di essersi ripetuto e che la sostanza musicale della Fanciulla del West era ancora del tutto personale. La questione del rinnovamento stava molto a cuore a Puccini ed avrebbe voluto che tutti capissero che non si trattava di chiedersi se Puccini fosse vivo o morto ma, piuttosto, comprendessero che egli sarebbe morto davvero, musicalmente parlando, se avesse insistito a rimanere fedele ai suoi “schemi” compositivi. Nel frattempo, mentre la Fanciulla continuava ad essere replicata con successo nei teatri europei, continuava la ricerca di un nuovo soggetto. In quel frangente, Puccini trovò molti consiglieri. Due soli esempi. Da Sybil Seligman arrivò il suggerimento di considerare attentamente il dramma Johannisfeuer di Sudermann, che però Puccini non trovò di proprio gusto, preferendogli il romanzo Two Little Wodden Shoes della scrittrice anglobelga Ouida, nel quale c’era, come dire, l’eroina pucciniana tradizionale, ingannata ma non sedotta da un pittore francese dissoluto, che si uccide quando coglie l’uomo a gozzovigliare con donne di malaffare. Riccardo Schnabl-Rossi, un ricco appassionato di musica con cui Puccini era in contatto epistolare fin dal 1899 e che sarebbe diventato in seguito un suo fidato confidente, gli propose un dramma tedesco che, in un primo tempo, catturò la sua attenzione grazie ad alcuni elementi alla Dickens che conteneva e che, secondo il compositore, avrebbero potuto dar vita a un libretto per un’opera in tre atti; poi, nel bene e nel male, l’interesse per il progetto sfumò.
Fu Giulio Ricordi a proporgli quello che, a prima vista, sembrava un soggetto interessante, Anima allegra dei fratelli Alvarez Quintero. Il testo ha per protagonista una ragazza che va a vivere con una famiglia di parenti puritani e altezzosi, risolve i loro problemi e presiede ad un matrimonio di zingari. Puccini conosceva quel lavoro che era stato rappresentato in Italia fin dal 1909 e non ne era stato poi così entusiasta; ora invece sentiva che, con il lavoro di un buon librettista che irrobustisse l’azione, con personaggi ed episodi nuovi, avrebbe potuto avere successo anche come opera. Il vecchio Ricordi rese a Puccini un ultimo grande servizio presentandogli, nel 191218, Giuseppe Adami, giornalista e commediografo che aveva preparato per l’editore il libretto di un’operetta, Il tappeto rosa, mai realizzata. Puccini lo accettò volentieri, a patto che accettasse di collaborare con un altro librettista. Subito dopo l’incontro con Adami cominciarono i soliti dubbi: Puccini voleva che l’azione fosse spostata nelle Fiandre dall’originaria Spagna perché quell’ambientazione evocava immediatamente il fantasma di Bizet, ma Adami non voleva sentire ragioni per cui il progetto sfumò19 ma, in Adami, Puccini aveva comunque trovato un collaboratore pieno di risorse, docile e paziente.
Mentre accadevano queste cose sul piano professionale, due gravi lutti funestarono quello personale: in aprile morì Ramelde, la sorella prediletta di Puccini, seguita, due mesi dopo, da Giulio Ricordi. La morte del suo editore provocò in Puccini un dolore inesprimibile: Ricordi era sempre stato come un padre per lui ed anche se, in quel momento della sua vita di compositore aveva meno bisogno di essere guidato dalla mano salda ed esperta del “sor Giulio”, Puccini comprendeva che anche i suoi rapporti con la Casa musicale non sarebbero mai più stati gli stessi perché non riusciva a fidarsi di Tito Ricordi, figlio e successore di Giulio, specialmente poi quando gli parve che Tito stesse dando il proprio influente sostegno ad un musicista più giovane, Riccardo Zandonai.
Con il progetto di Anima allegra arenato Puccini tornò ad un vecchio progetto basato su Wilde che Giulio Ricordi gli aveva sempre contestato e ne parlò con Illica, convinto che, mancato il vecchio Ricordi, non ci sarebbero stati altri ostacoli ma si sbagliava perché Tito Ricordi non fu più favorevole al progetto di quanto lo fosse stato suo padre. Nel frattempo premeva, senza successo, perché Puccini accettasse di musicare un testo dannunziano dal titolo La crociata degli innocenti. Il tempo passava senza che si trovasse una soluzione per il nuovo soggetto. Nell’ottobre del 1913 Puccini partì per un viaggio promozionale di Fanciulla del West, destinazione prima la Germania e poi l’Austria, ove conobbe importanti critici musicali e, soprattutto, Franz Lehár che lo presentò all’editore di operette Bertè ed al direttore del Karltheater: da loro arrivò l’invito a comporre un’operetta per Vienna, su testo di Willner, librettista di Lehár, dietro lauto compenso di 200.000 corone. Puccini fu tentato di accettare, non solo per il compenso ma, soprattutto, perché voleva muoversi con maggiore autonomia da Tito Ricordi tanto che, per la prima volta in vita sua, prese l’iniziativa ed accese le trattative con il Karltheater grazie ai buoni uffici del barone Angelo Eisner, suo buon amico.
Dopo gli esordi parigini, l’operetta aveva trovato grande prosperità nella Vienna felix con i lavori di Lehár, di Kálmán e di Johann Strauss jr. del Fledermaus, ma il genere operetta, con i suoi libretti fatti di canto e recitazione, non piaceva a Puccini, tranne forse per la sua intrinseca comicità, perciò egli si dimostrava molto cauto sul soggetto che gli veniva proposto. Nell’aprile del 1914, a pochi mesi dallo scoppio della prima guerra mondiale, Willnert, con la collaborazione di Heinz Reichert, sottopose a Puccini una trama più rispondente ai suoi gusti intitolata Die Schwalbe, tradotto in italiano con La rondine.
Paragonata alla Traviata, da cui sono state eliminate tutte le problematiche di più ampio respiro, La rondine ha per protagonista Magda de Civry, già grisette, ora mantenuta, che cerca di vivere un sogno impossibile. Non c’è più la malattia mortale che immerge Violetta nella febbrile ricerca del piacere che plachi la sua ansia di vita e le dia lo stordimento necessario per non contare i giorni che le rimangono, non c’è più la ferrea moralità borghese, impersonata da Germont padre, che le impedisce un’unione duratura con l’uomo che ama. L’antagonista di Magda è il suo ricco protettore, Rambaldo Fernandez, che controlla i cordoni della borsa; non c’è la morte come condizione di redenzione morale ma soltanto l’abbandono, la situazione che nell’operetta più si avvicina allo scioglimento tragico. Tra gli invitati nel salotto di Magda c’è il poeta Prunier, che porta il soprannome con cui Maupassant si presentava alle serate licenziose con gli amici. Prunier corteggia la petulante Lisette, cameriera di Magda, che ficca il naso e mette bocca dappertutto; se la porta al Bullier, locale notturno alla moda, mentre lei usa gli abiti e il trucco della padrona, come accade nel Fledermaus dove padrona e cameriera si cambiano gli abiti. Magda, stanca del disincanto mondano, decide di indossare il suo vecchio abito da grisette per tuffarsi nella notte parigina a caccia di un amore puro. In questo libretto c’è molta malinconica allegria; Magda, ad apertura d’opera, è in fondo il doppio che Mimì avrebbe potuto essere se non fosse morta per la tisi, se il Viscontino l’avesse introdotta nel bel mondo. Nella follia consumistica ed edonistica in cui vive Magda, come una rondine che migra verso il mare “[…] verso il Sole” rimane folgorata dall’amore per il giovane, ingenuo e provinciale Ruggero Lastouc, figlio di un amico d’infanzia del suo ricco amante Rambaldo, che sogna soltanto una quieta unione coniugale protetta dalla benedizione materna. Lo scioglimento della situazione, nel III Atto, avrebbe dovuto avvenire con un telegramma che informava Ruggero del passato della sua amante.
A Puccini l’idea dapprima piacque, poi la trovò assurda, protestando con Adami che, dal momento che Ruggero non aveva certo trovato Magda in un monastero, non si capiva che razza di amore fosse il suo se bastava un attimo per farlo crollare20. La soluzione che Adami trovò fu quella di sostituire il telegramma anonimo con una lettera della madre di Ruggero che benediceva le nozze del figlio per cui la situazione passava a Magda che nel duetto finale insiste con un disperato Ruggero sulla necessità di lasciarlo: i “voli di rondini nel cielo lontano” sopra il Mediterraneo scoprono l’illusoria felicità dei due impari amanti e il passato della donna deve essere confessato prima di varcare la sacra soglia del talamo nuziale.
