Autoreferenza ed elogio della conformità
Giovanni Infelise, Autoreferenza ed elogio della conformità, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 9, luglio 2018/giugno 2019
Il ‘silenzio’ nasce dalle parole, dalla loro perspicuità e pervasività e prende corpo nell’attimo in cui la poesia si fa ascolto, visione di un mondo inconoscibile alla ragione, muto segno di infinite trame che predispone il poeta alla conoscenza; così come da un ‘tempo’ per sua natura incerto, forse perché elusivo, ha vita la creatività.
Compito della poesia è comprendere dell’uno la fragilità e restituire il senso del suo mutamento nell’armonia di un ‘reale’ incorruttibile; dell’altro configurarne a posteriori il ruolo attraverso un ‘istante’ fittizio che ne affermi l’esistenza agli occhi della critica e della storia.
La funzione del ‘silenzio’ è quella di dare un luogo distante al pensiero in cui potersi sciogliere; del ‘tempo’ quella di restituire – con un artificio credibile – un’immagine percettibile da tramandare ai posteri.
Ciò che contrasta visibilmente con l’essenza poetica dello ‘sguardo’, è proprio la decifrabilità insistentemente cercata di una ‘cosa’ per definizione inattingibile perché discreta, appartata, silenziosamente libera dal tempo che si ritiene ne scandisca l’esistenza (che si propone di chiarire i rapporti temporali dei fatti storici, precisandone l’esatta disposizione di ciascuno), lo stesso che lo vorrebbe collocato in un istante transitorio, òntico, riferito cioè all’esistente e non già all’essenza ontologica di questo di cui la poesia prima e il poeta dopo ne sono unici depositari.
Il poeta, porteur di una speranza inquieta e di una propensione all’eterodossia, non attribuisce un ‘tempo’ e una ‘forma’ all’inatteso puntando il dito sul calendario della vita – giacché essa, come ricorda Pessoa, «[…] è un viaggio sperimentale fatto involontariamente»1 –, ma lascia che sia questa a segnare l’andatura (il ritmo) con cui la poesia le appare e si dona per suo tramite all’essere come paradigma che sfugge a ogni cronologia, a ogni tentativo di omologazione, di omologia con l’esistente, a ogni tentativo insomma di risalire a posteriori la sua origine, le ragioni della sua comparsa e del suo stesso esistere.
[…] Questo rapporto vita-poesia non può essere una pura equivalenza che scarti poi l’inferenza della fantasia e ricada nel biografismo e nello psicologismo […]. La conoscenza della vita di uno scrittore deve essere configurata come Erlebnis, con ciò che questa parola comporta di rivissuto e di cosciente, che il poeta rivede entro l’orientamento della sua poetica ai fini della sua poesia, come elemento vivo della sua storia dinamica: entro cui la poesia trova le sue occasioni, le sue situazioni concrete, si presenta, nel suo accordo dialettico con la personalità intera del poeta, in un ritmo di svolgimento storico, ha un suo farsi (poëta nasciture et fit), una sua genesi non miracolistica e medianica anche quando così può sembrare all’autore dominato dalla forza urgente dei suoi fantasmi poetici, tutti nutriti invece del suo stesso sangue, della sua cultura, della sua esperienza, della sua vita personale e storica2.
Un rapporto in cui «il silenzio comincia ad assumere un corpo, a diventare una cosa»3 proprio da quella ‘parola’ udita nell’unico istante possibile in cui appare e si offre al poeta in un gesto quasi d’amore. La verità sta nelle ‘cose’, ma il senso di queste è in ciò che osserviamo come ‘reale’ e al tempo stesso come universale.
Ai critici, nonché agli storici, è così concesso ‘bonariamente’ di vivere l’illusione di poter ‘collocare’ la poesia lì dove essi, per ragioni diverse4, credono debba dimorare, lì dove ritengono abbia avuto origine l’atto creativo per mezzo del quale il poeta ha dato forma e contenuto alla sua riflessione, alle sue parole, al suo ‘sguardo’ sul ‘reale’. In altri termini, è concesso loro di identificare la poesia con ciò che ‘essi’ presumono di poter cogliere autonomamente e ‘autorevolmente’ analizzando fatti ritenuti ‘essenziali’ all’individuazione del contesto o della specifica circostanza da cui quella avrebbe tratto alimento.
