Bibliomanie

La musica che pensa. Compositori come moralisti
di , numero 58, dicembre 2024, Note e Riflessioni, DOI

La musica che pensa. Compositori come moralisti
Come citare questo articolo:
Antonio Castronuovo, La musica che pensa. Compositori come moralisti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 58, no. 19, dicembre 2024, doi:10.48276/issn.2280-8833.12243

Se in musica parliamo di forme brevi, la mente corre alle succinte partiture di Webern, alle perle sgranate dal Mikrokosmos di Bartók; pensiamo cioè subito alla brevità di singole composizioni.
Ma un diverso tragitto è possibile, ancorché marginale: quello della musica fatta oggetto di aforismi e massime. Se ci si china su quel mondo, se ne resta però francamente delusi: le forme brevi dedicate alla musica sono perlopiù frammenti melliflui.
Esiste però una terza via del rapporto fra musica e brevità: le massime e i pensieri redatti direttamente da compositori ed esecutori, figure adorabili che non solo tracciano note sul pentagramma, ma anche pensieri nei taccuini. È una forma espressiva non comune, ma rintracciabile in piccole raccolte un po’ in ombra.
Ora, è noto che l’espressione in forme brevi non è sorta da una mira letteraria, bensì pedagogica: in altri termini, i detti brevi si ricordano meglio e, in una civiltà senza o con limitata diffusione dei supporti di scrittura, diventano formule mnemoniche per praticare un mestiere o imprimere nella mente norme di comunità.
Così, sono aforistiche alcune opere che si pongono alle origini della forma, e che hanno de facto un significato di insegnamento e guida; penso al libro biblico dei Proverbi, massime morali adeguate alla cultura di quella specifica comunità, e penso al primo medico della storia, Ippocrate, la cui opera, rivolta ai giovani allievi, abita tutta in formule brevi: ammonimenti ed espedienti per (tentare di) sanare i malati, da portare nel proprio bagaglio mnemonico in assenza di manuali, a partire dalla massima che definisce la medicina una «ars longa» in confronto alla «vita brevis». Su questa linea, la storia dell’aforisma sciorina decine di collezioni pratiche; ad esempio, aforismi politici (Tommaso Campanella), di governo (Ciro Spontone), militari (Raimondo Montecuccoli), fisico-medici (Francesco Chiari) e così via.
Con il sopraggiungere storico dell’individualità romantica e dell’ironia novecentesca, l’aforisma è diventato genere letterario, al cui fondo però è sempre percepibile il fine morale, inteso nel senso di «osservazione dei mores», degli umani costumi, e dunque infine sempre di tenore educativo. Mostrare i mores con piglio ironico, anche solo umorale, ottiene infine l’effetto di insegnare a vivere: se un La Rochefoucauld, un Karl Kraus, un Longanesi, ideatori tutti di formule argute, ci mostrano la ridicolaggine di certe abitudini umane – siano le impietose scenette della decadente nobiltà di ancien régime del primo, siano gli ipocriti borghesi guerrafondai di Kraus, siano gli sciatti italianucci di Longanesi – quelle scenette acuminate saranno per il lettore un elemento di guida a meditare, capire, forse cambiare.


