Riflessioni storico-critiche sull’intricata ricezione europea di Francesco Zorzi
Maria Giulia Andretta, Riflessioni storico-critiche sull’intricata ricezione europea di Francesco Zorzi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 11, maggio/agosto 2015
La tardiva condanna all’Indice delle diverse dottrine presenti nelle opere di Zorzi contribuì alla loro rapida diffusione soprattutto negli ambienti veneti, tanto che Venezia diventerà il centro della loro diffusione europea.
Pochi anni dopo la morte del frate – avvenuta nel 1540, com’è noto – fra le attività di volgarizzazione editoriale dell’Accademia veneziana, o Accademia della Fama, fondata nel 1557, c’è già in programma, nel settore specifico dedicato alla musica nella “stanza” della matematica, il De Harmonia mundi e la Theologia Platonica di Ficino. L’istituzione ha però vita breve a causa dei debiti contratti nel tentativo di realizzare i suoi ambiziosi progetti, e nel 1561 il Senato della Serenissima decreta il suo scioglimento. Ciò peraltro non impedisce la diffusione dei suddetti capolavori, la cui fortuna nel milieu intellettuale e accademico continua ad essere – e lo sarà nei secoli… – notevole, dentro e fuori Venezia1.
Sarà proprio la particolarissima “apologetica” del nostro francescano che, ab origine destinata a rispondere ad esigenze esoteriche e spirituali, ispirerà la cultura del Cinquecento: si rivelerà in effetti, in parecchi dei testi più pregevoli della cabala cristiana, nell’irenismo ereticale di Francesco Pucci, nonché nel platonismo “radicale” di Curione e Camillo Renato2.
Saranno però il vagheggiato progetto utopistico di Giulio Camillo Delminio, l’escatologia immaginifica di Guillaume Postel, la filosofia iniziatica e oscura di Cornelio Agrippa e l’occultismo per più versi temerario di John Dee che vedranno, oltre il francescanesimo mistico di Zorzi, tutto il potenziale esoterico e simbolico delle sue opere, che verranno via via prese come fonte d’ispirazione e modello.
Poeta, retore e apprezzato conoscitore di lingue classiche e orientali, Giulio Camillo Delminio era uno degli umanisti più celebrati del suo tempo. Raffinato, esigente studioso di “filosofie segrete”, cabala e misteri platonici, era noto soprattutto per il laborioso tentativo di costruire un gran “teatro del mondo”, una machine à penser fondata sui princìpi della tradizione mnemotecnica, lullistica e combinatoria3.
L’ispirazione per il suo progetto pansofico e per le tecniche da lui proposte, che continueranno a interessare la Respublica literaria ancora in pieno Seicento, è peraltro da far risalire al nostro Zorzi – la più nota personalità filosofica e religiosa nella Venezia del tempo e, come risaputo, autore dei due testi capitali della cosiddetta cabala cristiana. Il profilo del francescano appare ancora sfuggente circa i rapporti che questi aveva avuto con gli uomini e le tendenze più rappresentativi della vita religiosa veneta del tempo, a cavallo fra la guerra della Lega di Cambrai e la vigilia del Concilio di Trento.
Ritornano molte tematiche espunte dagli Indici postridentini, in particolare sull’interpretazione simbolica dei sacramenti e, parallelamente, vengono diffusi princìpi occulti con richiamo a tradizioni neoplatoniche e cabalistiche d’impianto gnostico non lontane dall’eresia. Viene altresì sviluppato lungamente il tema ficiniano della melancolia, l’inquietudine fonda dettata dal fatto che l’uomo – o, meglio, l’intellettuale (come oggi si direbbe) –, pur cogliendo la propria origine divina, è consapevole di potervi accedere solo per vie misteriose, esoteriche, esclusive: di fatto, pur continuando ad essere supremamente attratto dall’Artefice, si trova relegato in una natura inferiore4.
La Genesi – la cui interpretazione in chiave cabalistica è costata al nostro frate, come è noto, alcune delle più massicce espurgazioni – viene interpretata a partire dalla struttura proposta dallo Zohar e, dunque, secondo lo schema di mondo sopraceleste, mondo celeste e mondo elementare, in consonanza e corrispondenza reciproche.
