Marta Franceschini, La valigia di Agafia
Mauro Conti, Magda Indiveri, Marta Franceschini, La valigia di Agafia, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 15, no. 14, ottobre/dicembre 2008
Recensione di Magda Indiveri
Una valigia grande, quella di Agafia, che stiva tutta la sua vita e quando si apre rovescia sul lettore i suoi segreti. Come un libro.
Quando la apro la prima volta è piena di voci liquide, di meritato incanto, di sospensione estiva. Come una radio lontana, le voci trasmesse dall’acqua sono prima dimesse, poi chiare, gorgoglianti, poi improvvisamente si addensano come una nuvola scura, si coagulano in una notizia tragica, una prima morte. Le morti, assurde, spietate, punteggiano la vita di Agafia, noi ancora non lo sappiamo, siamo colpiti da questo contrasto, da questa morte nella vita, da questa ombra che ci pare presagio. Alla riapertura la valigia è sorprendentemente piena di foglie, spinose foglie di tabacco, che rimandano a luoghi per noi assolutamente lontani e inimmaginabili. Saliva amara, mani annerite, foglie che pungono, polvere, aghi, sacchi. La fatica del vivere – uva trafugata nel grembiule della madre per nutrire i figli – che non sospettiamo nelle nostre realtà occidentali. Ci sporchiamo di quella polvere scura quasi grati che qualcuno ci informi, ci dica cosa succede di là, stupefatti quanto Agafia, che da parte sua non sa nulla della guerra in Afghanistan: sembra preistoria ed è l’85.
Poi c’è la valigia regolamentare, quella del lungo viaggio in treno, cinquantasei ore, la Siberia addirittura! con i lavori degradanti, i lavandini ghiacciati, i coltelli, il bosco. Agafia sta sul margine di un inferno che sembra non arretrare mai; ha momenti di pausa fatti di niente, di biscotti, di un vestitino a fiori, di infinitesime dolcezze che però vengono annegate in una valigia di violenza. L’umanità è carnefice verso di lei, non ci sono remissioni o scusanti nemmeno per noi che non vogliamo sapere, che fingiamo una cortese comprensione di fronte alle donne dell’est o del sud del mondo che ci sostituiscono coi nostri anziani, coi nostri bambini. E siamo carnefici a non vedere il dolore di quell’umanità migrante, senza casa e famiglia, che sembra non chiedere nulla per sé: solo il lavoro.
Donna di dolori è Agafia, e il dolore è un grido che non vuole stare chiuso, che rifiuta la consistenza del sasso cui le avversità vorrebbero contenerlo; lei lo sente nel petto come pietra liscia e non vuole ingoiarlo, vuole che diventi nocciolo, seme: un grido petroso che diventi pianta. Succederà quando troverà finalmente una levatrice, un’altra donna, che quel ciottolo- seme non avrà paura di raccogliere. Sono molto belle le pagine iniziali in cui Marta dà conto dello sgomento, della fatica a raccontare la storia di un’altra, finché non scopre che può farsi solo voce – come Eco dietro a Narciso- voce che può interpretare. E non è finzione letteraria- forse sarebbe stato più facile – ma esercizio di identificazione che comporta un dispendio emotivo molto grande.
Le interruzioni e le riprese dei tempi nella storia e il racconto parallelo, in corsivo, di un amore presente-assente nella vita di Agafia danno movimento alla lettura. Una valigia che si apre e si chiude continuamente; che sorprende, addolora, colpisce. Marta non ha tolto ad Agafia la sua valigia. Ma quando l’ultima pagina si riconnette all’inizio, e Agafia cammina in via Pietralata verso l’incontro con le scrittrici che germinerà poi il libro, ci appare bella, alta, leggera. Cammina ed ha un sogno dentro, una casa per i bambini moldavi. E la valigia resta pesante, ma vola.
Intervista di Mauro Conti
“Scusi, lei è una scrittrice?”
