Bibliomanie

Il giardino della traduzione. Divagazione sul Giardino del profeta di Gibran
di , numero 4, gennaio/marzo 2006, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Mauro Conti, Il giardino della traduzione. Divagazione sul Giardino del profeta di Gibran, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 04, no. 7, gennaio/marzo 2006

Tutte le cose vivono e rilucono nella conoscenza
del giorno e nella maestà della notte.
(Kahlil Gibran)


Ogni traduzione è una interrogazione sull’enigma della parola e della letteratura e tradurre è quasi il dialogare con un assenza, l’arte di ascoltare una mancanza sulla base di uno spartito, di un disegno che il tempo ha confuso irrevocabilmente.
Tradurre è un capitolo del libro della nostalgia. Che dire, infatti, della voce che compose quest’opera, ormai è un secolo? Che dire della sua particolare inflessione, che soleva significare con peculiare ieraticità il dettato e lo sostanziava di un’ aura mistica per un’accolita beatificata di adepti? Che significato avevano allora parole come: mist, freedom, love, life, silencies, quali riferimenti immaginali mettevano in onda, mentre l’Europa collassava su di sé e gli Stati Uniti si apprestavano a diventare potenza mondiale espandendo il loro raggio d’azione politica e diplomatica sia in direzione del Pacifico che dell’Atlantico? Qualcosa è andato perduto.
Tradurre, come leggere, è dunque un esercizio filologico, la ricostruzione di una vox originaria dietro il mistero di una grafia, l’ascolto di una melodia proveniente dagli abissi del tempo, dondolante in silenziose profondità bluastre, scandagliate da una debolissima luce, quella della nostra lontananza di ricercatori stranieri, di viaggiatori resi estranei dal trascorso temporale.
Cominciamo, allora, con qualche coordinata. Il Giardino. Se lo consideriamo un appezzamento di terreno in cui si coltivano fiori e piante ornamentali, troviamo che i primi giardini conosciuti sono quelli cinesi e giapponesi. Essi erano organizzati quasi come concettualizzazioni del pensiero taoista, riflettevano una mappa dello spirito. Nel mondo antico mediorientale, gli architetti egiziani o persiani progettavano i loro giardini con l’ausilio di grandi opere di irrigazione e li disegnavano con l’intento di ricreare l’immagine dell’universo. Fin dalla antichità, dunque, il Giardino è riflesso, speculazione sull’immagine del cosmo.
Nella Grecia classica il giardino diviene il Kepos di Epicuro, un luogo particolarmente adatto allo studio ed alla riflessione, mentre a Roma, adorno di costruzioni come tempietti e porticati e statue, esso venne concepito come luogo chiuso dove fosse possibile l’isolamento, il riposo e l’esercizio del sacro. Nel Medioevo furono rinomati i giardini di Aquisgrana, voluti da Carlo Magno, in cui si celebrava il godimento sensibile delle specie vegetali dotate, come esseri, di virtù medicamentose, di poteri sovrani, non sottomessi ad alcun disegno o capriccio umano. Nel mondo islamico, sempre in periodo medievale, la rappresentazione del Giardino è legata all’esperienza Sufi. Celebre è il testo del XIV secolo dal titolo Il Giardino dei fiori odorosi del mistico A. Al-Yafi’i in cui il giardino diviene metafora della conoscenza e della comprensione del divino. Qui, inoltre, c’è un andamento aneddotico che ricorda un altro testo importante sul carattere simbolico del giardino: Le mille e una notte.
Nel Rinascimento europeo, invece, l’arte umana sembra volersi riprendere il sopravvento sulla natura ed il giardino presenta sequenze prospettiche, geometrizzazioni, e rappresentazioni ispirate all’arte classica. I più importanti architetti progettarono giardini, dall’Alberti al Bramante. Dal giardino all’italiana, si pensi ai giardini Vaticani o anche alle ville palladiane, derivò quello alla francese, ad esempio quello di grandi parchi reali come Versailles, in cui il formalismo della concezione rifletteva l’assetto ideologico dell’assolutismo. Il giardino inglese presenta un diverso rispetto della natura, la quale, piuttosto, nella visione di un Pope o di un Addison, sembra voler essere corretta, ordinata, curata come la materia di una pedagogia. In ciò, forse, si trova la radice della moderna concezione della natura nella costruzione dei parchi; essi vengono intesi come luoghi di ristoro, riposo, attività sportiva, come recupero del verde all’interno delle grandi metropoli d’asfalto.