Anche a causa delle difficoltà della guerra, La rondine non fu completata che nell’aprile del 1916. Il problema, a quel punto, era trovare un editore italiano. Tito Ricordi non volle partecipare, formalmente perché gli austriaci avevano posto condizioni troppo onerose, più probabilmente perché era seccato per il fatto di essere stato messo di fronte ad un fatto compiuto e voleva dare a Puccini una lezione. Fortunatamente, la soluzione era a portata di mano: c’era Casa Sonzogno, un tempo votata all’opera verista, che si trovava in cattive acque dopo che il pensionamento di Edoardo aveva portato alla direzione i suoi litigiosi nipoti, dei quali uno si dimise in seguito ad una serie di operazioni finanziarie disgraziate, mise in piedi una propria casa editrice presso la quale si trasferirono subito Mascagni, Leoncavallo e Giordano, impressionati dalla pessima gestione dell’altro erede che portò casa Sonzogno ad un passo dalla bancarotta. La morte improvvisa di costui permise all’altro di riaccorpare l’impresa, che intitolò, con il proprio nome di battesimo, Casa Lorenzo Sonzogno, e di non farsi scappare un’opera del più famoso compositore italiano vivente. Inoltre Lorenzo Sonzogno comprò dall’editore viennese il diritto di dare la prima rappresentazione fuori dall’Austria: il luogo scelto fu il Teatro dell’Opera di Montecarlo ove l’opera fu rappresentata, in prima assoluta, il 27 marzo 1917; nel cast una giovane Gilda Dalla Rizza nel ruolo di Magda e Tito Schipa come partner. L’accoglienza fu entusiastica, anche da parte della critica, che apprezzò molto il nuovo genere, metà opera e metà commedia musicale.
La prospettiva cambiò decisamente in Italia: la prima rappresentazione a Bologna fu molto applaudita dal pubblico, ma i critici lamentarono che quell’opera non era né carne né pesce; stessa storia a Milano. La rondine continuò a circolare ma già nella primavera successiva Puccini apportò delle modifiche che vennero sperimentate al Teatro Massimo di Palermo il 20 aprile 1920, poi première a Vienna il 9 ottobre: la stampa, pur mostrando benevolenza all’autore, trovò da ridire sia sul libretto che sulla realizzazione scenica. Puccini non era affatto soddisfatto e apportò nuove modifiche all’opera, soprattutto al III Atto, che sottopose ad una revisione radicale. Nonostante le insistenze di Puccini perché la Rondine venisse eseguita nella versione definitiva, questa non fu mai rappresentata durante la sua vita: dopo la prima assoluta, infatti, La rondine era andata male all’estero, inoltre nel 1920 era morto Lorenzo Sonzogno ed i suoi eredi non si sentivano affatto obbligati a darsi da fare per un’opera di cui c’era così scarsa richiesta, perciò la terza edizione non fu mai messa in circolazione.
Come i pipistrelli straussiani, le rondini pucciniane volano soltanto di notte, nei sogni, quando le norme della buona società dormono: Magda ritorna tra le braccia del ricco e generoso Rambaldo e riapre il suo salotto mondano dopo aver riposto il suo abituccio giovanile da grisette risparmiata – almeno lei – dalla morte, certo poco intonata ad una “commedia lirica” come questa.
5. Atto III
5.1. “Vieni nel mio tabarro!”
(Trittico – Il tabarro)
L’inizio del 1913 segnò la rottura definitiva tra Illica e Puccini a causa del dramma La Houppelande, caldeggiato dal compositore che pensava già da tempo di trarvi un’opera e, probabilmente, Illica si era risentito del fatto, riferitogli da Tito Ricordi, che Puccini avesse suggerito la collaborazione con il giovane drammaturgo e futuro librettista Renato Simoni; tanto si erano deteriorati i rapporti tra i due che quando Illica morì, nel 1919, Puccini si limitò ad esprimere il proprio cordoglio, ma non partecipò ai funerali. Nel frattempo era apparso sulla scena un altro probabile collaboratore, il critico, drammaturgo e librettista Giovacchino Forzano.
La sua carriera si era svolta in modo curiosamente parallelo a quella di Antonio Ghislanzoni, librettista dell’Aida di Giuseppe Verdi: dopo aver studiato medicina e legge, debuttò in campo artistico prima come baritono, poi come giornalista e critico. Contattato da Puccini perché traducesse in italiano un libretto francese tratto da La Houppelande, Forzano non accettò personalmente il lavoro ma mise Puccini in contatto con l’ex governatore dell’Eritrea, Ferdinando Martini, che produsse dei versi non adatti, tuttavia, ad essere messi in musica.
La Houppelande, atto unico di Didier Gold, scritto nel 1910, un grand-guignol parente stretto del Ventre de Paris zoliano, era ambientato sulla Senna: il capitano di una chiatta, Michel, viene tradito dalla giovane moglie, Georgette, che si sceglie per amante l’altrettanto giovane Louis, scaricatore al servizio del marito. Scoperto l’adultero, Michel lo uccide, lo avvolge nel proprio tabarro per mostrarne poi brutalmente il cadavere a Geogette; nello stesso momento un altro scaricatore diventato ubriacone a causa dell’infedeltà della moglie, spunta da una taverna sulla banchina mostrando il coltello con cui ha appena ucciso la donna.
Puccini era stato molto chiaro con Adami rispetto al tipo di ambientazione che voleva: la Senna “protagonista” del dramma , con il continuo via vai di battellieri rassegnati a fare da controcanto alle ansie di Giorgetta che sogna la terraferma, un amore diverso da suo marito Michele e un luogo che non le ricordi continuamente il figlio che ha perso. Adami afferrò al volo ciò che Puccini intendeva, e il libretto de Il tabarro fu pronto a tempo di record. Fino a quel momento, Puccini aveva pensato a una serata composta di due opere, una tragica e una comica; tornò all’idea di triade, di tre argomenti in forte contrasto fra loro ed il primo era già pronto.
Quando Puccini verificò il lavoro di Adami ne fu entusiasta: in un angolo della Senna sta ancorato un barcone, la chiatta di Michele, cinquantenne. L’imbarcazione, nella cabina linda e ben tenuta, ingentilita da piante di geranio, porta i segni di una mano femminile, quella di Giorgetta, moglie venticinquenne di Michele. Sul barcone lavorano Luigi, ventenne, il Tinca, trentacinquenne, il Talpa, cinquantacinquenne, sposato con la Frugola, a sua volta cinquantenne. La precisione sull’età dei personaggi non è casuale: se il matrimonio tra il Talpa e la Frugola funziona decentemente perché tra i due ci sono solo cinque anni di distanza, i venticinque anni che separano Michele e Giorgetta sono forieri di un rischio che, puntualmente, si avvera. Giorgetta non ama più Michele; dopo Pinkerton, è il secondo caso di cronaca di un amore finito ed è il primo ed unico nella librettistica pucciniana, di una donna molto esigente che si disamori di un uomo pur in presenza di una nuova passione.
Il tabarro è l’unico caso in cui Puccini si interessi alla rappresentazione del mondo del lavoro salariato; lo sfondo dell’adulterio, qui, non è qualche salotto elegante dove si possa, in modo discreto, accomodare le cose; Michele non è un uomo violento con la moglie anche se lei, rediviva Zerlina, qualche volta, preferirebbe i lividi delle percosse sul corpo piuttosto che i lividi del silenzio nell’anima. La spinta degli eventi verso il precipizio è la mancanza di una cultura della discrezione ipocrita che caratterizza altri ambienti: i due giovani amanti, Giorgetta e Luigi, praticano senza cautela il tetto coniugale di lei dal momento che le classi subalterne non possono disporre di locali discreti ed accoglienti dove consumare relazioni proibite. Tutto il mondo di questi personaggi è racchiuso nella chiatta che fa la spola tra Parigi e Rouen, tutto intorno si svolge la vita con le sue felicità, i dolori, i suoni, la gente, tra cui un suonatore di organetto che passa cantando una canzone triste su una certa Mimì morta per amore. Nostalgia di Bohème rievocare il binomio di amore e morte riassunto in quel “Mimì”?
