La poesia in prosa di Libretto di transito di Franca Mancinelli
Roberto Portas, La poesia in prosa di Libretto di transito di Franca Mancinelli, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 16, luglio 2018/giugno 2019
La prosa di Libretto di transito (Mestre, 2018) è poesia che tende asintoticamente, perciò impercettibilmente, a diventare un vero e proprio romanzo laconico o sospeso allo stato embrionale; qualcosa al contempo di contratto eppure articolato abbastanza da non essere contenibile nella misura tipica del racconto. Plasticità o rilievo, per emergere, devono continuamente vincere la resistenza di una misteriosa bidimensionalità che è anche una reticenza, la quale attraversa le cose quasi cancellandole, oppure verificandone l’importanza, oppure ancora costringendole a diventare eventi o a non essere.
Viene in mente la paradossalità tangibile del nastro di Möbius che richiama continuamente alle due dimensioni un oggetto dall’interno della sua stessa tridimensionalità. Il soggetto, anche quello in prima persona, è interno all’enunciazione, non ne straborda mai per esistere fuori e prima di essa, rendendosene indipendente come l’a priori della narrazione. Inoltre quando il periodo è costruito alla prima persona, nonostante esso sia sempre breve, il soggetto trova comunque il modo di mettersi a lato, come a ridursi solo a un pretesto e un’occasione perché qualcosa d’altro da sé emerga. Ciò sembra addirittura enunciato proprio nella chiusa del testo, dove si dice che quello che il pensare comune considererebbe un oggetto, le foglie, sta dando inizio a una frase per quello che fino a poco prima era stato il soggetto in seconda persona, che una volta di più ha abdicato nell’arco di un fulmineo giro di frasi alla sua preminenza per finire ridotto alla posizione di oggetto grammaticale. Comunque, questa volta fin dall’inizio del libro, il lettore deve fare i conti con una vertiginosa varietà di soggetti grammaticali alternati a costrutti impersonali. Leggendo da questo punto di vista soltanto le prime tre pagine, prima di pervenire a una frase in prima persona, ci si imbatte in una fuga di costruzioni impersonali: «non è solo …», «È…», «Ci si stringe…»; e prima del primo attacco in prima persona corrispondente all’omonimo sostantivo, «Viaggio», c’è stato un «dormiremo». Una tale orchestrazione, tra le altre cose, sortisce anche l’effetto di lasciare ambigui o comunque indeterminati, pressoché per l’intero decorso del testo, gli statuti di solitudine e di compagnia.
Se e quando di un soggetto umano dell’azione si può qui parlare, sembra che esso esista solo per essere sorpreso da microeventi, talmente minimi da rasentare rischiosamente la tautologia (infatti questo testo può indurre anche a ripensarla altrimenti che da un punto di vista logico): microeventi di una spazio-temporalità transitante o mimetizzata alle cose, che pertanto divengono eventi, come foglie che invece di essere oggetto di frasi, le fanno. Ma perché l’evento delle cose sia avvertibile, le cose innanzitutto sono convocate proprio così, nientemeno né più che cose, come il Thing dell’epigrafe dickinsoniana. Il viaggio stesso, situazione suggerita fin dal titolo, si mimetizza e quotidianizza: non sborda di per sé da ciò che via via vi è incontrato, al punto che accade al discreto soggetto del viaggio che si «scordi di partire». E questa amnesia si consuma in presenza di una valigia disfatta, che può esserlo sia perché ci si è lasciati il viaggio alle spalle, o invece si è nel mezzo di esso. E a spartire il possibile nel gap di questa alternativa è anche ciò che solo la può riempire: l’indistruttibile improbabilità dell’amore, che al contempo alimenta la reticenza del Libretto, ed è ciò che solo la eccede.