L’otto marzo duemilaecinque ero stata invitata insieme ad altre scrittrici bolognesi a una lettura pubblica in un locale. Avevo scritto per l’occasione un pezzo sull’India. Arrivai in anticipo e notai, seduta in prima fila nella sala ancora vuota, una signora con cappotto e borsa nera, in attesa. L’evento durò circa un’ora e al termine fu offerto un piccolo rinfresco. Io riempii il bicchiere diverse volte, cedendo a una crescente euforia. Fu a questo punto che la signora in nero si avvicinò e, con forte accento straniero, mi chiese: “Scusi, lei è una scrittrice?” Risposi che non lo sapevo, ma che avevo scritto e pubblicato un libro. “Sto cercando una scrittrice”, insistette lei. “Perché?”, le domandai, a mia volta incuriosita. “Perché se no muoio” rispose, “e non posso morire con questo grido dentro.”
Con quest’inizio, si può ben dire folgorante, si apre La valigia di Agafia di Marta Franceschini.
Bibliomanie ha posto all’autrice queste domande:
Nel romanzo racconti con molta sincerità il modo cui sei entrata nella storia di Agafia e come lei sia entrata in te con una urgenza, una necessità che ha sradicato qualsiasi resistenza, ma io vorrei sapere, se non sono indiscreto, quanto, prima di conoscerla, la sua storia ti assomigliava, quanto a fondo il riflesso del suo vissuto si rispecchiava in te?
L’incontro con l’altro è sempre l’incontro con uno specchio. Possiamo davvero conoscere solo chi, in fondo, ci appartiene. Quando Agafia ha cominciato a raccontarmi la sua storia, ho capito subito che, in qualche modo, mi riguardava da vicino, nonostante le diversità che ci separano. Mi sono sentita chiamata a dar voce al suo destino, e attraverso il suo, al mio. Prima che letteraria, è stata una sfida umana: sarei stata capace di stabilire una relazione autentica con questa donna? Di restare aperta di fronte al suo dolore? Di farmi attraversare dal suo tormento? E lei, avrebbe retto il mio?
Per usare una parola semplice, anche se troppo spesso usata a sproposito, abbiamo provato a diventare amiche. Viviamo in un’epoca di grande crisi delle relazioni, dove i rapporti sono sempre più tesi verso la parodia, la rappresentazione, a scapito della realtà, a volte dura, difficile, ma a volte anche splendente. Nello sforzo accanito di difenderci dalle ferite, finiamo per perdere anche le cose migliori. Rischiamo così di dimenticare che la qualità della vita non è data da quello che facciamo, ma da come lo facciamo. L’importanza della relazione non è in nessun caso eludibile, al contrario da essa dipende, in massima percentuale, la qualità del risultato.
Possiamo riassumere brevemente la struttura narrativa del romanzo? C’è il racconto di una scrittrice che incontra per caso Agafia; c’è il diario di Agafia, magnifico controcanto…
La struttura del romanzo non è nata da una pianificazione a tavolino, piuttosto da un richiamo istintivo, una sorta di attrazione, una seduzione che ho assecondato, e che ha scomposto in più piani la narrazione. Trovo che uno degli aspetti straordinari della scrittura sia proprio la possibilità di dare voce alle nostre tribù interiori, quella sola moltitudine di cui parla Pessoa che, se nel quotidiano ci affatica e ci confonde, nell’arte si libera e trova infinite varietà di espressione.
Al centro del romanzo c’è la storia di una donna della Moldavia. Quanto c’è di questa storia, nella storia della donne in generale? In altri termini: è una storia con un valore universale?
Io credo di sì. Innanzitutto, universale è la povertà da cui Agafia proviene, ovvero la caratteristica che accomuna la stragrande maggioranza di uomini e donne vissuti su questa terra dalla preistoria a oggi. In secondo luogo, definirei universale anche la sua sofferenza, altro decisivo tratto che accompagna l’umanità dai suoi albori, e che non sembra affatto sul punto di decrescere né per il presente, né tanto meno per il futuro. Ma quello che credo renda davvero universale la storia di Agafia è la sua assoluta determinazione a non arrendersi, la sua irrinunciabile e appassionata ricerca di un senso, la sua bontà di fondo che sopravvive ad ogni offesa, si rialza ad ogni caduta. Mi ricorda la figura di Giobbe, che non si rassegna al silenzio di Dio. Anche Agafia, con la disperata forza dei perdenti, cerca una voce per lanciare il suo grido al cielo. Anche lei, come Giobbe, crede ciecamente e contro ogni evidenza, che udirà l’eco di una risposta.