Passa anche la Frugola, moglie del Talpa, un’accattona che fa incetta di tutto, felice di aver trovato un cuore di manzo per nutrire Caporale, il suo gatto filosofo la cui morale – “ron ron: meglio cibarsi/ con due fette di cuore/ che logorare il proprio nell’amore.” – è ampiamente condivisa dalla donna. In questo quadro di miseria sociale del primo Novecento, così precisamente tratteggiato, si staglia Luigi, ben consapevole del proprio miserabile presente e poco disposto ad accettarlo; tuttavia Luigi non attua nei confronti del padrone una logica di lotta politica, ma percorre la via più subdola e pericolosa della rivalità in amore.
La bruciante passione tra Luigi e Giorgetta cade nella trappola tesa dalla disperazione di Michele, marito che non si sente più amato, padre che ha perso un figlio neonato, amante sfuggito che deve rendersi conto del tradimento, anche se ancora non sa chi incolparne. Il pensiero della giovane moglie tra le braccia di un amante trasforma la sua malinconia in proposito omicida, d’accordo con un’altra perla filosofica della Frugola, cioè che la morte sia rimedio ad ogni male.
Giorgetta, la graziosa e bionda proletaria che sogna nell’ascesa sociale la fuga dalla bruttezza materiale del luogo in cui è costretta a vivere, che pensa di aver trovato una via di salvezza nell’adulterio, nella subalternità ad un uomo diverso dal marito, più giovane, più colto, rappresenta bene la drammaturgia pucciniana: donna di poche parole e incontrollati desideri, Giorgetta sente il peso della riconoscenza per Michele, in fondo un uomo onesto, con il quale condivide l’angoscia, il lutto per il figlio perduto e, prima del colpo di scena finale, ha paura, è presa dal rimorso di aver dato un dolore al marito, chiede perdono, brama espiare. Troppo tardi: accolta macabramente nel tabarro del marito, un tempo luogo sicuro dell’affetto e della protezione ed ora rivelatore dell’orrore e della morte, Giorgetta, col volto violentemente piegato verso quello del cadavere di Luigi non potrà avere la catarsi di tante altre eroine pucciniane liberate dal dolore con la morte, ma continuerà a vivere portando negli occhi e nel cuore il lato mortale e oscuro dell’amore.
5.2. “La Vergine m’ascolti e così sia”
(Trittico – Suor Angelica)
Terminato nel 1916 il primo atto unico, Puccini continuava da insistere con Adami per altri soggetti nuovi con cui completare la serata e, dopo Il tabarro, gli occorreva il dramma mistico per continuare a dar corpo alla sua idea. Dal momento che nuovi soggetti non ne arrivavano, a parte l’offerta di Gold di un suo dramma in due atti, che fu rifiutato, Puccini pensò di far rappresentare Il tabarro a Roma o, forse, a Torino, insieme alle Villi ma il progetto naufragò data l’indisponibilità, in quegli anni di guerra, di cantanti adatti. Fu Forzano che soccorse Puccini presentandogli due pezzi di sua invenzione. Il primo, Suor Angelica, che presenta qualche riferimento al Jongleur de Notre-Dame di Massenet, un lavoro del 1902, è ambientato in un monastero, protagonista una suora di nobile lignaggio, costretta dalla famiglia a prendere il velo dopo aver dato alla luce un bambino illegittimo, la quale si avvelena quando apprende da una parente spietata la notizia della morte del figlio. Il suo peccato, però, viene perdonato dalla Vergine Maria, che le appare durante l’agonia e le porta, tenendolo per mano, il suo bambino perduto.
A Puccini il soggetto piacque moltissimo; ancora una volta si rivolse al suo amico don Panichelli, che tanto bene lo aveva documentato al tempo di Tosca, per avere un testo liturgico da far cantare agli angeli nel momento dell’apparizione della Madonna e nuovamente don Panichelli gli fu d’aiuto. Puccini aveva però anche una fonte più a portata di mano da usare come modello: il convento di Vicopelago, dove sua sorella Iginia era madre superiora. Sebbene il suo ordine fosse di clausura, Iginia ottenne dal vescovo un permesso speciale affinché suo fratello potesse far visita al convento: lì Puccini poté verificare alcuni passaggi della nuova opera davanti alla comunità delle suore, molte delle quali si commossero profondamente. Non ci sono documenti che aiutino a seguire la genesi e lo sviluppo di Suor Angelica ma dalle lettere di Forzano a Tito Ricordi risulta chiaro che tutto procedeva senza intoppi.
Articolata in sette stazioni21 come una sorta di Via Crucis, l’azione di Suor Angelica si svolge in un monastero alla fine del Seicento, nel mese di maggio, tra fontane e fiori, bagliori di luce che incantano le suore e piccoli insetti dispettosi. Il giardino è il teatro principale della storia di Angelica, esperta di erbe, sempre pronta ad offrire il rimedio giusto per chiunque soffra. In questo atto unico tutto al femminile il fitto chiacchiericcio, le preghiere, i passi svelti e leggeri, le piccole punizioni, gli stupori infantili fanno da cornice al cuore dell’intreccio, il colloquio tra la protagonista e la terribile Zia Principessa.
Fino a Suor Angelica il concetto di espiazione era sotteso alle vicende dei protagonisti e dei loro antagonisti, ora, invece, è aperto: la monacazione è già da sola una forma di rinuncia ai piaceri del mondo, in particolare a quelli dell’amore, ma se le monache sono in convento senza aver mai conosciuto le passioni, Angelica ci si trova per scontare una pena senza fine per una grave colpa, socialmente inaccettabile, quella di aver messo al mondo un bambino illegittimo. Fino al momento del drammatico colloquio con la perfida Zia, la giovane suora ha tenuta nascosta nel cuore la pena per i suoi sette anni di monacazione, lontana dal figlio e dalla vita che le è congeniale, vittima, come la focosa e pur sinceramente cristiana Tosca, dell’ipocrisia dei cattivi cattolici. La Zia Principessa, spietata esecutrice delle regole sociali che hanno condannato la nipote per aver macchiato il “bianco stemma” della casata, esige da Angelica la rinuncia a tutti i propri averi ed ai diritti di primogenita in favore della sorella, Anna Viola, che sta per sposarsi: come Violetta deve abbandonare Alfredo per permettere alla sorella di lui di sposarsi, così Angelica deve rinunciare a tutto per il matrimonio della “sorellina bionda”, come la chiama in un impeto di tenerezza che non scuote minimamente la Zia, che per lei ha solo una parola “Espiare!”, per sempre, senza fine. Ed Angelica avrebbe continuato ad espiare, ubbidendo all’arcigna Zia, se non avesse saputo che un “fiero morbo” si era portato via il suo bambino due anni prima. La notizia le toglie ogni volontà di vivere e, da esperta qual è, compone un mazzo di fiori da cui ricava una pozione velenosa per porre fine a tanto dolore. Lo scrupolo religioso si affaccia, però immediatamente nello spettro della dannazione eterna riservata ai suicidi, ma Maria, Madre delle Madri, ha pietà di quella madre sfortunata, le compare e, come Suzuki sospinse il biondo bambino Dolore verso la sua giovane mamma moritura, sospinge dolcemente verso Angelica moribonda il suo bambino così amato e mai conosciuto.
Con la sua ambientazione monacale Suor Angelica, apparentemente, si allontana dal verismo sentimentale pucciniano, invece ne fa parte a pieno titolo: la protagonista soffre per un duplice amore, quello antico per un uomo perduto e quello sempre presente e straziante per il figlio lontano, che apre nel suo intimo delle ferite note, patite almeno da Butterfly e da Giorgetta, lontanissime dal concetto stesso della clausura. La stessa apparizione della Madonna, nel tripudio dei cori angelici che anche Goethe nel Faust non aveva disdegnato, prelude alla definitiva apoteosi dell’amore dell’incompiuta Turandot.
Un lungo e tormentato viatico di modelli terreni forza verso il cielo, in due direzioni estreme: quella mistica di Suor Angelica e quella mitica, favolosa, fantascientifica, dell’orientale Principessa di gelo.
5.3. “Diseredati! Sì! Diseredati!”
(Trittico – Gianni Schicchi)
Rimaneva da trovare il soggetto comico per completare la trilogia. La ricerca di un argomento adatto portò Puccini molto lontano, fino a Bernard Shaw, Sacha Guitry, alla coppia del momento Flers e Cavaillet. Fu nuovamente Forzano a venirgli in aiuto, proponendogli pochi versi del canto XXX dell’Inferno di Dante Alighieri: nella decima bolgia, quella dei falsari, due ombre si addensano come maiali appena liberati dal porcile e Griffolino spiega a Dante che “Quel folletto è Gianni Schicchi,/ e va rabbioso altrui così conciando.” e che, con l’inganno, aveva privato la famiglia Donati di un’eredità, impersonando il defunto e dettando un nuovo testamento a proprio favore che, nel libretto di Forzano, soddisfa la nobile intenzione di unire due giovani innamorati. Sulle prime sembrava che Puccini non fosse troppo entusiasta di quel soggetto, ma quando Forzano, anche sulla scorta di un commento pubblicato per la prima volta nel 1866, ampliò l’idea, Puccini se ne innamorò.
