Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L’Illuminismo e la filosofia del disastro. Introduzione e cura di Andrea Tagliapietra. Traduzioni di Silvia Manzoni ed Elisa Tetamo. Con un saggio di Paola Giacomoni
Mauro Conti, Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L’Illuminismo e la filosofia del disastro. Introduzione e cura di Andrea Tagliapietra. Traduzioni di Silvia Manzoni ed Elisa Tetamo. Con un saggio di Paola Giacomoni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 06, no. 12, luglio/settembre 2006
Nel nostro tempo, asfissiato da un turbinio pulviscolare d’iperattività editoriale che – spesse volte – toglie il respiro, non è troppo facile imbattersi in un testo bello, interessante, coinvolgente come Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, magistralmente curato da Andrea Tagliapietra. In verità, Bruno Mondadori, senza tradire le aspettative dei numerosi lettori affezionati a cui – da tempo – offre un repertorio di saggistica invidiabile, ci propone qui un titolo relativo al concetto di catastrofe in àmbito illuministico degno di particolare attenzione, perché è capace d’istituire un ponte che giunge direttamente ai nostri giorni.
I due anni, che pure intercorrono dalla prima presentazione di questo volume, non gli hanno sottratto freschezza ed attrattive: varrebbe davvero la pena di cercarlo o richiederlo in libreria, perché – a nostro giudizio, s’intende – sa stimolare con rara sapienza intelligenza ed immaginazione, conducendole verso una riflessione chiara, completa, autenticamente lucida.
Già il grande matematico francese René Thom s’era occupato ex professo dell’argomento, elaborando una teoria divenuta di moda sulle pagine culturali a metà degli anni ’70: le catastrofi erano concepite come bruschi salti, come discontinuità che si possono presentare nell’evoluzione di un sistema. Se l’evoluzione generale di un sistema ci appare, dunque, come una successione di evoluzioni continue, le catastrofi sono come dei bruschi salti di natura qualitativamente differente, sono discontinuità dei sistemi dinamici che corrispondono a piccoli cambiamenti delle condizioni esterne. Non ci addentreremo – non est hic locus – nei particolari di tale complessa teoria, che richiederebbe, fra l’altro, rigorose argomentazioni di carattere matematico. Non pare d’altronde inutile menzionare che se ne può rinvenire un riflesso nell’àmbito medicale, che ci descrive una malattia, assimilabile a una vera e propria catastrofe, e la definisce Multi Organ Failure: si tratta di una sorta di anossia improvvisa dei tessuti degli organi, contro cui nessun rimedio risulta di fatto efficace. È una malattia che mette in crisi il modello di evoluzione differenziale del sistema organico che potrebbe essere quello dell’uomo, e, se consideriamo il problema dal punto di vista metodologico, ci accorgiamo del perfetto accordo con quanto l’Illuminismo filosofico europeo sostiene circa i disastri naturali.
Come sottolinea l’esemplare saggio introduttivo di Tagliapietra, è legittimo parlare di catastrofe quando vi è irreversibilità, e la catastrofe – potremmo parafrasare in termini junghiani – è un vero e proprio simbolo della trasformazione, che pone l’uomo di fronte alla propria radicale caducità e, per converso, alla possibilità di un rinnovamento.
Perché gli uomini s’interrogano sulla catastrofe? Donde scaturisce la vocazione umana a porsi domande sul male? Bisogna risalire alle origini del pensiero occidentale, e precisamente al Timeo platonico, alla filosofia stoica, ad Agostino e a diversi altri auctores.
Col terremoto di Lisbona del primo novembre 1755 inizia, ad avviso di molte voci storiografiche autorevoli, l’età moderna. Dinanzi a tanta e tale tragedia, si scatena una vivacissima reazione intellettuale, un’aspra e (talora) sdegnata protesta contro l’ingiustizia divina al cui fondo – nel silenzio sfiduciato della sua solitudine, nel gelo propagatosi con la mattanza lusitana – l’uomo europeo sembra ritrovare, almeno in qualche misura, il proprio enigma. All’ottimismo teologico-filosofico dei leibniziani sostenitori che viviamo nel migliore dei mondi possibili – basti qui menzionare Alexander Pope, che, nel suo Saggio sull’uomo, sosteneva che: «tutto è bene e l’uomo gode della sola misura di felicità che il suo essere è suscettibile di provare» -, risponde con profondo, asperrimo disincanto Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona, ove dichiara, fra l’altro, che «non tutto è predisposto a favore della nostra felicità, il male è sulla terra; il principio segreto della natura ci è sconosciuto e tutti gli elementi di essa – animali, esseri umani, piante e minerali – sono in guerra… L’uomo è straniero a sé stesso, e la natura è il regno della distruzione; quello che nasce spira».
Ad esso si rivolge polemicamente Jean-Jacques Rousseau nella Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, ben più nota come Lettera sulla Provvidenza perché, in qualche modo, della Provvidenza Voltaire aveva parlato, delineandola come una sorta di consolazione all’umano patire. Dopo aver criticato l’atteggiamento di chi, come il gran decano dell’Illuminismo, contempla il disastro dalla riva opposta, ribadisce ore rotundo l’assoluta fiducia nella immortalità dell’anima, e in una sorta di fede assoluta nell’umana natura: «I nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e li avremmo evitati quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura».
Secondo Immanuel Kant, invece, la catastrofe rammenta all’uomo i suoi limiti e lo ammonisce a non intendere sé stesso come fine unico ed esclusivo dell’universo. «La paura toglie agli uomini la capacità di riflettere» – sostiene Kant in Sulle cause dei terremoti, ossia in occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d’Europa. «Essa crede – aggiunge – di riconoscere in circostanze sfortunate tutt’altro tipo di sventura rispetto a quelle nei cui confronti si è autorizzati a prendere delle precauzioni, e s’immaginano di mitigare le durezze della sorte con un atteggiamento di cieca sottomissione che li porta ad abbandonarsi con tutto il proprio peso alla grazia e alla disgrazia».
Per concludere, pare giusto dire che il libro abilmente orchestrato da Tagliapietra fornisce una ricchissima riflessione su questi problemi, ma in special modo sulle sempre ricorrenti catastrofi dell’umanità, dell’uomo, «sull’ambiguità della natura umana, la quale, mentre si arroga il diritto di giudicare e punire in nome della volontà suprema e della volontà di Dio, in realtà non vuole altro che vendicarsi del male, dell’imperfezione del mondo e, soprattutto, delle sue stesse deficienze, dei suoi stessi difetti, delle sue stesse mancanze».
Si ringrazia la dottoressa Francesca Tavoni dell’Ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna per i riferimenti all’ambito medico.
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