D’altronde, il Dio dei Sermoni del Delminio è il Dio del De Harmonia, la cui essenza non è da ricercarsi in tutte le cose, bensì in una forma astratta da quella sensibile e nella sua potenza più pura. Le influenze, anche in tal caso, muovono dalle dottrine cabalistiche ed ermetiche, perché Mosè stesso parlò d’immagine e non di similitudine dell’uomo con Dio, in quanto la vera somiglianza sta nella partecipazione alle opere da lui compiute e nella sua essenza poietica5.
Le conseguenze teologiche di simili affermazioni non preoccupano il pur bizzarro “seguace” di Francesco Giorgio, secondo cui l’esperienza religiosa si manifesta allegoricamente attraverso diverse forme: ciò lo porta, inter alia, a reinterpretare le dottrine riformate con sorprendente libertà, anche piegandole alla vocazione platonica, nutrita di costanti richiami ai segreti princìpi della prisca theologia6, nonché alle sue numerose letture mistiche, esoteriche e cabalistiche.
A Venezia si segnala ben presto l’Accademia degli Uranici, fondata nel 1587 dall’eclettico Fabio Paolini. Professore di retorica, poetica ed eloquenza nella scuola di San Marco, ma studioso, nel contempo, di testi di medicina greca e araba, è proprio lui a raccogliere l’imago mundi di Zorzi. L’istituzione – che prende il nome, va da sé, dalla Musa dell’astronomia e della geometria, Urania, e il cui motto (palesemente virgiliano) è mens agitat molem7 – si rifà alla tradizione ermetica e neoplatonica ficiniana, ma si allinea altresì a Paracelso e a Cornelio Agrippa.
Paolini, non diversamente dal nostro frate, ritiene che sussista una connessione fra anima e spirito del mondo, e che la musica sia in grado di captare gli influssi planetari e celesti, favorendone l’unione; egli discorre inoltre dell’ausilio divino che occorre per praticarla, ritiene ch’essa abbia poteri taumaturgici e, in sintonia fonda con certa magia astrologica medievale, che possa influire sugli angeli e sugli spiriti (o demòni cosmici).
Tali considerazioni sono, in quegli anni, un vero e proprio “pensiero trasversale” nella cultura italiana e transalpina. Nell’Hebdomades Paolini riprende una simbologia numerica che fa derivare dal settenario ordine e armonia, e la imposta emulando l’impostazione del De Harmonia mundi. Sette sono i libri che compongono il cospicuo volume, sette i capitoli di ognuno di questi, sette è il numero citato dal verso virgiliano che ricorda il mito orfico («Obloquitur [Orphaeus] numeris septem discrimina vocum», Aen., VI, 646), tra i più suggestivi della cultura umanistica per il portato simbolico, allegorico e sapienziale8.
Giova poi ricordare che Fabio Paolini è amico del trattatista e teorico Gioseffo Zarlino: ‘padre nobile’, inter alia, del concetto moderno di tonalità, anch’egli era francescano, attivo nel convento di San Francesco della Vigna. Questi – che sarà maestro dei maggiori musicisti italiani della fine del Cinquecento, tra cui Girolamo Mei, Vincenzo Galilei e Giovanni de’ Bardi – opporrà peraltro all’orfismo musicale dell’udinese una concezione ben più marcatamente neoplatonica. Invero, nelle fortunatissime Istitutioni Harmoniche Zarlino affermerà che la teologia è medicina dell’anima e che solo i proportionati rimedi recati dalla musica restituiscono armonia ed equilibrio.
Ma sarà la Francia, ancor più che Venezia, a contribuire alla diffusione del De Harmonia mundi, con le due ristampe parigine del 1545 e del 1546, nonché specialmente con la fondamentale traduzione francese compiuta dal più brillante discepolo del mistico e visionario Guillaume Postel, Guy Le Fèvre de la Boderie.
Mentre in Italia stava iniziando l’oramai famigerata operazione di censura agli approdi speculativi di Zorzi, la Renaissance francese accoglie con autentico, lucidissimo entusiasmo l’opera del pensatore veneto: non casualmente avrà un peso decisivo nelle vivaci diàtribe sviluppate entro la prestigiosa Académie de musique et de poesie, in quegli anni sede principale del dibattito su neoplatonismo, ermetismo e cabala.