L’azione si svolge nel 1299, a Firenze. Dante, coinvolto in quella faccenda per via della moglie, Gemma, che era una Donati, non trattò certo con umorismo l’impresa di Schicchi, esponente di quella “gente nova” che detestava. Nel libretto di Forzano, Schicchi è impegnato a piegare l’orgoglio, l’avidità e il cinismo della famiglia Donati, fa di quell’orgoglio, che Dante aborriva, un uso difensivo ed offensivo, procurandosi il “subito guadagno” della mula, della casa e della vigna di Signa.
Nei libretti precedenti il sogno della quiete familiare, degli affetti domestici, era spesso per i protagonisti una risorsa estrema; nel Gianni Schicchi, dove le donne tornano ad un ruolo realisticamente subalterno, esplicitato nel “Donne! Rifate il letto […] Zitte. Obbedite!” perentorio del protagonista, si rivelano le tensioni cannibalesche che si annidano nelle famiglie e il tema dell’amore si intreccia con quello della disparità sociale tra le due famiglie, Schicchi e Donati, le cui complesse relazioni disegnano un quadro di umorismo noir con opposti egoismi ad attanagliare un idillio.
Come nel Tabarro, abbondano i dati anagrafici sui personaggi: Gianni Schicchi è un cinquantenne padre di una figlia, Lauretta, di 21 anni; tra i Donati, morto il ricco Buoso tra l’indifferenza affettiva generale, il potere passa ai due anziani cugini, Simone, settant’anni, e Zita la Vecchia, sessantenne, tutrice del giovane nipote Rinuccio, 24 anni, innamorato di Lauretta.
Il parente più stretto di Buoso è il cognato, Betto di Signa, un poveraccio di età indefinita, ridotto a rubare argenterie durante la veglia funebre; il vecchio Simone ha un figlio, Marco, di 45 anni, sposato con la trentottenne Ciesca; c’è poi Gherardo, un altro nipote di Buoso, sposato con Nella, che ha 34 anni, e i due sono genitori di Gherardino, un bambino di sette anni, unico caso di bambino pucciniano né malato né orfano. A completare la tavolozza, nell’intento comico del plurilinguismo, ci sono il medico bolognese Maestro Spinelloccio, diretto discendente del Dottor Balanzone, che si esprime storpiando le parole sia in grammatica sia in pronuncia, il notaio Messer Amantio di Nicolao, Pinellino calzolaio e Guccio tintore che, con l’appena citato Cisti fornaio, danno alla farsa un’atmosfera anche boccacciana.
La scena rappresenta la camera da letto dove Buoso Donati giace cadavere: sono le nove del mattino e quasi tutti i ceri sono accesi, per la stanza si sentono i falsi lamenti e le ipocrite espressioni di afflizione dei parenti che stridono con quanto sta passando di bocca in bocca cioè che Buoso abbia lasciato tutto ai frati. La prospettiva, sempre più concreta, di essere stati diseredati, spinge i parenti a far intervenire Gianni Schicchi, che dovrà fingere di essere Buoso e testare nuovamente a favore di tutti loro. Ma Firenze punisce chi si sostituisce ad un testatore con il taglio della mano e l’esilio ed è proprio con l’agitare la mano a moncherino che Schicchi ottiene, ricattandoli, l’omertà dei parenti.
La vecchia Zia Zita, alter ego borghese della Zia Principessa di Suor Angelica, ostacola il matrimonio tra la figlia di Gianni Schicchi ed il nipote Rinuccio, per il quale vuole una moglie ben dotata; per questo Rinuccio convoca il futuro suocero e facilita la beffa, ricorrendo al villano astuto così come il giovane innamorato della commedia plautina si appellava all’arguzia del servo. Come accade in tutte le rivoluzioni, anche quella della “gente nova” vede un giovane borghese illuminato allearsi con ceti inferiori. Schicchi possiede una coscienza di classe e un certo orgoglio al quale richiama Lauretta, che si scioglie in lacrime mentre la vecchia Zita le comunica che mai darà al nipote il permesso di sposare una “senza-dote”, ed è un padre che opera in favore della figlia con una certa energia.
Negli ultimi due libretti pucciniani ricompaiono i padri ma, se in Turandot Altoum e Timur saranno due vecchi deboli e inascoltati, in Gianni Schicchi la figura paterna è determinata e pragmatica. Nulla a che fare, comunque, con i modelli ottocenteschi delle Villi e di Edgar.
Lauretta, che Puccini voleva interpretata da una donna dall’aspetto ingenuo, minuta e dalla voce fresca, è la più remissiva delle donne pucciniane: non ha altra pretesa che quella di sposarsi con Rinuccio a Calendimaggio. Figlia di un inurbato, Lauretta possiede indiscusse risorse di sacrificio che di fronte ad un’interpretazione ottocentesca di barriere di classe e senso dell’onore, avrebbero esasperato il conflitto e non le avrebbero lasciato altra via che un tuffo in Arno dopo una drammatica cabaletta. Forzano, però non crede più in quei modelli e va oltre lo stesso veneratissimo d’Annunzio con uno Schicchi che la invita ad andare “sul terrazzino” a portare “i minuzzolini all’uccellino”, utilizzando una serie di vezzeggiativi che sottolineano il candore virginale della figlia, che non deve essere turbato dall’aver preso scientemente parte alla macabra truffa. La giovane prenderà dimora stabile in una casa rubata dal padre con la complicità del marito, la farina del suo pane sarà macinata da mulini rubati e trasportato da una mula rubata ma, essendone del tutto ignara, vivrà felice, al riparo dalle brutture del mondo. La sua ingenua incoscienza, vera novità di questo personaggio, la risparmierà da espiazione e morte: per Lauretta, tutta candore e sogni modesti, basta un po’ del tormento di fidanzata ansiosa.
Terminate sia Suor Angelica, il 14 settembre 1917, che Gianni Schicchi, il 20 aprile 1918, era arrivato anche il titolo complessivo dell’opera, secondo quanto testimoniato dal giornalista Guido Marotti, amico di Puccini, nel corso di una partita a carte tra amici, Forzano compreso: Puccini propose Tre-no, nel caso la serata risultasse un fiasco; qualcuno propose Tripode, scartato perché giudicato troppo funereo, poi altri titoli, fino a Trittico che, nonostante le obiezioni, piacque a Tito Ricordi e fu accettato22.
Nonostante la vis comica di Gianni Schicchi, la composizione del Trittico avvenne in giorni bui sia per l’Italia che per Puccini. Nell’ottobre 1917 la disfatta dell’esercito italiano a Caporetto aveva fatto ritrarre quel che rimaneva delle truppe per 150 chilometri dall’Isonzo fino al Piave e la situazione non sarebbe migliorata fino alla riconquista di Vittorio Veneto, l’anno successivo, quando però l’epidemia di spagnola già incombeva sulla popolazione, facendo ottanta vittime nella sola Torre del Lago e falcidiandone, complessivamente, più di quante ne avesse mietute la guerra. Sulla famiglia Puccini si abbatterono le disgrazie: in agosto morì una delle sorelle, Tomaide, Elvira scoprì da una lettera del console di Lugano che il visto al marito era stato revocato e questa scoperta fu l’occasione per l’ennesimo scoppio di gelosia e, l’estate successiva, Tonio, invischiato in un’infelice storia d’amore, tentò il suicidio con un’overdose di laudano. Fortunatamente si salvò.
Sul fronte del lavoro rimaneva il problema della prima rappresentazione del Trittico. L’idea di darla a Buenos Aires fu scartata da Puccini con il pretesto che mai avrebbe acconsentito a far rappresentare all’estero un’opera così complessa senza averla prima vista in Italia. Sorprende, perciò, che ne abbia accettato la prima rappresentazione al Metropolitan di New York, dato che in quel momento la sua presenza non era possibile. Come al solito, egli si preoccupò molto della messa in scena, soprattutto di Tabarro, per il quale si preoccupava che i cantanti non cantassero troppo avanti anche in quei teatri – pochi allora – che avevano un proscenio ampio. Tutto doveva essere nuovo ed originale, non come esperimento, ma come parte integrante della concezione dell’opera, quel “verismo” trattenuto, lontano dalla retorica e dall’enfasi vistosa.