È un voler sottomettere la ‘parola poetica’ all’esame del discorso critico o della ricostruzione storica di un fatto di cui quella ne sarebbe l’espressione artistica più autentica a cui rimandare compiutamente, riducendo così a mero episodio l’istante creativo in cui detta ‘parola’ si ritiene si sia manifestata, riconducendola a un tempo ulteriore che ne racchiuderebbe in sé il senso – e con esso una nuova e più attendibile precisazione –, ma anche a un singolare e immutabile luogo in cui il significato di ciò che si ritiene espresso all’origine viene riscritto e reso verosimile, ma con un processo del tutto empirico frutto di un ‘immaginario’ tendenzioso o di una indagine a posteriori le cui argomentazioni non riflettono né rappresentano più ‘quella parola’ e il poeta che l’ha pronunciata.
In tal senso l’aneddotica circa i ‘fatti’ sulla cui base si presume che l’opera poetica abbia avuto vita non riguarda il poeta – per il quale «niente si sa, tutto si immagina»5 –, ma chi ha necessità di delineare i tratti di uno stile in grado di connotare la poesia del tale o del tal’altro autore e di giustificarne l’esistenza unicamente in rapporto a una prospettiva storico-letteraria.
Il ‘come’ l’esperienza e l’esistenza possano diventare materia poetica resta, tuttavia, argomento controverso e tutto da dimostrare poiché il rischio che l’autoreferenza6 – sempre presente in chi scrive – connoti l’azione poetica, rendendola inutile e impropria al fare poesia, appare tutt’altro che una possibilità remota.
Quando ciò accade ci troviamo infatti di fronte all’elogio della conformità, dell’adattarsi con facilità a uno stilema dal quale invece il poeta dovrebbe guardarsi perché la sua poesia parli non a se stesso e di se stesso, ma di come assumere su di sé quel senso di universalità, di oggettività che gli consente di attingere al ‘vero’, a ciò che rappresenta il fondamento stesso del suo essere per la vita in ogni forma e predicazione, ossia in ciò che egli afferma o nega attorno a un soggetto parlando, ma anche ascoltando le varie gradazioni del ‘canto’ che gli giunge da un mondo fatto di ‘cose reali’.
[…] L’opera d’arte […] utilizza l’uomo e le sue disposizioni personali semplicemente come terreno nutritivo, impiegandone le energie secondo leggi proprie, e modellando se stessa secondo ciò che vuole divenire.
[…] L’opera porta con sé la propria forma; ciò che l’autore vorrebbe aggiungervi viene respinto; ciò che egli vorrebbe respingere gli viene imposto. Mentre la sua coscienza trovasi come annientata e vuota di fronte al fenomeno, egli viene sommerso da un fiume di idee e di immagini che non sono, in alcun modo, il prodotto della sua intenzione, e che la sua volontà mai avrebbe voluto creare. […] Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale egli non può sottrarsi7.
Per il poeta non è rilevante il ‘quando’, ma la ‘domanda’ suscitata dall’osservazione dell’accadimento di cui è spettatore, la riflessione che ne consegue come unica via possibile alla cognizione di ciò che si dà alla sua sensibilità, alla sua intuizione, al suo pensiero della ‘cosa’ in cui scoprire che «l’unico senso intimo delle cose è che esse non hanno nessun senso intimo»8. Da qui il poeta parte alla scoperta dell’imprevedibile che lo porterà verso altre priorità, da una poesia all’altra.
Ci si chiede, a tale riguardo, cos’altro dovrebbe essere la critica se non «l’arte di conoscere le strade segrete che portano da una poesia all’altra»9. Sta di fatto che l’oscillazione di senso della poesia generalmente svia il critico sul significato ultimo di questa inducendolo, oltre che all’errore, a una certa banalizzazione dei contenuti e della forma tale da ricondurre la poesia – per analogia, inclinazione e scelte formali che egli ritiene di poter individuare – a una qualche poetica preesistente o a una determinata corrente letteraria.
