I Malriusciti di Mirco Dondi
Mauro Conti, I Malriusciti di Mirco Dondi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 13, ottobre/dicembre 2012
Anche se appare come una tendenza della narrativa italiana recente, per non dire un approdo dell’ editoria più avvertita, il romanzo storico non è un genere di agevole pratica per lo scrittore. Diversi sono i problemi di ordine operativo e stilistico che egli deve affrontare, a cominciare dalla verisimiglianza dei luoghi e delle situazioni, per finire con la rappresentazione dei personaggi e delle loro espressioni. In sostanza, non è sufficiente mettere i calzari per un racconto su Roma antica, come non basta il cartello della battaglia di Borodino, in Russia, o qualche parola di francese, per raccontare della tragedia di Napoleone. Occorre spirito di osservazione ed occorre un inusitato intuito del tempo perduto; occorre talento, occorrono capacità narrative, occorre genio linguistico per restituire lo spirito di un’epoca; occorre, per dirla con Petrarca, intuarsi nel momento, occorre dare del tu alle coscienze di uomini e destini che ormai vivono nella pura possibilità, nelle buie profondità della memoria; occorre distinguere e leggere e capire, con occhio lucido e rigoroso, il distacco e la distanza che ci separa da quelle forme, capire tutto ciò che manca e che sembra passato inesorabilmente.
Di tutte queste occorrenze non sembra certo soffrire I malriusciti, romanzo d’esordio di Mirco Dondi, il quale ha stoffa di narratore sicuro e promettente, una novità nel panorama narrativo italiano, anche perché ha saputo scegliere un soggetto poco frequentato, la storia di un gruppo di amici negli anni ’80, epoca il cui il rampantismo, l’edonismo becero e tristissimo dominava “il tempo migliore” e dove, per altro, e nonostante il titolo, mal riuscito non era che il sentimento del tempo, o il giudizio, forse anche troppo radicale, su uno stato della nostra condizione di giovani di allora.
Dondi, che è ben noto alla cultura italiana per gli studi sulla Resistenza, come sui conflitti politici e sociali del dopoguerra fino agli anni delle stragi di Stato e dei Servizi Segreti deviati, ha fatto un bel lavoro di scavo e restituzione di quell’epoca ma, questa volta, plasmandolo con gli strumenti del narratore che anima la sua opera di pathos, con la passione e con l’amore.
Quattro sono gli amici, i protagonisti del romanzo: Laura, Sti, Paolo e Lino Sandri e quattro sono le voci che qui si intrecciano, si guardano, si sognano, si cercano e danno forma al tessuto narrativo sul filo della memoria, nel giro voluttuoso della coscienza, che riflette su di sé e sul presente. Il gioco della composizione è così abile che viene difficile pensare a un unico artefice dietro la singolarità delle parti, delle esecuzioni e il narratore sembra quasi l’autore di un spartito di musica contemporanea, un quartetto, perduto dentro il pentagramma, dove i suoni hanno preso il sopravvento e, stupiti, insistenti, o delusi e affranti, sondano i confini del silenzio nella fissità di un grido, nella coralità di un lamento che non si fa né armonia né autentica rivoluzione.
Ecco una generazione di giovani, figli della periferia, tra il capodanno del 1980 e i primi anni ’90, il cui ingresso in società non si realizza mai pienamente, il cui desiderio, segreto inconfessabile di ogni giovinezza, va a sbattere contro i lacci di un potere pervadente, di una società impasticciata e opportunista, di gente senza scrupoli perduta nel proprio guaio e nella propria cecità sul palcoscenico di una storia ruffiana e ottusa. Lino Sandri, Laura, all’ Università di Pisa o nei brucianti labirinti dell’amore, in questo senso, appaiono caratterizzare meglio tutto lo smacco, la delusione del desiderio che non trova il suo oggetto, o forse che lo fraintende; mentre Paolo e Sti, che hanno saputo adattarsi al proprio tempo o forse accettarlo con ghigno cinico e opportunista, sperimentano contemporaneamente il dolce successo del momento ma anche l’amaro e il freddo di una società devastata e ubriaca.
È un libro pensoso I malriusciti di Mirco Dondi, un romanzo femminile, come si dice da più parti, come lo è il Decameron di Boccaccio o un film come Il grande freddo, nel senso che del femminile sa ascoltare i dettagli dell’anima, cogliere quei fiori della valle dove vola lo spirito del tempo quando si riposa e si consegna in doni, in frutti, che sono momenti del vissuto e non hanno mai nulla di irreversibile, ma sono eternità vibrante e chiara.
Nella narrazione di Dondi, allora, nella lettura che la istituisce, il tempo si ritrova così riscattato e libero, quasi che un nuovo senso, apollineo, meridiano, fulgido rivesta il dolore più acre. In questo modo anche le finalità della storia, come le esistenze che la costruiscono, trovano possibilità inesplorate, quelle del dire e del dirsi; e la fatica della memoria, dello scrivere, del leggere non sarà avvenuta invano, perché illumina, perché giustifica, avrà giustificato, ha, ciò che allora non riuscimmo, non potemmo vedere.
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