La prima ebbe luogo il 14 dicembre 1918, senza la presenza di Puccini perché, nonostante la fine della guerra un mese prima, nell’Atlantico c’era ancora il pericolo di mine inesplose. L’impresario Gatti-Casazza mandò a Puccini un resoconto entusiastico della serata ma le recensioni, in realtà, furono alterne: piacque molto Gianni Schicchi, per la sua comicità e le trovate ingegnose; qualche critico trovò Il tabarro inferiore a Cavalleria e Pagliacci, per Suor Angelica ci furono le critiche più ingenerose. Il Trittico, comunque, continuò ad essere rappresentato integralmente per altre due stagioni, prima di essere smembrato e la prima a soccombere fu, naturalmente, Suor Angelica. Per Puccini era più importante la prima italiana, data a Roma, al Teatro Costanzi, l’11 gennaio 1919. Come a New York i critici si pronunciarono a favore di Gianni Schicchi, trattarono gentilmente Suor Angelica, definendola l’opera poetica del Trittico, e molte riserve furono espresse sul Tabarro, del quale si sottolineò lo spietato “verismo”, genere che comunque in Italia aveva fatto il suo tempo.
Tra il pubblico sedeva Arturo Toscanini: anni prima aveva letto il libretto del Tabarro e l’aveva bollato come robaccia della peggior specie e, in occasione della prima romana, lasciò con ostentazione il teatro prima della chiusura del sipario e nemmeno provò a nascondere il proprio disgusto, un atteggiamento che, ovviamente, offese a morte il compositore e, per qualche tempo, Toscanini andò ad ingrossare la fila dei cosiddetti “pig”23.
Il rapporto tra Puccini e Toscanini fu alquanto singolare, unico sotto molti aspetti. Erano quasi coetanei, Toscanini di nove anni più giovane, opposti per carattere, gusto e temperamento: Puccini fragile e introverso, Toscanini estroverso, dinamico, grintoso e decisionista. Toscanini non amò mai particolarmente la musica di Puccini il quale, invece, lo ammirava moltissimo e lo considerava un direttore di rara intelligenza. Tra gli alti e bassi del loro rapporto personale e professionale, ci fu almeno un episodio destinato a produrre tra i due un vero e proprio conflitto, durato parecchi anni. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Toscanini era un deciso interventista e, come molti artisti capeggiati da Gabriele d’Annunzio, si era schierato a favore della Francia; Puccini, invece, simpatizzava per gli imperi centrali, se non altro perché in Germania ed in Austria le sue opere erano amate ed ammirate mentre in Francia le snobbavano. Per questo Puccini si rifiutò sia di firmare un documento, sottoscritto da molti altri artisti, contro il bombardamento tedesco su Reims, che di collaborare ad un’iniziativa promossa dal romanziere Hall Caine, ugualmente condivisa da molti intellettuali ed insigni personalità, per rendere omaggio al sovrano ed al popolo del Belgio proditoriamente attaccati dai tedeschi. Il rifiuto di Puccini provocò uno scalpore enorme e venne pesantemente stigmatizzato, in particolare da Toscanini che minacciò anche di prenderlo a schiaffi, nel caso si fossero malauguratamente incontrati24. La scelta di Toscanini come direttore della prima del Trittico a Londra prevista per la stagione 1920 era, pertanto, fuori discussione25.
Il pubblico accolse Puccini con grandissimo entusiasmo, anche se circolava l’insinuazione che ciò fosse un tributo all’autore di Bohème, Tosca e Madama Butterfly piuttosto che a quello dell’ultima opera. Subito dopo la prima cominciò lo smembramento del Trittico, nonostante le vivaci proteste di Puccini dall’Italia, addolorato per il fatto che ad essere penalizzata fosse soprattutto Suor Angelica, che continuava a ritenere la migliore delle tre opere. Dopo una recita a Bologna nel 1921, l’ultima ripresa importante fu alla Scala, nel gennaio 1922.
L’idea di mettere insieme in un’unica serata tre opere che fossero tra loro complementari per contrasto fu idea personale di Puccini e non c’erano precedenti in proposito. L’idea del contrasto, forse non sarebbe stata sufficiente se non si fosse trovato un filo conduttore: forse fu proprio Forzano a trovarlo nella rappresentazione della morte, che nel Tabarro è trattata con brutalità, in Suor Angelica in modo sentimentale, con graffiante cinismo in Gianni Schicchi. Rimaneva il problema della lunghezza: durante le prove a Bologna nel 1921, Puccini definì quelle tre opere “lunghe come un cavo transatlantico”26 ma, nonostante tutto, continuò a insistere perché il Trittico fosse sempre rappresentato nella sua interezza.
6. Atto IV
6.1. “All’alba vincerò”
(Turandot, Atto III, Quadro I)
Nel 1919 Puccini, appena nominato Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, tornò a Torre del Lago sia per attendere, con gli ultimi ritocchi, alla seconda edizione delle sue tre opere in un atto, da pubblicare separatamente, sia per portare a termine un incarico che, francamente, non gli piaceva ma al quale non aveva potuto sottrarsi, cioè la composizione di un inno celebrativo della vittoria su testo del poeta Fausto Salvatori. L’incarico era stato dato a Puccini, in maniera abbastanza inaspettata, durante un banchetto offerto in suo onore dopo la prima romana del Trittico, dal sindaco di Roma in persona. Preso alla sprovvista Puccini aveva accettato, ma i versi da musicare non gli piacevano ed era inquietante per lui pensare di dover scrivere in uno stile popolare e in un’estensione adatta alle voci dei bambini. Comunque fosse, intorno alla fine di marzo terminò l’Inno a Roma, composto sulla scia di Elgar e delle sue marce Pomp and Circumstance, lavoro del quale non fu mai soddisfatto.
Il paese era in una situazione difficile, nonostante tutte le celebrazioni della vittoria e della pace; le promesse del Trattato di Londra erano vanificate dal fatto che il presidente americano Wilson rifiutava di riconoscerne la validità e, mentre gli altri Paesi vincitori, come la Francia e la Gran Bretagna si vedevano assegnare protettorati e mandati, l’Italia ebbe il Sud Tirolo, Trieste e dintorni, tutti territori che, peraltro, rivendicava già da tempo. Il risultato fu una situazione di disoccupazione diffusa, aggravata da serrate e scioperi e Puccini, il cui conto in banca era molto più che in attivo, venne considerato una specie di pescecane arricchito. La morte, intanto, continuava a fare vittime intorno a lui, privandolo di parenti ed amici27.
Come sua ormai vecchia e consolidata abitudine, Puccini continuava a cercare un soggetto nuovo: dopo aver fatto visita a Parigi a Tito Ricordi, da poco estromesso dalla ditta di famiglia per una serie di speculazioni sbagliate, in agosto Puccini si mise al lavoro con Adami per la revisione della Rondine in vista di una rappresentazione a Vienna. Quella fu l’occasione di rinverdire una vecchia conoscenza che risaliva al 1904, quando in una lettera a Giacosa Puccini chiedeva notizie di Renato Simoni.
Nato a Verona nel 1875 Simoni, come prima di lui Giacosa, era direttore della “Lettura” e del predecessore possedeva la stessa autorevolezza. Come Forzano, Simoni era drammaturgo, critico, regista, e Puccini aveva preso in considerazione l’idea di farlo lavorare con Illica al libretto di Tabarro. Da allora Simoni aveva fatto molta strada ed aveva dato ottime prove di sé scrivendo una biografia di Carlo Gozzi28 e adattando Madame Sans-Gêne di Sardou per la musica di Umberto Giordano. Fu probabilmente a Milano, nel marzo del 1920, che Simoni propose per la prima volta ad Adami e a Puccini la Turandot di Gozzi come possibile soggetto. A Puccini il soggetto piacque, tanto che da Roma, dove era andato per una replica del Trittico, scrisse a Simoni il proprio apprezzamento29.