Fondata da Jean-Antoine de Baïf – homme de lettres di prim’ordine nell’ambito dell’insigne Pléiade, figlio di una veneziana e rimasto sempre in contatto col mondo intellettuale veneto – vantava fra i suoi teorici anche l’allora stimatissimo Pontus de Tyard, assai legato all’intera tradizione neoplatonico-cristiana (mai dimenticando, inter alios, il “suo” Leone Ebreo), secondo la quale il potere ineffabile della musica può coniugare indagine filosofica e vocazione religiosa, nel rispetto insieme pieno e rigoroso delle analogie cosmiche9. Del resto, legare il tema dell’armonia del mondo con quello della concordia universale era già stato il principio ispiratore dell’immaginazione profetica di Postel.
Ancora, il mondo inferiore di Zorzi trova analogie indubitabili con l’Eschelle de nature10 del “vecchio” medico, filosofo e teologo catalano Raymond Sebond (1383 ca. – 1436) – carissimo fra gli altri, come si sa, a Montaigne, che ne tradusse da par suo il capo d’opera e, quindi lo difese, ma assai singolarmente… In buona sostanza, la sua Theologia Naturalis (l’editio princeps risale al 1484) è divisa in estre, vivre, sentir et entendre: quello celeste è quello delle dix courtines, le dieci sephiroth e le dieci sfere spirituali, mentre quello intelligibile è il supreme tabernacle, séjour des esprits bien-heureux11. Sebond, già nel 1436, aveva postulato senza allontanarsi dal tomismo una reciprocità stretta fra il libro della natura, il cosmo, e il libro rivelato, la Bibbia, che si confermano e si comprovano a vicenda. L’uomo, come per Zorzi, può quindi conoscere se stesso attraverso una doppia comparazione, con ciò che è al di sotto e con ciò che è al di sopra di lui. L’ambiente francese risulta, in una parola, fortemente sensibile alle tematiche zorziane e ciò ne agevola, beninteso, l’interesse e lo studio.
Poeta, traduttore, storico, orientalista, personalità, in una parola, di spirito affatto enciclopedico, nonché già collaboratore, in quanto ebraista, alla nuova traduzione poliglotta della Bibbia, La Boderie è forse, di là dalla distanza cronologica, l’intellettuale più affine a Francesco Giorgio Veneto: questo spiegherebbe, fra il resto, il suo interesse alla diffusione del De Harmonia.
La prefazione francese sintetizza e sottolinea la rilevanza di una struttura cosmica nella teoria e nella pratica poetica: alla base dell’opera italiana vi sarebbe, a suo avviso, il concetto che «toutes choses sont en toutes choses»12. L’unità dell’Artefice, come per il nostro frate, si conferma nella contemplazione de «l’Ouvrier en l’Ouvrage»13; e ancora, nell’analisi delle corrispondenze, perché mai studiare, a esempio, le influenze astrologiche insegnerebbe agli uomini a conoscere non solo se stessi, ma anche la divina provvidenza?
Nella Galliade, ou de la Revolution des arts et des sciences (1582), La Boderie discorre dell’intelligibilità del mondo attraverso la messa in primo piano della ragione, onde ridefinire la genealogia mitica del popolo francese in sintonia fonda con le Sacre Scritture14. La relazione fra esegesi biblica e investigazioni astronomiche ritorna nella necessità di armonizzare il microcosmo secondo amore e ordine. Anche nella teologia profetica e storicamente ciclica, si riconosce un desiderio simile a quello di Zorzi, e dunque volto a conciliare Antico e Nuovo Testamento, storia ebraica e storia cristiana in una mirabile corrispondenza fra segni astrali ed eventi terreni15.
Sorprendenti le affinità sulla musica, che per entrambi non è di certo mero diletto o effimero intrattenimento, bensì armonia tout court, ovvero armonia intesa come archetipo che coniuga il suo essere teoria e pratica e che, per le origini divine e magiche, sa influire potentemente sugli uomini, sui loro comportamenti e sulla società tutta. Non casualmente La Boderie indica con energia che è da riconoscere negli antichi bardi celti i primi creatori della poesia e della musica sacrale, in quanto erano capaci di attrarre in terra la musica celeste e di elaborare una musica planetaria concordante con l’armonia delle sfere16.