La promessa implicita nella citazione dickinsoniana si rivela un vero e proprio programma cui il testo risponde fedelmente, trapassato com’è dal lavorio incombente di falde, fenditure, faglie – Gap. I loro espliciti affioramenti sono solo punte d’iceberg, e se sono tali è perché parassitano la scrittura nascondendovisi: sono loro che producono quella che definisco la sua reticenza. Sia chiaro che qui “reticenza” è un modo reticente di dire “poesia”. A cominciare da quelle soluzioni di continuità costituite dalle spaziature che si allargano ad interi fogli bianchi intercalati alle fulminee sequenze di scrittura (o non sono piuttosto queste a intercalare le pagine vuote? senonché anche in queste ultime si nasconde un’altra scrittura…). E la scrittura visibile a un tempo si ripiega su di sé ed è arrendevole alle incognite del vuoto sempre adiacente, in cui la reticenza si fa oggetto, solidifica. Ma questo coro di lacune semoventi (l’abbiamo visto prima spezzettare la sintassi pur rispettandone le leggi col fitto transito tra persone grammaticali e impersonalità) lavora capillarmente testo e viaggio, né la loro perturbanza chiede sempre e solo di essere riparata. Impediscono in extremis la tautologia, manifestandosi sotto forma di sospensioni, di “beanza”. Per esempio: la casa che «si è dimenticata la porta […] l’ha inghiottita come un boccone messo un po’ di traverso»; le stesse concavità più che serbare lasciano disperdere, come «la grande ciotola della piazza», col «grido insaziato» che nessuno calma-colma con un pasto, sembra urlare essa stessa o amplificare l’altrui grido, più che riunire e ricucire comunità. La contiguità di continuità e lacuna, testura e strappo si dialettizza in figure di oscillazione, fluttuazione, ritorno. Circolarità non immediate: se «il ritorno è difficile tra gli incroci e i rovi», tuttavia «ciò che conta è che la brocca posi di nuovo sulla nuca la mattina dopo». Se in questo caso se ne conclude, pluralizzando la persona, che è necessario che «teniamo la nostra postura», si dice altrove, impersonalmente, che «il modo per dire di essere ancora lì, è raccogliere un sasso e lanciarlo». Ciò fa sì che «la pura infanzia dell’acqua ne è scossa». L’elemento che un po’ alla cieca era stato definito tautologico sembra rivelarsi piuttosto come un “ritrovare”, dopo e attraverso l’interposizione, e il rischio inevitabile perché vitale di un bagno nel Lethe, oblio che, lo si è già visto, è insito nel viaggio, che implica esso stesso uno «scordarsi di partire». È grazie a uno smarrimento, soggettivo ed oggettivo, che si può accedere a una «zona più limpida dello sguardo». L’assenza si geometrizza in un «angolo duro» che calamita le cose così ritornanti. Il sonno del passeggero può smemorarlo del «narrare del treno» senza interromperlo: il «rumore delle rotaie sul ponte» lo sveglieranno più tardi, ripristinando la simbiosi. Anzi, talvolta iato e ritorno nemmeno si dilazionano in un prima e in un poi, ma si contraggono in un’unica durata composta ed eterogenea, persino contraddittoria: «ho deglutito allontanando il sapore». La durata stessa è tale in quanto include la propria interruzione come una temporalità cicatriziale: «appena dopo il silenzio» nella durata «potevano fare ritorno, trovare luogo le cose» – riapparire come l’eco di se stesse, resa possibile da una precedente caduta che le «indurisce». È lecito parlare anche di una “durata spaziale”: qualcuno è attratto da «luoghi rotti e vuoti», che subito dopo sono «spazi caldi». E insomma il tempo è qualcosa che «ricomincia» (vengono in mente certi sintagmi pavesiani delle cosiddette Poesie del disamore: per esempio «ricomincia la morte», ma anche per la tendenza a riverginare le parole elementali).