L’antica fiaba della principessa la cui mano può essere conquistata solo grazie alla soluzione di tre indovinelli, pena il taglio della testa dello spasimante in caso di fallimento, era entrata nella letteratura europea grazie ad una raccolta settecentesca di racconti popolari arabi tradotti in francese30. Da quella raccolta era passata a Carlo Gozzi per la quarta delle sue “fiabe teatrali”, tutte rappresentate a Venezia negli anni ‘60 del Settecento. Tra tutte le sue fiabe, Turandotte è l’unica in cui non c’è alcun intervento della magia. A mantenerla viva durante l’Ottocento fu soprattutto l’adattamento fatto da Schiller per il Teatro di Corte di Weimar nel 1802. Due italiani lo avevano messo in musica prima di Puccini: Antonio Bazzini, già insegnante di Puccini durante gli anni milanesi del Conservatorio, aveva debuttato alla Scala con una Turanda nel 1876 e poi Ferruccio Busoni, che presentò una Turandot a Zurigo nel 1917, il cui modello dichiarato era Il flauto magico di Mozart.
Già alla fine di marzo del 1920 Puccini inviò ad Adami precise indicazioni dalle quali partire per il libretto: musica cinese per ottenere il colore locale e strumenti cinesi sul palcoscenico, l’aggiunta di un’altra figura, Liù, che non è presente in Gozzi, per dare un tocco di fascino, le maschere veneziane trasformate in Ping, Pong, Pang, da tenere un po’ ai margini dell’azione31. Il lavoro sul nuovo soggetto procedeva tra alti e bassi d’umore: Puccini stava per compiere sessant’anni ed il pensiero del trascorrere del tempo lo angosciava al punto che pensò anche di sottoporsi a trattamenti chirurgici di ringiovanimento, fantasie da cui lo strappò bruscamente la morte di Iginia, la sorella monaca. Non fosse bastato questo, nell’estate del 1922 a Ingolstadt, nei pressi di Monaco, accadde un incidente tanto spiacevole quanto premonitore: durante una cena un osso d’oca si conficcò nella gola di Puccini e fu necessario ricorrere ad un medico per estrarlo. Non è possibile, certo, imputare a quell’incidente l’insorgere del tumore che, due anni dopo, avrebbe portato Puccini alla morte, ma è quantomeno impressionante la coincidenza.
Nel frattempo, Puccini tormentava Adami e Simoni, nei quali si ostinava a rivolere Illica e Giacosa, con idee e suggerimenti per il libretto, con le richieste di cambiamenti nella lunghezza degli atti alle quali i due letterati, in particolare Adami, rispondevano con altrettante richieste di revisioni e cambiamenti delle soluzioni musicali. Nonostante tutto, però, Puccini era abbastanza ottimista sul procedere del lavoro. Mancava ancora il duetto finale, che andava a rilento specie perché il mal di gola, che lo tormentava già da mesi, si era fatto più insistente. Dopo un po’ di tempo passato ad aspettare che la cosa si risolvesse da sola Puccini si risolse ad andare a Salsomaggiore per le cure termali, continuando a rivedere, correggere, spedire materiale ai suoi collaboratori. Finalmente, nel settembre del 1924 Simoni spedì il duetto finale di Turandot a Puccini, che ne fu pienamente soddisfatto. La prima fu fissata per l’aprile del 1925.
In questo dramma, rispettoso delle unità di tempo (dal tramonto all’aurora) e di luogo (la reggia di Pachino) la notte domina incontrastata e su di lei la Luna ma, sopra ogni elemento naturale, sfolgora la bellissima, pura, fredda, impassibile, quasi incorporea principessa Turandot. I tre ministri, Ping, Pong e Pang entrano subito nel vivo dell’azione apostrofando con un gergo truculento Calaf, che chiede di essere ammesso a sostenere la prova necessaria per avere in sposa Turandot. In un mondo dominato da notte, sangue, teste mozzate, reminiscenze di rapimenti e stupri, torture e odio, i tre ministri si lamentano di quella macabra routine che offende la loro dignità curiale rendendoli “ministri del boia”e rimpiangono una “casa nell’Honan”, con un tranquillo, limpido laghetto, un altrove senza sofferenza. Due comprimari, il carnefice Pu-Tin Pao e la folla sono legati da un rapporto complice e sadico: il carnefice mozza le teste e la folla invoca spesso quel sacrificio come se nel sangue versato ci fossero la catarsi e la conseguente liberazione dalla pesante cappa mortale che grava sulla Città Violetta.
Il vecchio Timur è un padre buono, generoso, non più autosufficiente, ingenuo, travolto da quella folla che si commuove raramente. Timur vive in funzione di Calaf e, novità del libretto, di Liù; egli è il tramite dell’amore unidirezionale che, da Liù, si riversa su Calaf e torna a lui nell’affettuosa pietà della giovane schiava.
Turandot è il coronamento del percorso iniziato dalle Villi: il binomio fedeltà-eros peccaminoso, inaugurato dai due libretti di Fontana si impenna in Manon Lescaut, dove questi due elementi che, a prima vista sembrerebbero distanti tra loro e respingenti si fondono nella protagonista poi, attraverso tutte le altre memorabili figure femminili dei drammi seguenti si è andata componendo una sintesi di amore e colpa tanto più ambigua quanto più si allontana dalle sicurezze di un Ottocento eticamente edificato ed edificante, per addentrarsi nelle incertezze del Novecento, sfuggente, complesso, sfumato e problematico.
Nell’ultimo dramma tutto si scompone nuovamente per un trionfo senza idillio, sul quale la morte di Liù, come quella di Puccini, stendono ancora un’ombra di mistero su uno scenario su cui risplende un sole velato. Calaf sacrifica tutto allo sconvolgimento che gli provoca la vista di Turandot, preso dai propri sensi trascura il padre, è pronto all’annientamento totale pur di compiere l’impresa estrema, quella di piegare la principessa che “rovescia” per baciarla “freneticamente”, proponendosi come il modello maschile estremo che spazza via in un sol colpo tutte le donne sottomesse e sacrificali, compresa Liù, “la piccola donna”32, figlia delle due schiave preferite della principessa gozziana Adelma e Zelima: di Adelma Liù possiede la dignità morale e l’amore per Calaf, di Zelima l’obbedienza e il desiderio di raddolcire il cuore duro di Turandot. A questa “piccola donna” Calaf non riserva un gesto, uno sguardo, un sorriso, non le raccomanda il padre, rimane del tutto estraneo al grande amore della schiava.
La morte di Liù, che non a caso Puccini desiderò avvenisse prima della tortura per aumentare il suo effetto catartico sulla principessa e sulla corte imperiale, somiglia a molti finali d’opera pucciniani: il caso volle che la partitura originale non andasse oltre questo punto del libretto, lasciando alla vittoria finale di Calaf solo alcuni appunti. Nell’opera i timori popolari si accentrano su Liù, sulla sua morte ingiusta: la paura è di vederla trasformata in un vampiro, in una non-morta, indistruttibile archetipo dell’eroismo femminile pucciniano che aleggia su ogni soluzione consolatoria.
Ma è Turandot che, come i vampiri, ama la notte, contrappasso a lei stessa, simbolo di purezza e di orgoglio d’acciaio, di gelo contrapposto alla tenerezza struggente e sacrificale di Liù.
Accingendosi a porre mano a Turandot Puccini scriveva a Simoni l’intenzione di esaltare la passione amorosa di Turandot troppo a lungo soffocata sotto la cenere; in realtà, ne fosse o meno cosciente, Puccini non intendeva affatto umanizzare la principessa di gelo Turandot. Il suo indirizzo drammaturgico rimase quello di orientare la fiaba cinese verso una dimensione quanto più possibile vicina alle fonti orientali: una dimensione da rituale tragico e crudele, reiterato, sempre uguale a se stesso, “disumano”, dove la figura ieratica, intoccabile della principessa non ammette di venire sgelata e umanizzata per la struttura e l’essenza del personaggio. La figura gelida di Turandot è definita da una vocalità nuova in Puccini, una vocalità pesante nelle puntate improvvise ed impervie come nello spessore declamatorio33.
“Questa notte nessun dorma in Pekino! Pena la morte, il nome dell’Ignoto sia rivelato prima del mattino” così ha ordinato Turandot mentre Calaf, solo nei giardini della reggia, ascolta quel proclama annunciato per tre volte, guarda oltre la notte e vede la propria vittoria al sorgere dell’alba.
Luce e tenebra, notte e giorno: sicuro di sé Calaf afferma “All’alba vincerò”, mentre all’alba “Turandot tramonta”. Parole profetiche di un altro tramonto che stava per compiersi mentre il 1924 volgeva al termine.