Nella storia della musica, abbiamo esempi dell’uno e dell’altro spazio aforistico: quello pedagogico e quello moralistico-letterario. Per il primo ambito, mi soffermo su due collezioni di consigli aforistici di buona caratura e gradevolezza.
La prima fu assemblata da Robert Schumann col titolo Musikalische Haus-und Lebensregeln, che tradotto alla lettera sta per Regole musicali per la casa e per la vita. Sembra titolo ridondante, ma rispecchia bene l’essenza di un compositore dai cui diari si eleva, appunto, il tepore della casa e della vita. In origine le regole dovevano essere inserite fra i pezzi pianistici dell’opera 68, l’Album für die Jugend del 1848, ma Schumann rinunciò al progetto, ampliò la collezione di pensieri e la pubblicò nel 1850 come supplemento al fascicolo n. 36 della «Neue Zeitschrift für Musik», una rivista che aveva fondato lui stesso anni prima. Dopo, le Regole furono riunite in appendice a nuove edizioni dell’Album: Schumann non riuscì mai a farle apparire come opuscolo autonomo, pur considerandole di valore. E tali sono se si coglie il principio su cui si fondano: la necessità per il musicista di conquistare, oltre alla perfezione musicale, anche una compiuta maturazione culturale.
Composto per le tre figlie, l’Album è di trasparente semplicità e bellezza: una raccolta di una quarantina di facili brani. E poiché le ragazze avevano età diseguali, la raccolta si compone di diciotto pezzi «per i più piccoli» e venticinque «per i più grandi». Vale ascoltarli con la collezione delle regole spalancata sulle ginocchia e fantasticare di trovarle sopra il rigo musicale: una guida di vita semplice come ciò che si sta per suonare. Semplice come i cinque esempi che prediligo e che ho selezionato, quelli la cui concisione dissimula la profondità:

Sfòrzati di suonare bene e con cura i pezzi facili: è meglio che eseguire in modo mediocre pezzi difficili.
Suona sempre come se un maestro ti stesse ascoltando.
Fra i tuoi compagni frequenta maggiormente quelli che sanno più di te.
Senza entusiasmo nulla di giusto si compie nell’arte.
Solo quando la forma ti sarà veramente chiara anche il tuo spirito diventerà chiaro.


Tra i consigli aforistici musicali spiccano anche i Cinquanta avvertimenti ai giovani pianisti di Beniamino Dal Fabbro, un intellettuale che tra le proprie passioni privilegiò la critica musicale, e che volle dedicare il suo effervescente decalogo ai giovani che si affacciano sulla tremenda tastiera. Apparsi in appendice al Crepuscolo del pianoforte, pubblicato da Einaudi nel 1951, sono una serie di consigli per chi intende dedicarsi a uno strumento avviato al tramonto, ma pur sempre uno dei più complessi e riusciti manufatti dell’artigianato organologico.
Ora, se il pianoforte è al crepuscolo, resterà comunque strumento di una geografia culturale potente per quanto marginale: «Come ogni altra cosa al mondo, anche il tuo strumento perirà; aiutalo, mentr’esso vive, a ben figurare nella storia degli uomini» (avvertimento n. 28). Per lo spirito di emancipazione del pianista dallo strumento che ne permette l’espressione, fondamentale è il primo avvertimento: «Ricòrdati che tu non hai mani: suona con la mente e fa dimenticare le dita». A cui fa eco il n. 30: «Il suono, che tu devi rendere sensibile agli orecchi, ha sede nella tua mente, e subito dopo, quasi per una riprova, nella cassa del tuo strumento». Il buon pianista deve anche scordare lo spartito, come consiglia il brano n. 45: «Suona a memoria soltanto quando sei sicuro che il foglio sott’occhio non ti sarebbe null’altro che un motivo di distrazione».
Servono, gli avvertimenti, anche a sottolineare la centralità assoluta del pianista, come affiora dal settimo brano: «Quando suoni Chopin o Bach, non pensare a Chopin o a Bach, ma a una musica, di Chopin o di Bach, che ha bisogno anche di te, per esistere»; ogni grande compositore ha insomma bisogno dell’esecutore per esistere. Così come concorre all’arte anche l’aspetto fisico del pianista, che deve curare le mani, come recita il brano n. 13: «Tàgliati le unghie almeno una volta alla settimana». La cosa è necessaria per diteggiare con i soli polpastrelli, ma utile anche all’estetica: un pianista con le unghie poco curate sarebbe davvero l’immagine di un crepuscolo irrevocabile.


