Sulla Lectio incontentabile di Ezio Raimondi
Andrea Battistini, Sulla Lectio incontentabile di Ezio Raimondi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 36, no. 1, maggio/agosto 2014
Anche al cospetto di Ezio Raimondi (1924), specie se lo si incontra nel suo studio, «caverna scolpita di libri», può sorgere spontanea, a un visitatore sprovveduto, la stessa domanda ingenua e pleonastica che, nel ricordo affabile di Contini, veniva da rivolgere a Spitzer: «Sta lavorando, come al solito?».
È però molto improbabile che, nel caso nostro, si possa avere un tipo di risposta collimante con quella del maestro viennese («Lavorando? No, no, godendo, come al solito, godendo»), non solo perché a Raimondi non si conviene la definizione di «sibarita» concessa da Contini a Spitzer, per niente adatta a un round head inquieto e turbato da un ricercare inesauribile in cui il piacere della lettura è inseparabile dalla fatica e dalla responsabilità, ma soprattutto perché molto del suo tempo consacrato al lavoro viene messo a piena disposizione degli allievi, tenacemente perseveranti nel sottoporgli i loro scritti, siano essi piccole esercitazioni, capitoli di tesi o saggi o libri destinati alla pubblicazione.
Eppure, per quanto non tutti gli esercizi di lettura siano ameni, vengono sempre fatti di buon grado, quando non sollecitati, sorretti comunque da un entusiasmo didattico che molto spesso affiora nella bontà dei risultati, nei quali a volte non si riesce nemmeno più a distinguere la penna originariamente incerta dell’allievo da quella sicura ed elegante del maestro generoso.
L’impegno del Raimondi docente non differisce in nulla da quello del Raimondi ricercatore in proprio, essendo uguale il tentativo di mostrare nuove prospettive, di segnalare aspetti a cui i più giovani non avevano pensato e che, dopo le sue indicazioni, diventano tanto convincenti da rimanere nel loro orizzonte culturale. E chi ha avuto la fortuna di entrare per una volta in quella che, con formula volutamente dimessa, Raimondi ama paragonare a un’officina di un artigiano, difficilmente ne abbandona la frequentazione, anche dopo la conclusione canonica delle peripezie di studente universitario.
Non potrebbe essere diversamente, visto che in quella bottega non si educa soltanto a un metodo, ma si suggeriscono temi, si organizza la logica costruttiva, si consigliano libri, che poi si rivelano immancabilmente calibrati, per provenire non da repertorî bibliografici che limitano molto la responsabilità personale di chi li segnala, ma dall’esperienza vitale e creativa di una lettura diretta, con la certezza che i testi indicati sono sempre i più recenti e aggiornati – indizio di una preparazione che non conosce pause, di una tensione che non si è mai appagata di qualsivoglia esito, ritenuto in ogni caso provvisorio e perfettibile. Non per nulla, ad arricchire di ethos quelle indicazioni c’è la perlustrazione assidua delle biblioteche, ove si può ancora incontrare, a differenza di tanti suoi colleghi, un Raimondi concentratissimo, attorniato dai libri e vittorioso del loro assedio.
È naturale che, per la serietà d’intenti e per l’intransigenza della sua quête, i giudizi del lettore Raimondi sono tutt’altro che accomodanti. Dal suo arsenale munitissimo è difficile uscire con un lavoro affrettato: prima dell’imprimatur la revisione è lunga e paziente, sino alla verifica dello stile, nell’ascolto attento di un ritmo interno della frase che non trascura nemmeno la partitura di un aggettivo o la cadenza interpuntiva delle pause. E i rifacimenti sono molti, come le letture, iterate fino al giorno di consegna della tesi o fino alle ultime bozze, nella convinzione irremovibile che nella realtà non esiste mai niente di scontato, rinvenibile in linee di sviluppo armoniche e prestabilite. Eccolo allora porre domande, sollevare dubbi, tuffarsi con letizia nei problemi per complicare ciò che solo in apparenza è semplice, educando tanto al rigore quanto alla spregiudicatezza, nemico di ogni conformismo culturale che impedisca di riconoscere la singolarità delle voci, vivificate da operazioni percettive miranti a cogliere l’interezza di una individualità.