Il 3 novembre di quell’anno Puccini, angosciato, scriveva all’amico Schnabl: “[…] Mi mandano a Bruxelles! Sono grave! […] Turandot? Mah! Non averla finita, quest’opera mi addolora. Guarirò? Potrò finirla per tempo? […]”34. Il viaggio a Bruxelles rappresentava l’ultima speranza di poter sconfiggere il cancro alla gola che i medici gli avevano diagnosticato, senza comunicarlo a lui ma a suo figlio Antonio, al quale avevano confessato che il tumore era grave ed inoperabile. Tormentato dalla paura, dall’orrore per le cure e dal pensiero della sua opera non finita, Puccini affrontò quella prova cercando di mostrare coraggio, confortato almeno dalla vicinanza fisica di Antonio, che lo aveva accompagnato, e di Fosca, l’amatissima figlia di Elvira, che li aveva raggiunti, e da quella epistolare di molti amici che gli manifestavano solidarietà. Sembrava che le cure, per quanto dolorose, facessero effetto ma il 28 novembre, verso le diciotto, Puccini si aggravò. Ricevette la visita dell’ambasciatore d’Italia e del nunzio apostolico che si intrattenne con lui qualche minuto. Alle ventitré e trenta il cuore di Puccini cessò di battere: era sabato 29 novembre 1924.
Il problema di Turandot era rimasto aperto: per completare l’opera, da Parigi, Tito Ricordi aveva suggerito il nome di Franco Vittadini, colui che nel 1921 aveva musicato quel libretto intitolato Anima allegra a suo tempo rifiutato da Puccini; Toscanini pensava a Zandonai ma la proposta venne rifiutata da Antonio Puccini, memore dei dispiaceri patiti dal padre a causa dei rapporti tra Zandonai e Casa Ricordi che gli erano sembrati troppo stretti ed escludenti nei suoi confronti. Alla fine la scelta cadde su Franco Alfano, brillante esponente della Giovane Scuola che nel 1921, con Sakuntala, aveva dimostrato la propria bravura nel trattare un soggetto orientale.
La prima di Turandot andò in scena alla Scala il 25 aprile 1926, diciassette mesi dopo la morte di Puccini35: sul podio Arturo Toscanini, maestro del coro Vittore Veneziani, regia di Giovacchino Forzano; tra gli interpreti Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Miguel Fleta come Calaf e Maria Zamboni come Liù36. Mentre il corteggio funebre di Liù si disperdeva sul fondo della scena, Toscanini arrestò l’orchestra, depose la bacchetta, si girò verso il pubblico ed annunciò che in quel punto l’opera era rimasta incompiuta “perché a questo punto il Maestro è morto”. Quella prima sera non furono eseguiti il duetto d’amore – il “duettone” che aveva tormentato Puccini fino all’ultimo – ed il breve quadro del palazzo imperiale elaborati da Alfano per incarico degli editori.
Con Turandot la tradizione dell’opera italiana, che durava da oltre tre secoli, giunse alla sua conclusione. La luce, se qualche volta si era appannata nel suo splendore, era sempre stata riaccesa da qualche spirito pionieristico che aveva aggiornato la tradizione senza rinunciare al passato e il risultato era stato quello di creare un comune denominatore nel gusto del pubblico che aveva contribuito a tenere a galla anche gli artisti minori. Tutto questo dopo la prima guerra mondiale cambiò: alla metà degli anni venti del Novecento i compositori contemporanei di Puccini non avevano più nulla da dire, quanto agli esponenti della generazione più giovane, ognuno seguiva una strada propria, indipendente da quella degli altri, inaugurando un modello che sarebbe stato seguito poi dai compositori italiani successivi. Soltanto Puccini riuscì a traghettare la tradizione dell’opera italiana nel mondo del dopoguerra grazie a quella capacità di rinnovamento che condivise con Verdi ma, poiché nessuno percorse più la stessa strada, Turandot, splendido epilogo, risplende ancora unica e senza rivali.
Note
- Nell’intelligente e, in qualche misura, rivoluzionario volume su Giacomo Puccini (Giacomo Puccini. Biografia critica [1958], Milano Il Saggiatore, 1961), Mosco Carner sostiene che i lucchesi, ai quali il giovane si era rivolto per ottenere una sovvenzione, memore del fatto che la comunità si era mobilitata per sostenere negli studi i suoi antenati, non gli prestarono alcun aiuto e che le ragioni di questo comportamento vadano ricercate nel fatto che il giovane, intendendo dedicarsi al melodramma, rompeva di fatto con la tradizione familiare e, soprattutto, desiderava abbandonare la carriera di organista e di maestro del coro della Cattedrale cittadina.
- Julian Budden scrive che la ragione di ciò va ricercata nel fatto che, quantunque i lavori dovessero esser presentati in forma anonima, due componenti della commissione, Franco Faccio e Amilcare Ponchielli, avevano molta dimestichezza con la mano di Puccini, il quale, da parte sua, non aveva fatto mistero di voler partecipare al concorso. Una clausola del bando, inoltre, specificava chiaramente che le partiture dovevano esser scritte in modo comprensibile, mentre l’autografo delle Villi si presenta ordinato nelle prime pagine, ma poi disordinato, nonché pieno di cancellature e macchie. I commissari, tutti molto impegnati in altre attività, ebbero tre mesi per esaminare ventotto partiture. «È sorprendente – conclude Budden – che si siano rifiutati di perder tempo su un manoscritto a malapena leggibile?» (J. Budden, Puccini, Roma, Carocci, 2005, p. 59).
- M. Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio, 2000, p. 66, n. 51.
- Riferendosi a Edgar, Puccini comunicò senza por tempo in mezzo all’amica Sybil Seligman: “E Dio ti guardi da quest’opera”; ugualmente, su uno spartito dell’opera per canto e pianoforte che le inviò, commentando l’ultimo coro dell’opera, “Orror!”, scrisse: “Orrore. Come hanno ragione!”.
- A questo proposito ricordiamo una lettera assai amara che Alfredo Catalani, già amico di Puccini, scrisse ad un amico “[…] non tutti hanno la fortuna di viaggiare a spese dell’editore come Puccini, il quale, provvisto di un buon paio di forbici, è incaricato dall’editore stesso di fare i tagli necessari allo spartito dei Meistersinger per adattarlo alle spalle dei buoni milanesi, tal quale come un vestito… Non nascondo pure che ho il fiele nell’anima al vedere quel che succede, e mi spaventa l’idea di ciò che potrà essere il mio avvenire ora che non c’è più che un solo editore e quell’editore non vuol sentire parlare altro che di Puccini… Tutto ciò pare assurdo… Ma invece è giustissimo perché ora ci sono le dinastie in arte e io so che Puccini deve essere il successore di Verdi”. Pochi anni dopo questa lettera, Catalani morì a causa della tisi. Cfr. E. Sarti, Giacomo Puccini. Vita e opere, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2007, cit., p. 40.
- “Massenet la sentiva da francese, con la cipria e i minuetti, io la sento da italiano con passione disperata”, cfr. M. Carner, Giacomo Puccini,cit., p. 93.
- Il III Atto di Manon Lescaut è stato spesso accostato al II Atto del Tristan di Wagner.
- Molti biografi riportano l’episodio della discussione, piuttosto accesa, tra Puccini e Leoncavallo riguardo alla priorità dell’idea di trarre un’opera dal romanzo di Murger. Il Corriere della Sera del 24 marzo 1893 riportava un intervento di Puccini, il quale affermava che entrambi i musicisti erano liberi di attingere allo stesso soggetto, perché questo non implicava uguali intenzioni artistiche. Diversamente, invece, la pensavano gli editori Sonzogno e Ricordi, per i quali era molto importante vincere la corsa alla “prima”… Le due opere andarono in scena, prima quella pucciniana, a quattordici mesi di distanza, accomunate da un’accoglienza piuttosto tiepida.
- Proprio negli anni in cui Illica, Giacosa e Puccini lavoravano a Bohème si verificò il divaricarsi di scelte che renderanno Puccini molto diverso dalla cosiddetta “Giovane Scuola”: nel luglio 1894 Puccini scrisse a Ricordi che gli aveva proposto di trarre un’opera dalla novella di Verga La lupa confessandogli il proprio disinteresse per il progetto per “[…] la “dialogicità” del libretto spinta al massimo grado, i caratteri antipatici, senza una sola figura luminosa, simpatica che campeggi[…]. Cfr. E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, Milano, Ricordi, 1986, pp. 102-103, n. 106.
