Maria, verso Cartoceto. Dentro un orizzonte di colline
Franca Mancinelli, Maria, verso Cartoceto. Dentro un orizzonte di colline, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 18, maggio/agosto 2015
Maria, verso Cartoceto
È scritto all’anagrafe e in ogni documento che mi appartiene: Maria, il nome che ho cancellato da questa Franca che rimane. Scomparso dalla mia firma. Un solo nome: due sillabe che mi pronunciano, che mi sottraggono al silenzio. Sono già molte per esistere. E anche la voce degli altri mi ha riconosciuto, mi ha chiamata Franca, semplicemente: si è fermata, come non ci fosse bisogno di dire ancora.
Maria è il nome della madre di mia madre. Mi piace sentire l’eco di questa parola, la profondità che apre indietro, nelle generazioni, come un filo che ci si passa nel buio. In questa ripetizione mi sembra di riportarla in vita, di donarle ciò che le appartiene, che le è dovuto; ha a che fare con qualcosa che non ha fine, che sprofonda alle mie spalle, fino a ciò che non mi è visibile né conosciuto. Da me, oltre me, non so come e se continuerà.
Lei è la madre di mia madre, di mia madre, di mia madre. Come scorrendo i grani di un rosario potrei ripeterlo ancora fino a renderla un’espressione muta, un’onda sonora che viene e ritorna nel silenzio. Maria è il nome che ogni donna porta. E davvero nelle nostre campagne marchigiane non c’era madre che non desse a sua figlia questo nome, come invocazione, come ringraziamento. Se non era il primo nome era il secondo, per custodirla.
Ma chiamerò Maria, la madre di mia madre, anche nonna, con l’affetto intatto dell’infanzia, incorniciandola in quegli anni della sua vita in cui ci siamo conosciute. Mi addormentavo spesso accanto a lei, nella metà del letto che era del marito, andato quando avevo quattro anni. Prima di chiudere gli occhi, distese su spesse lenzuola di lino, le sue parole si disegnavano come cerchi nel silenzio; il suo petto era un libro di pagine non numerate che terminavano a un passo dal sonno. Riprendeva la mattina, quando la seguivo nei suoi lavori di casa, in cucina, in cantina, nel pollaio. Tra le sequenze di suoni che ripeteva a memoria c’erano le preghiere. Insieme a queste mi ha insegnato un gesto che assomigliava a quello di legarsi le scarpe: un incrocio che si formava, se eseguito esattamente. Con la punta delle dita si tocca il centro della fronte, il centro del petto, la spalla destra e poi la sinistra. Come un laccio che ti tiene unita, che ti riporta al centro del tuo cuore che è sempre il cuore di un altro. Ogni volta che inizia qualcosa, che ti metti in cammino, segni questa croce su di te come faresti se ti trovassi su una riva, sulla terra bagnata, di fronte a un vetro umido e a ogni altra cosa che può essere scritta. Dice: sono qui, in questo punto esatto. E anche: mi affido a questo tempo e a questo spazio, a questo momento e a questo luogo. Non farmi perdere, tienimi stretta nel tuo sguardo. Chi legga questo messaggio non so dirlo. So che è un segno che presto si cancella, che bisogna ripetere di nuovo. È un po’ come con le scarpe allacciate la mattina per andare. Se le trovi slacciate poi durante il giorno, non puoi andare avanti molto, ti fermi un istante e ricominci.
Gli ultimi anni della sua vita, prima di addormentarsi, mia nonna aveva l’abitudine di chiedere “la benedizione”: una piccola croce che un altro doveva segnarle sulla fronte. Una malattia molto dolorosa, alle ossa, la portava a chiamare a voce alta sua madre, ripetutamente. Accorrevamo a vedere che cosa volesse, di che cosa avesse bisogno; spesso chiedeva di spostare un po’ la tenda, di avvicinarle qualcosa, spesso era soltanto un pretesto per vederci accanto a lei. Da adolescente mi ero quasi abituata a quella litania, e quando mi sembrava solo un capriccio tornavo presto alle mie cose. Chiamava sua madre, noi eravamo soltanto figli, figli dei figli, non potevamo consolarla, sollevarla tra le braccia, stringerla al petto, lontano dal dolore. Una notte, accorsa di malumore al suo richiamo di bambina, con un’irritazione trattenuta che chiedeva che cosa c’è, mi sono sentita chiedere per la prima volta la benedizione. Non c’era nessun altro in casa. Mia madre era uscita dimenticandosene. Toccava a me. A me che già non credevo, che avevo perso quel gesto che mi aveva consegnato come una vecchia chiave di cui non si ricorda la porta. Potevo farlo io? Ne ero capace? Distesa a letto, non poteva abbandonarsi al sonno. Aspettava. Mi aspettava. Nel silenzio mi affidava un potere. Dal fondo della stanza mi sono avvicinata; con un dito le ho tracciato una piccola croce sulla fronte. Sembrava placata, rasserenata. Sono tornata in camera mia.