In Gibran, anche se il Giardino viene rappresentato come il luogo della memoria, situato nel luogo della sua propria nascita, non troviamo che pochi riferimenti alla storia personale, al dispiegarsi della soggettività nelle intermittenze involontarie del ricordare, le cui prospettive, tra l’altro, sono coetanee di quella riflessione bergsoniana che, forse, nel suo soggiorno parigino, egli potrebbe avere incontrato. Qui il Giardino appare, al contrario, riflettere i motivi dell’oasi islamica, una sorta di luogo mistico, una sorta di valle estatica dove fare esperienza dell’divino, dove fare esperienza e meditazione sulla condizione umana, sul trascorrere del Tempo, sull’Esistenza in sé. Il Profeta Almustafa, l’eletto, l’amato, ritorna finalmente nel luogo dov’è nato.
Ad accogliere la sua nave, fin quasi sul molo, sono schiere di uomini e donne in attesa della sua parola, dei suoi ammonimenti. A guidare il suo cammino c’è una volontà celebrativa, il desiderio di cantare la vita, le sue infinite creazioni, ma anche un’oscura malinconia, una nostalgia, qualcosa di simile al Potos di Odisseo virato, però, nella cupio dissolvi, cioè nel desiderio di svanire in quell’indistinto, in quella nebbia da cui sembrava enigmaticamente risorto in una specie di circolarità mistica. Accanto a lui sono i suoi marinai, alcuni discepoli, i quali si succedono in codesto percorso di interrogazione e conoscenza, e Karima, la compagna di giochi della sua infanzia, che con molta devozione ed umiltà lo seguirà e lo accudirà intermittendosi quando, nel suo percorso di discesa agli inferi, più aspre si riveleranno le ferite.
Già: le ferite, l’amarezza della disillusione, l’andare nella vita senza una identità, una meta, la solitudine, il dolore, la morte, il tempo che passa: il Giardino è il luogo che custodisce le spoglie dei suoi genitori e qui viene a rappresentare simbolicamente il trascorrere del tempo, la vita che fluisce nel tempo. Almustafa poi, davanti ai suoi, si scaglia contro la povertà spirituale degli uomini di Orphalese, allegoria, forse, della città di New York, un luogo dove il governatore è una volpe ed il filosofo un prestigiatore, dove l’arte è arte del rattoppo e della parodia.
Ma la vita trionfa su tutto, sulla pena, la sofferenza del chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e, quando ritornerà la Primavera, si scioglierà la neve del vostro cuore. Sarkis, uno dei discepoli, a un certo punto, chiede al Maestro di esprimersi sul Brutto. Almustafa da questa risposta: Non è forse ciò quello che non vi siete mai sforzati di raggiungere, nel cui cuore non avete mai desiderato di entrare? Non è questo il brutto? Se il brutto esiste, infatti, non è altro che una scoria sui nostri occhi, e una cera che ottura le nostre orecchie. Non dire brutto nulla, amico mio, se non la paura di un anima di fronte ai suoi ricordi. Beh, siamo nella modernità, la psicoanalisi si aggirerà da queste parti. Di altri temi affascinanti per la riflessione si compone questo testo. Li lasciamo scoprire al lettore anche per non appesantire il piacere del pensiero che li vorrà affrontare.
Il testo de Il Giardino del Profeta, o anche de il Profeta, di cui è una sorta di interrotta continuazione, ha avuto una clamorosa fortuna editoriale lungo tutto il Novecento e ciò è forse dovuto alla sua capacità di indagare l’Essere dell’Uomo secondo la gestualità mista del pensiero islamico, del pensiero di Nietzsche, della sensibilità ed il gusto sincretico-internazionalista di un uomo vissuto sulla soglia di quella grande voragine dell’umanità rappresentata dalla carneficina compiuta nel primo conflitto mondiale.

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