- Nel febbraio 1894, Illica scrisse a Ricordi una lettera che mostra quanto fosse innervosito dai continui aggiustamenti che Puccini pretendeva sul personaggio di Mimì: “[…] la Mimì di Murger è più complessa! Bisogna avere un po’ di compassione anche pei librettisti! Ora io dico che è già un errore che la separazione di Rodolfo e Mimì non avvenga davanti agli occhi del pubblico, figuriamoci poi se di separazione non dovesse avvenire in nessuna maniera! […]Pensi quanto più grande e commovente può essere quella Mimì che – potendo ormai vivere con un amante che l passa della seta e del velluto – sentendosi uccidere dall’etisia va a morire nella desolata e fredda mansarde pur di morire nelle braccia di Rodolfo”. Cfr. D. Martino, Catastrofi sentimentali. Puccini e la sindrome pucciniana, Torino, E.D.T., 1993, p. 33.
- Un altro amico, il lucchese Alfredo Vandini, gli procurò lo stornello che apre il terzo atto, “Io de’ sospiri”, su versi del poeta dialettale Giggi Zanazzo, a sua volta amico di Puccini.
- Con i drammi di Belasco che diventeranno Madama Butterfly e La Fanciulla del West.
- In una lettera inviata a Giulio Ricordi da Parigi il 13 gennaio 1899, Puccini scrisse “[…]Nel farmi lo schizzo poi del panorama, voleva che si vedesse il corso del Tevere passare fra San Pietro e il Castello! Io gli ho detto che il flumen passava dall’altra parte, sotto, e lui tranquillo come un pesce ha detto: “Oh, questo è niente!”. Bel tipo, tutto vita, fuoco e pieno di inesattezze storico-topo-panoramiche.”. Cfr. E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit., p. 172, n. 200.
- Ibidem.
- Puccini sentì, dopo il fiasco scaligero di Madama Butterfly, l’esigenza di rendere meno antipatico il personaggio di Pinkerton: tolse, perciò le battute più arroganti del personaggio e nella versione definitiva del 1907, nel III Atto, introdusse il pentimento dell’ufficiale americano.
- Il 20 aprile 1904 sul “Giornale d’Italia” Giovanni Pascoli pubblicò questa poesia d’incoraggiamento per Puccini “Caro nostro e grande Maestro,/ la farfallina volerà:/ ha l’ali sparse di polvere,/ con qualche goccia qua e là,/ gocce di sangue, gocce di pianto…/ Vola, vola farfallina,/ con la tua voce piccolina,/ col tuo stridere di sogno,/ soave come l’ombra,/ dolce come una tomba,/ all’ombra dei bambù/ a Nagasaki e a Cefù”. Cfr. D. Martino, Catastrofi sentimentali, cit., p. 51.
- Giulio Ricordi non amò mai particolarmente Madama Butterfly, la considerava un’opera facilmente strappalacrime, poco all’altezza della produzione di Puccini. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 287.
- Il 1912 fu un anno duro per Puccini, specie per l’uscita dell’invettiva di Fausto Torrefranca, un calabrese tutt’altro che ingenuo e incolto, intitolata Giacomo Puccini e l’opera internazionale. Torrefranca, principale portavoce della cosiddetta Generazione dell’Ottanta, un gruppo di musicisti nati intorno al 1880, che comprendeva Casella, Malipiero, Pizzetti, volto al recupero del glorioso passato strumentale italiano, sosteneva che l’opera fosse di gran lunga inferiore alla sinfonia e che fosse una sorta di errore perpetrato da Monteverdi in poi. L’apice della mediocrità, secondo Torrefranca, sarebbe stato raggiunto proprio da Puccini, musicista essenzialmente incolto che avrebbe incarnato, nelle proprie opere, il cinismo della moderna società borghese: solo chi avesse dato buona prova di sé in campo sinfonico avrebbe potuto essere giustificato nello scrivere opere liriche – e proprio per questo Puccini si rivelava inadeguato! Inoltre, avendo accolto influssi stranieri, aveva tradito l’eredità nazionale e sarebbe, quindi, stato dimenticato nel giro di pochi anni. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., pp. 353-354.
- Il libretto di Adami, Anima allegra, sarebbe stato musicato nel 1921 da Franco Vittadini.
- G. Adami (a cura di), Giacomo Puccini. Epistolario, cit., p. 194, n. 121.
- La preghiera, Le punizioni, La ricreazione, Il ritorno dalla cerca, La Zia Principessa, La grazia, Il miracolo.
- Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 392.
- Nel linguaggio pucciniano con l’epiteto di “pig” veniva bollato chiunque avesse contenziosi con il compositore.
- I rapporti tra i due cominciarono a ricucirsi lentamente nel 1922 e nel 1924 erano così saldi che la salma di Puccini fu ospitata per due anni nella tomba della famiglia Toscanini prima di essere traslata definitivamente nel piccolo mausoleo di Torre del Lago dove fu sepolta anche Elvira.
- La direzione della prima londinese fu affidata a Gaetano Bavagnoli con un cast che comprendeva Gilda Dalla Rizza nel ruolo eponimo di Suor Angelica e Tom Burke, il “Caruso del Lancashire” in quelli di Luigi nel Tabarro e di Rinuccio in Gianni Schicchi. Cfr. J. Budden, Puccini, cit. p. 394.
- G. Puccini, Epistolario, a cura di G. Adami, Mondadori, Milano, 1982, cit. p. 271, n. 195.
- Nel 1919 morirono suo cognato Massimo Del Carlo che come sindaco di Lucca aveva molto favorito gli interessi di Puccini nella sua città natale, Carlo Carignani, amico e collaboratore fin dai tempi di Edgar, e Ruggero Leoncavallo, antico rivale, l’unico per il quale Puccini fece un’eccezione non solo perché partecipò ai suoi funerali, ma anche perché si unì a Mascagni nel reggere i cordoni funebri. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 436.
- Patrizio veneziano, Carlo Gozzi intendeva con i suoi lavori contrapporsi alla commedia goldoniana, che considerava socialmente distruttiva. Con il ricorso alle maschere della Commedia dell’Arte, con le ambientazioni esotiche e le trovate magiche, Gozzi riprendeva la tradizione del teatro delle meraviglie barocco. Paradossalmente furono queste caratteristiche che suscitarono interesse nello spirito del Romanticismo tedesco: fu infatti La donna serpente di Gozzi a lanciare Wagner nella carriera operistica con Die Feen.
- Lettera a Renato Simoni da Roma, 18 marzo 1920, in E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit., p. 490, n. 766.
- Si tratta dei Mille et un jours di Pétis de la Croix e Lesange (1710-1712).
- Lettera a Renato Simoni da Torre del Lago, dicembre 1920, in E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit., p. 496, n. 777.
- Così Puccini sintetizzava Liù in una lettera inviata a Giuseppe Adami da Torre del Lago il 28 agosto 1920. Cfr. E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit. p. 495, n. 774.
- Questo anche se le prime interpreti di Turandot, da Rosa Raisa, creatrice del ruolo, a Bianca Scacciati, all’oriunda francese Gina Cigna, possiedono la morbidezza e il calore del canto “legato”.
- Cfr. E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit., p. 558, n. 904.
- La prima fu minacciata da contrattempi politici: Mussolini che, nel 1924, aveva comunicato la morte di Puccini in Parlamento: dando molto risalto alla recente adesione del musicista al partito, dichiarò di voler onorare la prima di Turandot con la sua presenza purché la rappresentazione fosse stata preceduta dall’esecuzione dell’inno fascista, Giovinezza. Già nel 1923, quando un gruppo di camicie nere aveva fatto irruzione alla Scala ed aveva ordinato di suonare l’inno, Toscanini aveva opposto un secco e deciso rifiuto; se in occasione della prima di Turandot la direzione del teatro avesse insistito per fargli suonare l’inno, avrebbe dovuto trovarsi un altro direttore e, dato che questa eventualità era fuori discussione, fu Mussolini a fare marcia indietro e fece diffondere le dichiarazione che non voleva che la sua presenza distogliesse l’attenzione del pubblico dalla musica di Puccini. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., pp. 458-459.
- Per Turandot Puccini avrebbe voluto Gilda Dalla Rizza nel ruolo di Liù, Beniamino Gigli in quello di Calaf e Maria Jeritza, colei che, inciampando in palcoscenico durante una rappresentazione di Tosca, fu costretta a cantare “Vissi d’arte, vissi d’amore” semisdraiata sul palcoscenico, posizione che fu trovata particolarmente efficace ed adottata in seguito come prassi, nel ruolo eponimo.
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