Sia nella struttura musicale del lavoro di Zorzi, sia negli scritti del suo eccellente esegeta ed ermeneuta francese – che avrebbero desiderato non certo per avventura, fra il resto, d’essere ispirati da novelli citaredi e salmisti quali Orfeo o Davide – si ritrova l’ammirazione e l’esaltazione del ruolo supremo dei poeti e dei musici, animi eletti fra gli uomini e superbi mediatori per un’autentica realizzazione della divina armonia.
Ma, fra i più illustri contemporanei di Francesco Giorgio Veneto, spicca altresì il nome sulfureo di Cornelio Agrippa. Di fatto, il faustiano umanista tedesco seguirà un percorso analogo a quello del frate, che più volte ritorna nei suoi eterogenei e, talora, disarmanti libri come punto di confronto e ispirazione. Del cabalista veneziano Agrippa stima, in primis, l’immane erudizione e con lui condivide la crisi culturale e religiosa del tempo, fatta perlopiù di aspettative irrisolte, tensioni sode e aspre inquietudini, nonché l’aspirazione a conciliare saperi apparentemente lontani e, per certi aspetti, contraddittori. Non è escluso che il medico, mago e alchimista tedesco abbia avuto anche una corrispondenza diretta con Zorzi attraverso un amico che aveva conosciuto il frate; sicuro è invece un suo viaggio in Italia nel 1511, che si rivelerà, per contatti e letture, determinante, come provano non pochi suoi lavori successivi.
La magia ermetica di Marsilio Ficino e quella cabalistica introdotta da Giovanni Pico sono le fonti dirette del De occulta philosophia, ove il mago di Nettesheim vorrebbe insegnare, inter alia, come manipolare le sostanze attraverso “simpatie occulte”, in modo da effettuare operazioni di magia naturale, come impiegare gli influssi delle stelle mediante la magia celeste e come mettersi in contatto con gli spiriti angelici tramite la magia cerimoniale17.
Come noto, Zorzi non era un alchimista e affrontava gli influssi dei pianeti sui metalli e sulle pietre da un punto di vista essenzialmente simbolico. Agrippa nondimeno lo riprende plenis manibus anche nel temerario, fortunatissimo volume testé citato, a proposito delle influenze sul carattere di Saturno. Oggi è risaputo che l’esser malinconici (o melancolici che dir si voglia) costituiva nel Rinascimento un segno inequivocabile di genialità, poiché l’influsso del pianeta favoriva, anzitutto, gli studi di calcolo e di misurazione: queste erano le prerogative dell’ordine e dell’armonia, tanto che la malinconia veniva anche concepita come conditio sine qua non onde elevare l’uomo alla contemplazione autentica del Divino18.
Quanto poi al De incertitudine et vanitate scientiarum, rivela molti più punti di contatto, a onor del vero, con parecchie affermazioni zorziane: gli ampliamenti che Agrippa introduce verranno direttamente ispirati dal De Harmonia mundi, che gli consentirà, fra le altre cose, di tratteggiare le complesse e complicate relazioni fra magia e fedi rivelate, nonché di affrontare il problema – tuttora sub judice – della vera conoscenza (episteme), della sua origine divina e della conciliazione tra fede e ragione19.
Ne vengono accolti quasi tutti i temi fondamentali: l’autorevolezza luminosa degli antichi, la serrata critica antiaristotelica, le affinità determinanti alla filosofia pitagorica, platonica ed ermetica e la viva speranza di approdare a un dialogo costruttivo fra le “religioni del Libro”. La critica del pensiero peripatetico è dura e radicale nella condanna, perché i cristiani di Agrippa e di Zorzi non pendono più dalle labbra dell’unico, inconfondibile “Maestro di color che sanno”20. Ed anche l’ecclesiologia recupera diverse filosofie opposte all’aristotelismo, negativo e nocivo per la religione, laddove la prisca Theologia di Marsilio Ficino viene risparmiata – guarda caso. Nonostante i numerosi parallelismi, lo stile è diverso: sobrio e pacato quello del frate, polemico e aggressivo quello del mago; alquanto diverse, inoltre, le intenzioni reali che stanno a monte delle due opere.