Ciò è dovuto probabilmente alla scarsa immaginazione del critico, alla sua ‘impazienza’ a cui finisce per affidare il suo giudizio o, forse, al fatto di essere più propenso ad arricchire la sua ‘conoscenza’ di dati e di notizie che a sospendere la sua azione in nome di una maggiore e più profonda considerazione in vista di una sostanziale e ben diversa comprensione. Il giudizio, come sappiamo, «[…] non è il luogo originario della verità. Il giudizio stabilisce un accordo, una corrispondenza o conformità; esso dice l’ente che è così com’è. Ciò in quanto il giudizio è un rapporto (Verhältnis) al manifesto (das Offene), al farsi manifesto da parte dell’ente. Più originariamente del giudizio o proposizione è questo farsi manifesto il luogo della verità»10
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A complicare le cose è proprio il poeta che non omette deliberatamente quei riferimenti ‘precisi’ di cui ha sete la critica, semplicemente non li ricorda o, più esattamente, non li rileva quali ‘indizi’ significativi del suo passaggio da un verso all’altro, da una poesia all’altra – ma anche da un’atmosfera all’altra, da una disposizione dell’anima a un’altra, da un oggetto all’altro su cui si appunta il suo interesse – unicamente perché non se ne cura o non li ritiene determinanti al fine della composizione medesima. E d’altronde chi può stabilire con certezza l’istante in cui detti ‘segni’ rappresenterebbero il punto di inizio e la conclusione di un itinerario lungo il quale ha avuto luogo l’atto creativo e, quindi, la poesia?
E allora perché «il poeta è un fingitore»?11 Forse perché lo esige tacitamente il ruolo che suo malgrado gli è stato attribuito da chi come il critico, restandone ‘affascinato’, ne esige la coerenza, il discernimento, qualità o abilità che questi sa di non possedere, non almeno in quanto prerogative che egli ammette come proprie del poeta. Ciò che stupisce è che spesso tale sicurezza non tocca allo stesso modo quell’attitudine che pure si vorrebbe del critico, quella cioè di predisporre le condizioni necessarie a una reale conoscenza di ciò che il poeta intende unicamente come vero. E dunque «il poeta è un fingitore» forse perché «[…] finge così completamente | che arriva a fingere che è dolore | il dolore che davvero sente»12.
Il sentimento di ammirazione che pervade il critico, è un segno di debolezza (o di indebolimento al pari di quello rilevato da Harold Bloom a proposito del passaggio da una generazione poetica all’altra) quando pone in risalto la volontà, di un animo emotivamente ‘indebitato’, di assurgere al ruolo di conoscitore più ‘accreditato’ di un poeta e della sua poesia per inclinazione irriducibile alla propria rappresentazione.
Un poeta che non si lascia adulare, piegare o sedurre dal ‘successo’ o dal bisogno di ‘esistere’, sa che «c’è una paura che segue il letterato come la sua ombra: quella di non esistere»13, sa che «con sgomento il letterato constaterà che la sua vita è stata una spola tra il desiderio di esistere e la paura di non esistere più»14: è un poeta che non si lascia attrarre dall’effimero, da ciò che illusoriamente crede di poter raggiungere, ma neanche dalla volitività che pure affabilmente egli riconosce al critico come meritoria per tanto ‘accanito’ interesse e lusinghiera ‘fedeltà’.
Del resto non si può negare che ‘quella’ «rappresentazione ha, con verità, tutto il potere attrattivo della falsificazione. A tutti piacciono i falsari; è un sentimento umano e istintivo»15.
Il fatto è che il poeta spesso vive una solitudine di cui ignora consapevolmente le ragioni, ma che predilige comunque giacché essa amplifica l’immaginario, molto più affine – insieme al sogno – alla creatività che alla finzione dei rapporti ‘cosiddetti’ sociali, alla ‘comprensione’ che questi esibiscono pretendendo di imporre un’immagine di esso che giudicano simile, un’immagine che assomiglia al loro mondo in cui il poeta sa di non potere né volere abitare, un mondo in cui ciò che ‘non si è’ non appare mai. «Ho sempre rifiutato [afferma Pessoa] di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza»16.
La solitudine appare così al poeta il rimedio necessario alla volgarità e all’insipienza del suo tempo, forse per questo ritiene che «la celebrità è un plebeismo. Perciò deve ferire un’anima delicata. È un plebeismo perché lo stare in evidenza, l’essere guardato da tutti infligge, a una creatura delicata, una sensazione di consanguineità esteriore con quelli che provocano scandalo nelle strade, che gesticolano e parlano ad alta voce nelle piazze»17.
