Chiara Santini. Il Giardino di Versailles. Natura, artificio, modello
Mauro Conti, Chiara Santini. Il Giardino di Versailles. Natura, artificio, modello, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 14, no. 12, luglio/settembre 2008
Dopo l’estate tumultuante della nostra coscienza ambientale per via del martirio inflitto dagli ampi incendi del meridione d’Italia e della Grecia, forse non sarà tempo sprecato per il lettore impegnato il bel libro di Chiara Santini dal titolo Il Giardino di Versailles. Natura, artificio, modello, uscito da Olschki nell’aprile 2007. L’autrice, che svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Discipline storiche dell’Università di Bologna, e attualmente collabora con l’Ecole Nationale Supérieure du Paysage (ENSP) di Versailles, ci aiuta a considerare, tra l’altro, come le stagioni del nostro rapporto con la natura abbiano avuto ben diversi orizzonti rispetto alla follia devastante degli incendiari, e come il sapere e l’immaginazione umana alleati di madre Terra abbiano potuto produrre quella meraviglia della progettazione che appunto prende nome di Giardino di Versailles.
Il giardino come luogo della rappresentazione e della esperienza della natura ha, ovviamente, trovato diverse declinazioni nel corso del tempo. Ogni epoca, più o meno consapevolmente, ha proiettato le proprie forme ideali, o la propria idea di spazialità nella forma del giardino. Con Versailles la natura perigliosa, la vertigine ossessionante di ombre e fantasmagoriche parvenze tipiche della visione medievale, viene ripensata al punto di piegarsi a rappresentazione simbolica di un intero Stato, divenire ontologia speculare della Regalità francese, assumere i connotati di un approccio estetico che si fa quasi scienza e punto di riferimento per le nuove generazioni.
Versailles nacque e si sviluppò unicamente per volere di un Re, di Louis XIV. Da antico borgo di poche abitazioni lungo la strada che conduceva a Parigi, con qualche locanda, una chiesa in un paesaggio di poggi boscosi e di acquitrini in cui Louis XIII andava a caccia, divenne simbolo della gloria e della potenza francese, non meno che sede di delizie ed esperienze estetizzanti. Il Re Sole volle Versailles epitome della forma statale, della sua propria leggenda, e, per conseguire il suo obiettivo, ricercò i migliori tecnici dell’epoca. Per il giardino fu chiamato André Le Notre, che si era già occupato della ristrutturazione delle Tuileries e frequentava il Louvre, o meglio la Grande Galerie, come allievo del pittore Simon Vouet; ma col tempo si affiancarono all’impresa della fabbricazione una vera e propria genia di tecnici, architetti come Louis Le Vau e il pittore Charles Le Brun, scienziati, e funzionari che fecero dell’arte giardiniera un oggetto di riflessione teorica, di sperimentazione estetica, che andava ben oltre l’ambito agricolo botanico in cui tradizionalmente essa era stata confinata.
Il parco reale divenne, grazie al loro ingegno, il teatro per spettacoli, feste, caroselli, la sede naturale dei divertimento della Corte, un luogo di delizie che si richiamava esplicitamente agli immaginari ariosteschi con il Palazzo, luogo delle prime di Molière, Racine, non solo dedicato alla edonistica ricreazione ma vero e proprio disegno filosofico, trasposizione di una idea di verità. Del resto se si va a vedere, come ha fatto la Santini con doviziosa perizia e sapiente cognizione, le competenze della figura professionale del tecnico di paesaggio, insomma del giardiniere, si nota che era dotato di una formazione pluridisciplinare, che conosceva i rudimenti della matematica, dell’arte del disegno prospettico, dell’ottica, della meccanica della percezione oltre ai necessari fondamenti di storia estetica e sociale. Nei giardini di Versailles in cui si rispecchiano anche la ricerca e lo studio della pittura del Rinascimento italiano, “il gusto per il gioco ottico, per l’illusione scenica, per la sovrapposizione dei piani- sostiene la Santini- convive accanto alla ricerca di uno stile ordinato, monumentale e perfettamente decifrabile.” Essi, dunque, sono luogo della rappresentazione dell’esperienza della natura, di una natura tiranneggiata a vantaggio dell’uomo, per il suo piacere, per sondarne la misura nel suo divenire e nella sua fissità. Il giardino concettualizza le forme della natura, le riduce a figure geometriche, sperimenta quegli artifici ottici che gli uomini del Seicento avevano sperimentato a teatro e in pratica ragiona e riflette una immagine del mondo come opera d’arte.
In ultimo è il caso di elogiare il convincente modello euristico di Chiara Santini, per la sua capacità analitica ed estrattiva di studiare l’evento storico, la fonte archivistica meno appariscente nel quadro più ampio della storia delle idee, dei movimenti macro e microstorici e spirituali, che è il grande retaggio della scuola delle Annales francese e che si innesta nella appassionata riflessione storico geografica della scuola bolognese, animata un tempo da Lucio Gambi, e ora da Franco Farinelli e Carla Giovannini. Un bel libro, grazie.
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