Ancora, mentre Zorzi mai patirà un’espressa, diretta polemica contro i suoi libri, diverso sarà il caso di Agrippa, che invece scatenerà critiche e opposizioni vivaci e, alle volte, feroci. A ogni modo, entrambi si guadagneranno gli “onori” non certo invidiabili della censura, con addirittura la richiesta di messa al rogo del De incertitudine da parte dei teologi della Sorbona (1531) per le aspre affermazioni contro i mores ecclesiastici, la venerazione delle immagini, la natura delle cerimonie religiose e le numerose provocazioni giudicate eretiche.
Il De Harmonia mundi ebbe influenza cospicua pure nella produzione letteraria dell’Inghilterra del Cinque e del Seicento. Ma è interessante, anzitutto, rammemorare i tempi, i luoghi e i modi in cui la Golden Age entrò in contatto con l’opera zorziana.
Cionondimeno, onde procedere adeguatamente in tale direzione, conviene forse tornare un poco indietro. Guy Le Févre de La Boderie – l’illuminato traduttore dell’Harmonie du monde tanto apprezzato e (tuttora) apprezzabile ricordato sopra – era segretario di François d’Alençon, unico fratello del re di Francia e guida del partito dei Politique, che cercava con ogni mezzo di moderare le divisioni religiose, anche nell’intento di promuovere una pace duratura mediante una politica di effettiva tolleranza religiosa. D’Alençon, in quanto erede al trono francese, era destinato a diventare pretendente alla mano della regina Elisabetta I e, proprio negli anni in cui La Boderie lavorava all’edizione francese dell’opus magnum di Zorzi, si apprestava a compiere un viaggio in Inghilterra mirante, de facto, a portare a buon fine la sua proposta di matrimonio. La traduzione di un testo cabalistico della portata del De Harmonia mundi, realizzata ad opera di membri del suo milieu, va anche interpretata come un atto di tolleranza, in grado di preparare comme il faut la strada alla visita di un principe cattolico a una regina protestante: alla luce di ricerche affidabili e comunque tuttora in fieri, non può escludersi l’ipotesi che l’influsso degli scritti del nostro francescano presso le corte di Elisabetta sia passata – se non addirittura partita – proprio dalla forma riconosciuta di cabala cristiana promossa da D’Alençon21.
Ma la ragione principale dell’inedita, straordinaria diffusione del capo d’opera del nostro frate nell’Inghilterra elisabettiana ha da essere ricercata, con ogni probabilità, nel ruolo non secondario che Zorzi ebbe nella famigerata causa di divorzio di Enrico VIII, nonché – soprattutto – nella conseguente separazione della Chiesa d’Inghilterra da quella di Roma. Si rammenti che, a quattro anni dalla pubblicazione del De Harmonia mundi, l’autore già collaborava come esperto di cultura ebraica con Richard Croke, in missione segreta a Venezia per conto di Thomas Cranmer.
Non è però appurato perché i consiglieri del Re ritennero necessario consultare gli ebrei veneziani e il teologo cabalista, specialmente se si considera che, a quel tempo, gli ebrei non erano ammessi in Inghilterra; è singolare che proprio Cornelio Agrippa, personaggio de facto vicino al Nostro per studi, interessi e magnanime speranze, sia stato interpellato e consultato dall’Imperatore per la difesa di Caterina.
I motivi che spinsero Zorzi a mostrare un simile interesse per la causa del Re rimangono incerti: forse il suo zelo per l’unità religiosa contro uno scisma, o forse un mai sopito spirito d’indipendenza veneziana, nel tentativo di un riavvicinamento all’Inghilterra come risposta alla dominazione asburgica22. La dottissima Elisabetta I, ben consapevole del fatto che il neoplatonico cristiano di Venezia aveva patrocinato il divorzio di suo padre da Caterina d’Aragona, favorendone così l’unione con Anna Bolena, sua madre, si mostrò ottimamente disposta verso il suo pensiero: contribuì ella stessa, fra l’altro, alla diffusione dei suoi scritti presso la propria Corte.