Eppure, se anche le correzioni sono numerose, segni di un dialogo fitto e ravvicinato, sulle redazioni altrui non compare, sia pure «disinteressato», il «maneggio del lapis rosso e blu» che di nuovo Contini ebbe a sorprendere sui vivagni dei manoscritti vagliati da chi ha preceduto Raimondi sulla cattedra bolognese. Anziché agli effetti cromatici, la sua preferenza va ai segni grigi della matita, pieni di ritrosia e accompagnati da un «se crede…» che, nel trarre il meglio dall’interlocutore, non rinuncia mai alla tolleranza, una risorsa da lui ritenuta non già «una forma di indulgenza che dissimula la sua pavida debolezza sotto la norma del lasciar vivere, ma un atto di conoscenza, una presa di posizione, un modo nobile, di rendere responsabili noi stessi».
Al senso magnanimo della tolleranza Ezio Raimondi abbina un inconfondibile pudore che costituisce il tratto intimo della modestia, propria – osserverebbe Manzoni, un altro dei suoi «autori» – di «colui che conserva i suoi sentimenti nella custodia del suo cuore». E la riprova è che nella sua lezione non si annida mai l’enfasi, cancellata da locuzioni fàtiche alle quali viene messa la sordina della naturalezza, quella che tra l’altro, nel segnalare testi conosciuti soltanto da lui, premette ai preziosi dati bibliografici l’intercalare dei «provi a prendere fuori…», «per scrupolo si veda anche…», o li introduce con una domanda che, retorica soltanto per l’ignoranza di chi la riceve, suona: «ha mai provato a leggersi…?».
Di Raimondi giova poi segnalare un altro tratto distintivo: il disinteresse (rarissimo) per i giochi di potere e la dedizione a un insegnamento che non si pone fini diversi dalla conquista di una professionalità e dalla trasmissione di un sapere che, memore degli antichi clerici vagantes, possa poi testimoniare il suo magistero anche lontano dalle aule universitarie, nel mondo della scuola o in altri settori della cultura.
Come che sia, ancora oggi molti allievi effettivi si recano ad ascoltare gli incanti e le fascinazioni della sua voce suadente, mentre le sue mani disegnano arabeschi nell’aria di un’aula (o di un stanza) silenziosa, ove gli occhi dei presenti ne seguono rapiti i movimenti, sapendo in anticipo che il maestro farà a meno della sedia, preferendo camminare da un punto all’altro, quasi per rendere visibile il moto incessante e rapinoso delle idee che si succedono senza posa.
Tuttavia non è solo per questo che diviene autentica la massima del vecchio De Sanctis, che fa assomigliare il critico (ma pure l’insegnante) all’attore; a inverarla è la constatazione che la sua lezione non si accontenta mai di riprodurre con fedeltà meramente ricettiva il mondo della letteratura, ma lo integra e lo ricerca assumendo un ruolo attivo e sperimentale.
Il paragone con l’attore è pertinente altresì per l’esigenza, vivissima in Raimondi, di comunicare, di fare partecipi anche gli altri dei propri pensieri, di donare senza guardinga o avara parsimonia la ricchezza del proprio sapere, in modo che le sue idee, come deve essere in chi abbia la vocazione dell’insegnante, divengano davvero patrimonio di una «comunità».
In questa espressione, non rara in Raimondi, si manifesta il senso radicato dell’istituzione e della responsabilità civile del lavoro culturale, da lui a lungo esplicato non solo nei molti e vari luoghi di lezione, ma pure presso numerose quanto prestigiose istituzioni nazionali e internazionali, che non conviene peraltro qui evocare, se non altro perché sono ben note a tutta la “Repubblica delle Lettere”.
Inutile aggiungere che questo altruismo è anche esposto alle delusioni e allo scoramento, allorché in certe istituzioni nate proprio per mettere in comune le esperienze dei singoli (si pensi soltanto alla vita dei dipartimenti universitari) non trova ragioni associative altrettanto forti, vanificate spesso da inerti riti burocratici. Eppure, anche quando in Raimondi parrebbe di riconoscere un Gondrano nel bel mezzo di un Animal Farm accademico, il suo fervore non viene mai meno, anzi si moltiplica per reagire all’indolenza, in vista di azioni suscettibili di stimoli e rinnovamento. E ad essere trasmessi, allora, non sono più le semplici informazioni, ma un impulso, uno stile intellettuale, una mobilitazione concettuale con cui è lo stesso maestro a rimettere in discussione il suo difficile ruolo, giacché per comunicare e per insegnare si deve sempre procedere senza dogmi.