Parliamo del tuo stile narrativo: quali sono i tuoi punti riferimento letterari, gli scrittori dai quali hai assorbito la volontà di scrivere?
Non è stata la volontà a spingermi a scrivere, se mai il bisogno anzi, la prepotenza del bisogno di esprimere il caos primordiale che mi abitava. Il mio primo romanzo, scritto sull’onda di questa tempesta, fu spedito a cinque case editrici per scommessa, grazie all’insistenza di un amico: ero certa che avrei vinto una cena. Invece mi rispose la Sellerio, e il libro fu pubblicato.
Quanto alla lettura, dico sempre che i libri mi hanno salvato la vita. Sono stata una lettrice vorace fin dall’adolescenza, ho amato i classici, in particolare i russi, che ho letto negli anni del liceo, in classe, per sopravvivere alla noia mortale delle lezioni. Con gli anni mi sono progressivamente allontanata dalla narrativa per dedicarmi alla saggistica, che è tuttora al primo posto delle mie preferenze. Amo moltissimo i libri di storia, recentemente ho letto tutto d’un fiato le 1200 pagine di Fernand Braudel sul Mediterraneo all’epoca di Filippo II, una lettura entusiasmante: Braudel non è solo un grande storico, capace di cogliere la molteplicità e l’ambivalenza degli eventi, e svelarne l’autentica complessità. È anche un grandissimo scrittore, che ci regala pagine sublimi di lirica, di spaventosa bellezza. Un’altra mia grande passione è Cioran, la sua scrittura mi lascia letteralmente senza fiato, abbacinata da tanta luce, rapita.
Come si colloca questo romanzo all’interno del tuo percorso di scrittrice?
Ho più volte ripetuto di non essere io a scrivere un libro, ma il libro a scrivere me. È questa la spiegazione che meglio si avvicina alla realtà dei fatti, per lo meno la mia. Non decido di scrivere un libro, ma qualcosa, dentro o fuori di me, diventa così incontenibile da spingermi a scriverlo. Dopo il mio secondo romanzo (Sangue del mio sangue, Marlin Editore) avrei voluto non occuparmi più del dolore, o almeno prendermi una pausa, scrivere d’altro. Invece è arrivata Agafia, con la sua urgenza, ed io non ho potuto fare a meno di accoglierla, di farla mia. Adesso è in vista un’altra meteora, improvvisa e furibonda come le precedenti, ed io mi sono rimessa in cammino, per seguirla. Forse sarà il mio prossimo libro ma, per ora, preferisco non parlarne…
Tu sei anche insegnante: pensi possa avere un valore pedagogico questa storia?
È un commento che è stato fatto spesso durante le presentazioni del libro. La Libreria Trame (via Goito) lo ha inserito in un programma di letture guidate che svolgerà presso le scuole bolognesi. Io sono d’accordo, credo che i ragazzi abbiano bisogno di conoscere la realtà, di fare i conti con esperienze concrete: sono talmente sommersi dal virtuale che rischiano di perdere completamente la loro memoria esistenziale.
Come riesci a conciliare l’impegno della tua professione con l’arte della scrittura che richiede sforzi rilevanti che coinvolgono tutta la persona?
Finora ho avuto fortuna. Tutte le volte che dovevo dedicarmi con intensità alla scrittura, in un modo o nell’altro il mondo si è fermato, e ho potuto farlo anima e corpo. In questi momenti sono capace di lavorare al computer anche dieci, dodici ore di fila. Non sento la fame, la sete, il sonno. Sono completamente assorbita dalla storia. In genere, in poco tempo completo la prima stesura. Poi inizia il lungo lavoro di revisione, che può durare anche anni: sette, per l’esattezza, per Sangue del mio sangue, ma questo riesco a farlo anche nel tempo libero dalla scuola.
Cosa ti aspetti da questo romanzo e quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Quando arrivo alla pubblicazione di un libro, sento che il mio compito è finito. Vorrei poter voltare pagina e occuparmi d’altro. Sono contenta se se ne parla, e naturalmente se si vende, ma mi sembra che non mi appartenga più, che sia volato via, come un figlio grande che esce di casa: continui ad amarlo, ma lo lasci libero. Nel caso de La valigia di Agafia il romanzo è stato opzionato per la realizzazione di un documentario, e dunque può darsi che questa separazione sia più lenta del previsto…
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