Il De Harmonia mundi di Zorzi nell’edizione latina del 1545 abitava sicuramente nella biblioteca di John Dee: ciò sarà determinante per almeno due generazioni d’intellettuali inglesi. Fra i volumi ivi presenti, conviene qui indicare le molte copie del De occulta philosophia di Agrippa, che si narra fosse costantemente aperto sul suo tavolo, gli opera omnia di Raimondo Lullo e di Giovanni Pico, senza dire di tanti altri testi scientifici, letterari e storici d’ogni lingua e ogni paese che rappresentavano, comunque, il patrimonio più stimato nelle conoscenze del suo tempo23. Sarà proprio il controverso pensatore inglese che, più di tutti i pur moderati e controllatissimi Freethinker dell’epoca, guiderà de facto il “rinascimento elisabettiano”, non foss’altro perché la sua biblioteca era a disposizione di amici e studiosi, navigatori e matematici, antiquari e storici, aristocratici, cortigiani e poeti.
Dee individuava nella cabala cristiana quella Weltanschauung definita e definitiva che avrebbe dovuto scalzare una volta per tutte la Scolastica, divenendo in tal maniera il nuovo punto di partenza di un movimento universale di riforma, che non avrebbe coinvolto solo l’Inghilterra elisabettiana, ma si sarebbe aperto alla totalità dei paesi civili.
Il suo neoplatonismo, ictu oculi appartenente al filone ermetico-cabalistico, risente delle letture del nostro frate, anche se questi non viene mai citato. A ogni modo, dal veneziano Dee riprende, fra il resto, il valore e l’allegoria del numero, il simbolismo architettonico e gli studi su Vitruvio, quantunque si rifaccia soprattutto ad Albrecht Dürer per la propria teoria delle proporzioni. In realtà, è più il Rinascimento tedesco che non quello italiano a influenzare l’intellettuale inglese, tanto che, a esempio, è Agrippa a venir citato nella sua prefazione alla traduzione inglese degli Elementi di Euclide ad opera di Henry Billingsley.
È tuttavia nel trattato Monas Hieroglyphica, dato alle stampe nel 1564, che Dee risente maggiormente dell’influenza di Zorzi24. La monas, che contiene significati astrali, alchemici, matematici, geometrici e cabalistici, è una combinazione dei segni dei sette pianeti, o dei quattro elementi incrociati e investiti di poteri magici più il Sole e la Luna, aggiunti al segno zodiacale dell’Ariete, che rappresenta il fuoco e l’energia alchemica della trasformazione.
Tuttavia la croce che lega il Sole all’energia fa leggere questo simbolo anche in chiave cristologica, in quanto allegoria della nascita, della crocifissione e della resurrezione del Messia. Nel De Harmonia della monade si tratta fin dalla prima cantica25, perché in questa l’autore identifica la deitas supersubstantialis – quell’Uno a partire dal quale procedono tutti i numeri fino a ventisette per formare l’armonia universale e, quindi, tutte le cose.
Il mago inglese adotta più o meno lo stesso procedimento; il suo simbolo planetario va letto, inoltre, come sintesi dell’alfabeto ebraico. Per i loro interessi esoterici, la loro fascinazione verso il numero e le loro visioni di profondità rara, gli scritti di Dee e di Zorzi confermano indubitabili, decisive convergenze fra le loro personalità: saturnine, melanconiche e contemplative. In verità, il buon frate veneziano sarà sempre, assieme ad Agrippa, fonte e secondo termine di paragone dell’intera produzione di John Dee.
È certo che la speculazione di Francesco Zorzi fu accolta, in un primo tempo, dai riformatori tudoriani per il suo fermo sostegno alla causa di Enrico VIII, ma va altresì rimarcato che la sua opera attrasse singolarmente i migliori letterati inglesi dell’epoca.
Si ponga mente, anzitutto, al suo influsso sui componimenti di Edmund Spenser, il cantore epico par excellence dell’età elisabettiana, nonché uno tra i frequentatori più brillanti della cerchia di John Dee. Nell’apologia sulla riforma imperiale e sul ruolo della regina Elisabetta I, Spenser riprende patentemente l’idea di armonia universale ereditata dal nostro veneziano, e nell’Hymne of Heavenly Beauty compie un itinerarium mentis, familiare a ogni lettore di Zorzi, attraverso tre mondi: quello elementare, quello celeste e quello intellettuale, ove le idee platoniche si fondono con le gerarchie angeliche26. La devozione cristiana e l’evangelismo elegiaco rivelano generose l’influsso del frate e, segnatamente, di quel francescanesimo ai limiti del lirismo religioso.