Non è stato forse Heidegger, un filosofo letto in gioventù da Raimondi, a sostenere che maestro è colui che insegna a imparare, assegnandogli così un compito molto più arduo e complesso del semplice apprendimento individuale, perché esige, per giunta, la realizzazione della responsabilità didattica?
Nel caso di Raimondi, insieme con i contenuti mai pacifici, quello che agli allievi viene insegnato è l’apprendimento di un «istinto esplorativo», volto a indicare tracciati, metodi, sentieri che ambiscono a perdere la loro limitazione con il moltiplicarsi dei punti di vista, indefinitamente integrabili con altri, a cominciare dalla messa in comune delle esperienze dei discenti con quelle, tanto più estese, del docente, l’una che è appena agli esordi, l’altra da tempo in cammino.
Per una volta almeno, non sussiste la dicotomia schizofrenica tra ricerca e didattica, a causa della quale ci si dimentica spesso che l’Università è sì specialismo, ma al tempo stesso sede di lezioni e lettura di testi. E la proposta dei suoi lavori in fieri alla «comunità giovanile» risulta per Raimondi «principio informante» del suo metodo, in modo che la vitalità delle sue tesi venga messa alla prova dalla ricettività di intelligenze integre e vigili. Le lezioni godono quindi di una fragranza sperimentale e sovente risultano l’anteprima di libri, che quindi hanno alle spalle un incontro umano, un discorso partecipato.
Il romanzo senza idillio, per ricordare un caso, prima di diventare testo scritto, è stato proposto durante un corso su Manzoni, promosso a momento privilegiato dell’ideazione, Bildungsroman avventuroso di un investigare cresciuto, lezione dopo lezione, con i connotati di un diario o di un giornale di bordo che registra gli itinerari dell’indagine, le ipotesi, gli slanci ermeneutici, i dubbi, il rigore propulsivo delle congetture. L’urgenza di far sapere subito agli altri delle proprie letture e dei propri lavori è la stessa che determina la battuta esuberante del Galileo brechtiano: «tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno». Né si tratta dell’esibizione di sé, ma del desiderio di contagiare gli altri, dell’invito a cercare insieme, con un’attitudine che, per quanto l’interessato se ne schermirebbe nel sentirselo dire, non può non considerarsi socratica.
D’altro canto, il riferimento, tenuto conto di colui per cui vale, va spogliato di ogni possibile retorica, perché connaturato a un comportamento ineludibile per chi non possiede la verità definitiva ed è indotto, in sede etica come in quella gnoseologica, a seguire la raccomandazione di Rorty, che invita alla molteplicità degli itinerari sino a compiere una lunga esperienza di quel tanto di vero concesso agli uomini, da condividere tosto con tutti, in quanto lo studio non va perseguìto per dimenticarsi degli altri e per sequestrarsi dalla vita, ma al contrario per intendersi meglio. In fondo, la pensava così anche Seneca: «Nullius boni sine socio iucunda possessio est».
Il dialogo socratico è la faccia interpersonale della modestia, per discendere dalla coscienza del provvisorio e dell’approssimato. E per Ezio Raimondi – come s’è accennato dianzi – ogni luogo è buono per tessere una conversazione mai banale: in aula di lezione, innanzitutto, ma anche nei corridoi, sotto i portici, in attesa dell’autobus, a casa sua, sempre ospitale specie quando le file di studenti e di colleghi davanti al suo studio d’Università sono così lunghe da richiedere un’appendice, un supplemento di dedizione.
È così raro, per i giovani universitari, incontrare qualcuno che li prenda davvero sul serio e accetti di riflettere insieme con loro che, appena lo hanno individuato, non gli danno più tregua. In fondo, se ancora Seneca esortava a inventarsi un grande modello con cui dialogare, gli allievi di Raimondi non hanno neppure avuto bisogno di crearselo, perché se lo sono trovati davanti, ogni giorno accessibile, compatibilmente, va da sé, con i tanti impegni.