Il secondo ambito cui abbiamo accennato è quello dell’aforistica musicale di tipo moralistico-letterario. E ci piace cominciare da Beethoven, compositore che non ha lasciato scritti, se non il Testamento di Heiligenstadt, magnifico documento in cui ha direttamente espresso una filosofia di vita: non esistono insomma testi in cui egli abbia esposto una poetica di vita o strategie di composizione. Saremmo dunque portati a concludere che non c’è possibilità di conoscere la sua visione del mondo, se non fosse per una fonte imprevista: Beethoven annotò ogni tanto motti, idee morali, spezzoni di lettura su carte occasionali; appunti i cui originali sono perduti, ma che ci sono giunti in copie di seconda mano. Nel 1918 furono raccolti e pubblicati a Lipsia da Albert Leitzmann in un libretto oggi raro: Beethovens persönliche Aufzeichnungen (Appunti personali di Beethoven). Sono 184 note di buon valore per cogliere il colore dell’etica “eroica” beethoveniana; eccone un campione:

Il sistema migliore per non pensare ai tuoi guai è l’impegno.
L’odio ricade su quelli che lo nutrono.
Non fare domande, ma azioni, sacrificati senza gloria né ricompensa.
Vivi solo nella tua arte! Sei così limitato ora nel tuo spirito, così che questa è certo l’unica esistenza per te.
La caratteristica principale di un uomo eccellente: la perseveranza in circostanze avverse o sgradevoli.


Non colpisce che un compositore come Erik Satie, la cui opera si fonda su collane di brevi gemme, abbia annotato al caffè o per strada, su note di spesa o ai margini dei quadernetti di musica, riflessioni e appunti sorgivi, così come gli passavano per la testa. Qualcuno ricorda che quando la notte tornava a piedi da Parigi al sobborgo di Arcueil in cui viveva, lo si poteva vedere ogni tanto fermarsi sotto un lampione e – carta e matita alla mano – scribacchiare qualcosa. Gli appunti sopravvissuti sono stati pubblicati e ne leggiamo alcuni:

Che cos’è l’Uomo? Una povera creatura messa su questa terra per dar fastidio agli altri uomini.
Non leggo mai un giornale della mia opinione: la troverei deformata.
L’esperienza è una forma di paralisi.
Quando un tizio parla della “decadenza” attuale, guardategli la faccia.
Chi beve assenzio, si suicida a sorsi.


Compositore aforista fu Schönberg, che raccolse in vita una serie di Aphorismen (apparsi nel 1909-1910 in «Die Musik», anno IX, n. 21) e vari altri semplicemente annotò, lasciandoli inediti. La collezione è dedicata per minima parte a pensieri sulla musica: il grosso degli aforismi si sofferma sul senso dell’uomo e dell’artista. Ne leggiamo alcuni, non senza notare la sonorità eraclitea dell’ultimo:

Talento è la facoltà d’imparare; genio, la facoltà di svilupparsi.
Col primo pensiero nasce il primo errore.
Per non dover sopravvivere al suo dolore, l’artista gli dona l’immortalità con l’opera d’arte.
Musicista è colui che, vedendo delle note, comincia a udire suoni nascer­gli dentro. Strumentista è colui che sa far percepire ad altri ciò che egli ha udito dentro di sé.
Io non mi tuffo in tutta l’acqua: solo in una piccola porzione.


Anche noi ci siamo tuffati in una porzione del mondo preso in esame: abbiamo messo in luce raccolte aforistiche abbastanza note, altre ne esistono, altre ancora giaceranno in archivi non esplorati. Importa si sia colta la fondatezza del binomio: musica e aforisma hanno trovato lungo la storia punti di unione, anche felici.

Nota bibliografica
Le collezioni aforistiche citate si possono leggere oggi nei seguenti volumi:
Robert Schumann, Regole di vita musicale, in Gli scritti critici, Milano, Ricordi-Unicopli, 1991, volume II, pp. 1019-1026.
Beniamino Dal Fabbro, Cinquanta avvertimenti ai giovani pianisti, in Crepuscolo del pianoforte, Bologna, Pendragon, 2022, pp. 243-250. Beethovens persönliche Aufzeichnungen, a cura di Albert Leitzmann, Lipsia, Insel Verlag, 1918.
Erik Satie, Quaderni di un mammifero, Milano, Adelphi, pp. 154-161. Arnold Schönberg, Aforismi, aneddoti, massime, in Luigi Rognoni, La scuola musicale di Vienna, Torino, Einaudi “Reprints”, 1974, pp. 381-393.

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