In The Faerie Queene l’allegoria del corpo umano, del corpo mistico e la descrizione della Casa di Alma, in cui la stanza perfetta richiama la numerologia sacra del Tempio di Salomone e di San Francesco della Vigna, riprendono Zorzi e la struttura numerica dei tre mondi: il cubo nei quattro elementi, il sette nel mondo dei pianeti e il nove nel mondo delle gerarchie angeliche. Spenser riprende alla lettera gli schemi planetari, sefirotici ed angelici del De Harmonia, che riversano i loro influssi positivi secondo la corrispondenza degli angeli con le virtù in quanto discendono direttamente dal Creatore.
Nel primo libro, il Cavaliere della Croce Rossa (Redcrosse) rappresenta la Santità, il Sole – per il frate la religione cristiana e la virtù teologica della carità; il secondo libro è incentrato su Sir Guyon, icona di Marte e della virtù della temperanza; il terzo è il libro femminile e lunare, in cui viene esaltata la virtù della castità attraverso la donna-cavaliere Britomart; il quarto libro è quello consacrato all’amicizia, alla lotta fra i contrari di Cambel e Triamond e alla loro riconciliazione – è comunque dominato dal caduceo e dedicato a Mercurio; nel quinto Saturno e la giustizia sono protagonisti e, nel sesto, Sir Calidore e la cortesia sono ispirati da Venere; quanto al settimo, rimasto incompiuto, presumibilmente avrebbe riguardato Giove. Il progetto prevedeva 12 volumi, riferiti ai 12 segni dello zodiaco che splendono nella sfera delle stelle fisse27.
Edmund Spenser, analogamente al Nostro, legge e interpreta l’aristotelismo in chiave affatto neoplatonica, ossia come un’ascesa (e un’ascesi) ermetica che, dalla sfera della Terra attraverso le sfere degli altri elementi, s’innalza ai regni celesti e divini: come Aristotele, inizia dal primo gradino della scala; come Platone, lo fa attraverso il numero. È soprattutto l’etica peripatetica a definire la giustizia in termini di proporzione, a permettere l’inserimento, da parte del poeta inglese, delle dodici virtù aristoteliche e tomistiche nel proprio sistema astrale di armonia universale, e che è quasi una prova del fatto che la fonte della struttura del mondo di Spenser sia stata l’architettura complessiva del De Harmonia mundi28.
Alla fine del Cinquecento si era creato, nell’Inghilterra elisabettiana, un certo interesse per la cabala cristiana e, più in generale, per quella cultura ebraica che, in modo indiretto, registrava una sua presenza imponente nel pensiero del tempo.
Sono gli anni di diffusione delle opere di Spenser, e non è un caso che Marlowe e Shakespeare scrivano due drammi che hanno per protagonisti personaggi ebrei, L’ebreo di Malta e Il Mercante di Venezia. Testi teatrali molto diversi, beninteso: si pongono tuttavia nei confronti dell’ebraismo e, più in generale, degli ebrei in maniera tutt’affatto diversa, suscitando nei lettori reazioni diametralmente opposte. Nel primo, per esempio, sono evidenti alcune posizioni antisemite tout court; nel secondo, risuona invece la virtuosa “filosofia musicale” del nostro frate cabalista.
Marlowe, nel Doctor Faustus, che rappresenta probabilmente John Dee e che viene composto per manifestare la sua ostilità verso gli studi cabalistici di Cornelio Agrippa e di alcuni religiosi, si scaglia contro la “filosofia occulta”, rendendola diabolica e cacodemonica e facendo apparire Mefistofele negli abiti di un frate francescano, parodiando in tal maniera, probabilmente, il nostro Zorzi29: «Go and returne an old Franciscan Frier,/ The holy shape becomes a devill best»30.
Shakespeare, viceversa, risente direttamente dell’influenza del De Harmonia mundi che – con ogni probabilità – gli era noto nella traduzione francese, o per la diffusione che questa aveva nel milieu di Dee. I personaggi del dramma coinciderebbero infatti con le sefiroth della cabala; inoltre il tema della conversione, centrale nella commedia, sembra derivare dalla filosofia giudaizzante del Nostro31.