Il viaggio consiste in un sostare grazie al quale accorgersi dei viaggi delle cose: «Un bicchiere d’acqua sul tavolo, quasi colmo per caso dopo la cena» (quasi il verso del caproniano: «Sul tavolo […] ho ritrovato il bicchiere mai riempito»). «Nessuna presenza, nessuna costanza delle cose»: non sono modelli di permanenza, semmai indizi di intermittenza. «Sospese dalla terra, cadono cose in bilico nella maturazione»: non sono “oggetti”, l’io deve allentarsi per intuirne l’autonomia: «Più che portare alla bocca, la apro». Comincio a rendermi conto che la parola “transito” non è un semplice sinonimo di “viaggio”. E in queste durate che non durano se non interrompendosi, se non transitando, la crepa è anche la colla, che sdoppia la continuità del vivere-pensare in due “stessi”, e poi li sovrappone. Ne sortiscono stranianti coesistenze rese attraverso impercettibili scivolamenti grammaticali che mai, come nel gesto avanguardistico, contraddicono la grammatica. Vale la pena analizzarne, scomporne qualcuno, ma non dissezionando, bensì col solo accostarle tra loro, attenti a non frantumarne l’organismo, proprio come certe scosse, che il testo stesso evoca, attraversano e fendono senza colpo ferire («Ecco il fiume che mi allarga lo sguardo, che mi attraversa la fronte»). Che qualcuno stia per sopraggiungere e qualcun altro se ne sia andato da poco, la sintassi paratattica sembra conciliarli e inscriverli nel segno di un’unica ombra; detto altrimenti e altrove: «È accaduto qualcosa tra le ombre» (p. 29 e 31); quando c’è un solo evento le ombre si moltiplicano, quando gli eventi sono due una sola ombra li raccoglie. La rondine in un solo gesto cerca rifugio e grida dal piacere di evaderne» (p. 21). Per parlare, la bocca non può non aprirsi, ma questa concomitanza si disgiunge e dilaziona sintatticamente attraverso la sintesi: «tu parli e apri la bocca». Atti sparpagliati nel testo di pagina 29 ma tematicamente omogenei danno luogo a una sequenza narrativa apparentemente dislocata nell’asse temporale prima-poi, che invece si riassorbe come in un unico fotogramma bloccato a metà strada fra le varie evenienze che vi si sovrappongono e stratificano, un po’ come nella dissolvenza incrociata propria del cinema (e che il cinema ha scoperto in sé d’après la poesia). L’effetto qui è accresciuto dal medium della prosa, lungi dall’esserne diminuito. Vi accade che il soggetto in questione (come sempre ben poco determinato se non da un paragone: «come un bambino») parli, apra la bocca, mastichi malvolentieri fino a piangerne, non riesca ad ingoiare il boccone di cibo (icastica «poltiglia»), sorrida, ingurgiti finalmente – senza una vera e propria soluzione di continuità, com’è nella grammatica onirica. È il decorso temporale stesso a darsi «Come cadendo, precipitando a capofitto»?
Le coordinate cartesiane del movimento – se fisico o mentale in regime di poesia non ha importanza discriminarlo, perché in essa, come nel sognare, tutto è fisico compresa l’astrazione più spinta – sono date sì dalla verticalità della caduta (indistinguibile da un’ascesa) e dall’orizzontalità dell’andare, ma entrambe ricomprese e mischiate dalla nozione del titolo. Ma forse, come già in qualche modo si ventilava, il “transito” è qualcos’altro, e questa è ora la domanda che si fa pressante: cosa veramente “transita” nel testo intitolato Libretto di transito? Letteralmente fatto di transito? È il transito stesso ad avervi apposto le sue note, che, prima d’essere linguaggio, sono come strie di allumacature?
Lo spazio e il tempo cessano di essere, per così dire, entità ingombranti spazio e tempo. Si direbbe che questo viaggio (lo è in ogni caso superficialmente, e la superficie non è mai, sia chiaro, cancellabile) li assorba in sé piuttosto che svolgersi nel loro teatro e quindi, coincidendo con esso, li porti in giro non si sa più dove. O forse è il viaggio che viaggia intorno a noi, fermi? «[…] oggi il tempo è entrato, risuonando sui vetri. Le pareti si sono fatte sottili, come di membrana»: quasi un’incorporazione del tempo, una sua personificazione in re… Il Libretto di transito è forse quello che il mondo esibisce all’uomo, all’autrice, all’io narrante perché lo compili, vi apponga i suoi timbri, i suoi lasciapassare, e ciò che leggiamo non ne sono che le corsive annotazioni dei passaggi di luogo a un tempo burocratiche e liriche. Spazio e tempo non sono che sottoscrizioni, il loro intersecarsi l’un l’altro non è che soggetto, il suo insorgere, e soggetto non è che il loro intersecarsi: «in quel punto, dove si incrocia lo spazio nel tempo, dove si apre la sua pupilla». Per questo l’io e il tu non sono discernibili: siamo in un «campo di forze dove puoi trovarti sulla bocca il silenzio di un