Oltre tutto, senza indulgere a deroghe al proprio ruolo o a recite improntate alla confidenza paternalistica, il suo dialogare si nutre di un senso autentico dell’amicizia, che si può scoprire una volta vinto il timore reverenziale destato dalla padronanza prodigiosa dell’ipotassi, dallo sfolgorio dei giochi metaforici costellanti il suo eloquio, dal tourbillon di citazioni su cui si vorrebbe indugiare un poco anche quando il filo serrato del discorso si è già inoltrato verso altre mète inattese e sorprendenti.
Vero è che da questi colloqui ci si scopre più ignoranti; eppure ne vale la pena, perché non si può crescere culturalmente con un insegnamento neutro e automatico, ma solo con il disagio e la fatica.
Del resto lo zelo dottrinale da cui si è investiti non ferisce mai, poiché tanta saggezza mai dimentica l’umiltà. D’altro canto, a chi è avvezzo a conversare con i libri dopo avere appreso da Renato Serra l’arte del «saper leggere» non può che riuscire agevole la pratica dell’amicizia, perché la pagina scritta, nell’istituire il rapporto con il lettore, lo predispone all’ascolto, educa al rispetto silenzioso e integrale, alla misura e perfino all’ironia, una volta appurato che il dialogo vero, nel riformarci di continuo, si adatta con prudente relativismo a nuove situazioni e a nuovi problemi, pronto a ridiscutere anche il ruolo di se stessi, che parrebbe già consolidato.
Nativamente scettico circa i giudizi ultimativi e irrevocabili, Ezio Raimondi predilige nella ricerca quotidiana – ma a lui piace semmai parlare con più concretezza di «lavoro» – attenersi a forme cartesiane di «morale provisoire», assai più coraggiose di quel che si crede per essere (e da sempre) tutt’altro che opportunistiche, dal momento che con questo ethos si è indotti a rivedere continuamente tutto ciò che ha l’apparenza della certezza, fuggendo i discorsi manichei con il tentativo di integrare i problemi e di scoprire, anziché un punto di forza che si sostituisca all’altro, una pluralità di centri focali capaci di costruire la reale complessità dei fenomeni.
Eccolo allora, appartato ma partecipe, rinegoziare di continuo i propri parametri culturali, con nuove letture e orizzonti mobili, nella consapevolezza che anche per Proust ogni lettore, quando legge, è lettore di se stesso e delle proprie inquietudini vitali, inevitabilmente trasferibili nell’intensità e nell’energia con cui si rende partecipi la propria disciplina. Non importa troppo la sede: che sia un convegno internazionale o un seminario per le matricole, una tornata accademica o una presentazione occasionale di un libro, a cui tanti altri si affacciano impreparati, esibendo sprovveduti soltanto la propria persona, l’impegno è identico, la serietà della preparazione inappuntabile.
Se la curiosità trascina a saggiare esperienze inedite, e a cimentarsi in nuove esplorazioni, sempre impegnative perché di frontiera, è inevitabile che il perimetro della parola letteraria, senza cancellare le competenze specifiche, si dilati fino a condividere, col “suo” Lucien Febvre, l’auspicio di un atto culturale à part entière, visto che quanto più si approfondisce la conoscenza tecnica di un testo, tanto più se ne mostrano i rapporti con un universo umano più ampio. Né è solo la produzione di Raimondi a occuparsi con immutata padronanza di ogni settore cronologico e di tante insospettate liaisons disciplinari, ma sono gli stessi allievi che, di riflesso, non avendo per referente l’esecuzione monotona di un unico spartito, possono crescere liberamente, assecondando ciascuno i propri interessi e le individuali propensioni critiche, ideologiche e umane.
Ezio Raimondi è uno studioso che non crede al destino o alla predestinazione, ma negli eventi individua piuttosto, in senso antistoricista, una componente di casualità, la stessa a cui si uniforma la sua carriera: «Credo di più al piano dei possibili, come Carlo Emilio Gadda e tanti altri: siamo una costruzione in cui la nostra volontà è solo una parte; poi ci sono le occasioni e soprattutto gli altri, i rapporti umani».
E sotto il segno di un rapporto umano profondo, nonostante che il pudore lo renda quasi reticente, nascono i modi di un fare cultura e di farla nel migliore dei modi possibili, ovunque sia la nostra collocazione professionale, persuasi che il sapere conta solo se conduce alla vita, se concede una scintilla di forza, se garantisce, vittorioso di ogni opportunismo, un presagio confortante di generosità.
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