L’eccessiva ammirazione da parte del critico vs apologeta di una certa poesia (di un certo poeta), mostra involontariamente nel suo tono coinvolgente il lato ambivalente (taciuto) di un apprezzamento quasi ‘risentito’ per quelle qualità che sa di non possedere né di poter far proprie, ancor più se egli stesso brama l’appellativo di poeta.
Un poeta ‘nuovo’! Un ‘nuovo’ poeta? Probabilmente ‘quello’ che ragiona, si interroga, che scava e costruisce sulle ceneri della propria vanità e dell’adulazione il suo bisogno di considerazione e di riconoscimento. Forse egli non ha compreso che il «maggior poeta dell’epoca moderna sarà colui che avrà maggiore capacità di sogno»18. Sarà un poeta appartato che avrà disperso nella sua capacità di sognare ciascun tratto visibile della vita colta in ogni sua forma e manifestazione. Sarà sua la necessità di descrivere, di comunicare quel sogno fonte di gioie ma anche di inquietudini incomunicabili e, tuttavia, ansiose di essere dette attraverso la raffigurazione di un reale possibile.
Un critico non potrà mai dirsi anche poeta se non a costo di una falsificazione del suo ruolo primario, di un’antinomia di cui sarebbe unico artefice; un poeta dovrà accettare senza alcun pregiudizio o timore la possibilità di essere apprezzato anche per le sue qualità critiche.
L’onestà non dimora in una conoscenza enfatizzata dal desiderio né dal delirio che pure si osserva ascoltando ‘relazionare’ il critico sulle ultime acquisizioni ‘filologiche’, bensì nel riconoscere all’autore, su cui si appunta la nostra riflessione, qualità che noi non possediamo, ma di cui apprendiamo l’esistenza, qualità di cui può giovarsi la nostra vita intellettuale, i pensieri che se ne traggono attraverso il significato di parole e l’uso di un linguaggio di cui quelle qualità si servono per giungere fino a noi, tutto ciò senza alcuna ragione o necessità particolari di vedersi riconosciuto lo status di poeta.
Malgrado ciò – come bene ha spiegato Ingeborg Bachmann – noi tutti disprezziamo e poi osanniamo un autore, ne lodiamo l’opera più del dovuto o più del necessario la trascuriamo, «[…] disprezziamo, rivalutiamo, trattiamo la letteratura come se fosse qualcosa di fisso ma, al tempo stesso, la manipoliamo sino a farla assomigliare a un ideale»19: il nostro.
Ciò dovrebbe essere chiaro non al narcisista, certo, ma a colui il quale sostiene di voler fare della ‘misura’ la forza della sua abilità, del suo impegno, delle sue prerogative critiche e di ricostruzione anche storica di quel che appare per ciò che è in ogni tempo, tra una sensibilità che ‘coglie’ e un accadimento che ‘mostra’, tra ciò che è ‘reale’ per l’uno (il poeta) e ciò che per l’altro (il critico) finisce, il più delle volte, per apparire soltanto ‘realtà’ cioè a dire dimensione incontrovertibile entro cui si ritiene erroneamente che tutto abbia compimento e, pertanto, valenza di verità.
Quello che accade e con un certo clamore anacronistico si lascia passare quale ‘utile comunicazione’ di un fatto che dovrebbe contribuire, con maggiore chiarezza, alla conoscenza di una certa poesia o di una determinata poetica, in verità rende irrilevante un concetto che tale non può essere considerato e che, anzi, va riaffermato con forza: è la realtà che rimanda al reale cioè, etimologicamente, alla cosa che esiste concretamente, o per meglio dire, alla sua oggettività, alla sua verità, la stessa a cui insistentemente il poeta rivolge i suoi sforzi e a cui affida il significato più autentico del suo fare poesia.
Solo successivamente, forse, il poeta si chiederà se abbia o no avuto parte in tutto ciò un nome, un luogo, un colore o un volto, un segno del tempo, un fatto oppure, semplicemente, proverà stupore nel constatare la distanza che avverte tra sé e il suo ‘non ricordo’, tra il fingere, casomai, di aver dimenticato e la consapevolezza che ciò su cui gli viene chiesto di rendicontare in realtà non sia mai intervenuto, almeno non nei termini in cui quel nome (quel fatto) possa aver connotato di un’impronta fugace quel che resta del suo ‘sguardo’, del suo passaggio, del suo perenne migrare da un paesaggio all’altro della vita si-len-zio-sa-men-te.
Note
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