altro». Paradossalmente, cioè realmente, nella vita abitudinaria giriamo a vuoto, ed è questo movimento a determinare l’abitudine; mentre è grazie alla sospensione di essa da parte dello stato di viaggio che finalmente ci è dato fermarci. Il viaggio comincia da e consiste di questa fermata che salva dalla galileiana inerzia: sta ad essa come il sonno alla veglia. Sonno e viaggio infatti collimano, le prerogative del viaggio maturano e raggiungono l’acme nei sonni del viaggiatore lungo il suo viaggio. Nel sonno il soggetto – ma è più l’oggetto del viaggio – sperimenta la crescita vegetale: in questa condizione è disinnescato lo strato dell’anima che gli antichi chiamavano irascibile ed è propria dell’animalità, gli arti si comportano come rami, le dita sono foglie apicali. La loro eventuale caduta è anche quella degli attributi animali, ali e coda (nell’uomo sogno e colpa). I capelli sono la «cima della chioma» arborea, grazie alla stanchezza che ottunde l’aggressività animale spuntano gemme. È da questo ritmo vegetale che vengono alla luce anche le frasi. Le strie. Adesso la stessa autrice, è lei ad essere “libretto”. La carta stessa si ferma, proprio in quanto in viaggio: non va verso il mondo; lo aspetta. Come pellicola esposta, pura recettività, cartina di tornasole aperta a colori indicibili: il mondo vi stampa le sue tracce, come il calco del palmo di una mano preistorica (di cui Franca mi parlò pochi minuti dopo esserci presentati) sulla parete di una grotta che è fin da subito la sua memoria. Mondo che coincide col transito stesso, non ne è il capiente scenario ma il transitare degli stessi tempo e spazio, non più secchi assi cartesiani del mondo-oggetto, ma vivi vettori di continua, imminente soggettivazione. Il mondo inerte oggettivo è quello dei vestiti e della loro taglia estrinseca con la quale il corpo al risveglio litiga, dopo la metamorfosi notturna: la «taglia esatta della pena» è la sola cui adeguarsi per «confezionarsi» per il viaggio incipiente, che dovrà a sua volta abitare la “taglia” del transito, riceverne le stimmate come visti procedurali, e per il quale «dormiremo nel centro dello sguardo».
Il regime e la forza segreta cui attingono queste “frasi” è la rarefazione. Deleuze nel suo libro consacrato a Foucault dice che gli enunciati si distinguono dalle frasi per il fatto di essere rari. Col che intende che un enunciato frappone fra sé e un altro la distanza di un vuoto. Vuoto dopo il quale il soggetto del primo enunciato è rimesso in forse, e solo dopo il darsi del susseguente enunciato si scoprirà il nuovo soggetto, che anche se sarà lo stesso, nominalmente, dell’enunciato precedente, in realtà non coinciderà con esso. Anche di due enunciati susseguenti in prima persona, il loro soggetto non è lo stesso “io”. Come nelle pagine vuote di Libretto di transito c’è dell’altra scrittura tipograficamente invisibile (che bisogna avvertire e percorrere), così nella scrittura immediatamente disponibile alla lettura è fondamentale leggere le pagine bianche – questa volta esse invisibili – che si insinuano tra una frase e l’altra, che le rendono “enunciati”. Di certo ciascuna frase lascia dietro di sé e prima della successiva, come uno strascico o un’appendice, un’eco e una sospensione. Ma ciò se da un lato allontana una frase dall’altra, dall’altro le sovrappone, così accentuandone però l’attrito e l’eterogeneità: il fatto che non collimino mai quanto accade in un regime di continuità retorica. Che l’autrice, che pure potrà non riconoscersi in queste elucubrazioni con pieno diritto ribellandosene, abbia una consapevolezza di artista del fatto che questo sia un aspetto nevralgico della sua opera, lo attesta la constatazione che nell’ultima sua frase compaia la parola “frase”, che vi si parli di una frase sorpresa in statu nascendi, e che l’agente di questa nascita non sia umano ma siano, uscite dal loro mutismo – haiku occidentale e insperato – le foglie. Forse anche i fogli. E forse sono proprio questi “gaps” tra frase e frase, che le frasi di volta in volta spalancano e colmano, il cielo in cui l’albero «est en vérité enraciné». È da questo cielo intermittente che derivano rari effetti di atonalità che lasciano cicatrici al lettore proprio in quanto non sono intenzionati dalla minima pretesa avanguardistica.
(Si capirà altro e di più, degli enigmi che nascono dalla disarmante discrezione di questa poesia, anche grazie alla generosità in perdita – e se no che generosità sarebbe? – di questi miei errori di lettura, alla goffaggine di una precoce, arrischiata, esposta, fatalmente impaziente approssimazione alla complessità e alla vertigine).
tag: letteratura, poesia
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2019 Roberto Portas