Emblematica la descrizione dell’armonia universale, capace di conciliare, inter alios, cristiani ed ebrei, che Lorenzo, cristiano, fa a Jessica, ebrea che dev’essere convertita; interessanti poi, ai nostri fini, sono i versi sulla potenza della musica. Il contesto nel quale Shakespeare sviluppa drammaturgicamente e simbolicamente la vicenda è, quasi di certo, la Venezia di Zorzi; ancora, il Bardo nella descrizione dei tre scrigni di Porzia – allegoria palese delle tre grandi religioni – inserisce il piombo che, sempre secondo Zorzi, rappresenta la religione ebraica, il metallo di Saturno associato alla contemplazione e alla conoscenza.
Quando Bassanio, davanti ad oro, argento e piombo, sceglie quest’ultimo, conquistando così Porzia, rinuncia ai beni materiali a favore di quelli spirituali e, nel finale del dramma, si effonde un’armonia universale che espande tutta la sua forza e potenza, come gli effetti della musica e del suo linguaggio diffondono influssi benefici, armonizzando qualsivoglia discordia: «Choose my discipline, and not silver;/ Choose understanding, and not fine gold;/ For wisdom is better than rubies»32.
Note
- C. Vasoli, Il tema musicale e architettonico della «Harmonia mundi» da Francesco Giorgio Veneto all’Accademia degli Uranici e a Gioseffo Zarlino, in “Musica e Storia”, VI, 1998, p. 203.
- C. Vasoli, Profezia e ragione. Studi sulla cultura del Cinquecento e del Seicento, Napoli, Morano, 1974, p. 232.
- C. Vasoli, I miti e gli astri, Napoli, Guida, 1977, p.155.
- Ivi, pp. 194-197.
- Ivi, p. 214.
- Ivi, p. 216.
- C. Vasoli, Il tema musicale e architettonico della «Harmonia mundi», cit., p. 204.
- Ivi, pp. 205-206.
- Ivi, p. 209.
- M. A. Cromie, A study of the work of Guy Le Fèvre de La Boderie (1541-1598), Vancouver, University of British Columbia, 1958, p. 174.
- Ibidem
- W. Y. Tindall, The Literary Symbol, Bloomington, Indiana University Press, 1967, pp. 51-53.
- Cfr. l’Introduction a L’Harmonie du monde divisée en trois cantiques. Oeuvre singulière et pleine d’amirable érudition. Premièrement composée en latin par Francois Georges venitien et depuis traduite et illustrée par Guy Le Fèvre de la Bodelerie, secrétarie de Monsegneur Frère unique de Roy, et son interprète aux langues etrangères, a Paris chez Jean Macé, au mont S. Hilaire et l’Escu de Bretaigne, 1579.
- M.-Cl. Malenfant, Bulletin de l’Association d’étude sur l’Humanisme, la Réforme et la Renaissance, XLI, 1995, pp. 163-166.
- M. A. Cromie, A study of the work of Guy Le Fèvre de La Boderie (1541-1598), cit., p. 176.
- C. Vasoli, Il tema musicale e architettonico della «Harmonia mundi», cit., p. 209.
- F. A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana [1979], tr. it. a cura di S. Mobiglia, Torino, Einaudi, 2002, p. 59.
- Ivi, pp. 65-66.
- V. Perrone Compagni, Riforma della magia e riforma della cultura in Agrippa, in “I Castelli di Yale”, II, 1997, pp. 122-123.
- Cfr. F. Zorzi, De Harmonia mundi, II, 1, 8.
- F. A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, cit., pp. 85-86.
- Ivi, pp. 41-42.
- Ivi, pp. 100-101.
- Ivi, p. 106.
- Cfr. F. Zorzi, De Harmonia mundi, I, 3, 1.
- F. A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, cit., pp. 121-122.
- Ivi, pp. 126-128.
- Ivi, p. 130.
- Ivi, p. 150.
- C. Marlowe, The Tragicall History of Doctor Faustus, I, 3, 253-254: «Va e trasformati in un vecchio frate francescano,/ quel santo aspetto si addice meglio a un diavolo».
- F. A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, cit., pp. 166-167.
- W. Shakespeare, The Merchant of Venice, V, I, 1-22: «Scegli la mia disciplina e non l’argento;/ preferisci l’intelligenza e non l’oro fino;/ poiché la sapienza vale più dei rubini».
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