Ci sono due strade che da Lucrezia portano a Cartoceto. Si attraversa una zona di recenti case residenziali colorate a pastello e ci si ritrova a una biforcazione con due cartelli che indicano la stessa meta. Prendo sempre quella di sinistra, che sembra più breve. Prima di arrivare al paese si sale a Salomone, un nome che continua a ripetersi nella mente cercando qualcosa che richiami l’antico re della Bibbia fino a questa piccola frazione di case, mentre la strada svolta, inizia a costeggiare uliveti e un grande noceto. Si arriva presto a un incrocio a t: la strada da cui veniamo porta a Lucrezia, quella che prenderemo, sulla destra, a Cartoceto, quella a sinistra a Saltara e a Calcinelli. Qui è un monumento ai caduti della prima e seconda guerra: un tempietto chiaro con le pareti laterali interne piene di piccole foto ovali in bianco e nero e scritte che rinviano a una morte declinata in tre casi: per ferite, per malattia, in prigionia. Il luogo: dall’Albania all’Africa, dalla Russia a Creta. Nella parete centrale una lastra di pietra riproduce in rilievo l’immagine della Madonna delle Grazie. È per lei che oggi sono salita qui, a una quindicina di chilometri da Fano, seguendo in auto il cammino che mia nonna faceva a piedi fin da bambina. L’affresco miracoloso era proprio in questo incrocio, in un’edicola, prima di essere staccato e collocato nel Santuario accanto al paese. Riconosco le linee di quell’antico disegno, tante volte ritrovato a casa, sul comodino di mia nonna, dentro un libro, nella credenza. Un santino come un segnalibro, un fiore schiacciato tra le pagine: ricorda il punto fino a cui ti ha portato la vita, il punto da cui puoi continuare. I suoi colori di erba, di polvere e di terra li ritroverò presto nella piccola cappella costruita per lei, con le pareti adornate di cuori d’argento. Non resto a lungo. In questi monumenti ai caduti sento spesso qualcosa di estraneo: un fasto che a malapena riesce a coprire un inganno, un’impostura; i tratti mascherati, ufficiali, di una celebrazione che non riguarda davvero queste vite di uomini trascorse in un cerchio di case tra le colline prima di essere chiamati alle armi. Guardo gli occhi di tutti divenuti scuri nelle foto, seguo la data e il luogo di una stessa morte organizzata, diramata in divisioni e schiere. Qualcuno è stato disperso. Forse una forma di salvezza: non essere più trovati, riconosciuti accanto ai documenti. Finalmente liberi. Il tempo che passa, il vuoto che si apre e si disegna di innumerevoli strade che portano a casa o verso un’invisibile terra straniera, tra lingue sconosciute che arrivano all’orecchio, bisbigli che assomigliano a quelli dei morti. Ma sono tra i nomi dell’elenco. Non sono sfuggiti. Sono qui anche loro.
Faccio pochi passi fuori, verso l’incrocio; considero le tre direzioni possibili. Respiro per un attimo la vertigine di quel luogo che doveva essere sacro, difeso dai demoni che si nascondono nelle chiome degli alberi, nelle siepi ai margini delle strade, scuotendole come un vento; frantumano l’immagine che avevamo riconosciuto e custodito allo specchio, chiamandola con il nostro nome, trattenendola, difendendola dalle ombre che affiorano come da un velo d’acqua. Un soffio di voce all’orecchio ripete io, come la fiamma di una candela subito spenta dal vento. Bisogna proteggerla con il palmo di una mano e camminare fino all’immagine santa, alla madre dipinta.
Sono qui, al Santuario, nella cappella della Madonna delle Grazie. A quest’ora del pomeriggio in tutto il Santuario solo i miei passi e il silenzioso coro delle candele bianche. Le più grandi crepitano a tratti nel silenzio come franando, ricadendo su se stesse. Chi le ha piantate qui conosce la durata della loro vita. Può venire a guardarle come un orologio, un calendario. Quando la più vecchia viene schiacciata dal tempo, ridotta al suolo come una buccia, un tappo, subito la fiamma passa a un’altra. Sono tre infatti, ognuna in un periodo diverso della vita: la prima è quasi intatta, la seconda è a metà, la terza verso la fine. In una colonnina d’acciaio se lasci cadere una moneta ne ricavi un tintinnio metallico come di salvadanaio: puoi portare con te un santino o prendere una candela piccola da piantare nell’aiuola insieme alle altre. Accanto è una colonia di ceri rossi; cimiteriali, è vero, ma basta guardarli pochi secondi per scorgere la minuscola fiamma protetta, quasi una vita che si muove lentamente nel loro grembo.
Dici che si può pregare anche così, con una mano che segna il bianco del foglio. È lo stesso bianco che è apparso a un lembo della tua veste, che si è portato via la bocca di un angelo che ti vegliava; è il bianco da cui ti hanno ritagliata, che ti contorna ancora. Noi torneremo lì, in quel vuoto da cui sei apparsa, da cui appari con occhi grandi e labbra minute, in boccio. Hai un’aureola intagliata di motivi geometrici, un antico disco solare; un velo ti nasconde i capelli. Su un ginocchio è seduto un bambino già uomo, vestito di verde come gli angeli e i prati, ti guarda stringendo una croce. Anche noi a cercare i tuoi occhi, a leggere il silenzio sul tuo viso.
Tra i cuori alle pareti cerco per gioco le iniziali del mio nome. So che sono venuti qui anche per me. Si sono inginocchiati al banco di legno, hanno acceso una candela. Andavo verso la morte, con l’istinto di un animale che migra. Ma anche le piccole divinità del cielo e dell’acqua si ingannano: le ritrovi spiaggiate, prese nelle reti, confuse dalle ferite.
Tutto quanto accade, è dentro i tuoi occhi quieti. Mentre il nostro piccolo cuore implode e si frantuma, non pompa più amore alle estremità del corpo.
Nel silenzio soltanto il rumore di un aspira-fumo e quello delle auto di fuori che spostano l’aria, come raffiche di vento. Prima di andare torno per un’ultima volta a guardare la tua immagine di muschio, ocra e sabbia bagnata. È come se fossi venuta dalla terra, vincendo la terra, il suo sgretolarsi. Resteranno i tuoi occhi, un segno su un muro scrostato.
Dentro un orizzonte di colline
C’è un detto tra noi, così disciolto nella saliva di generazioni, che chi non vede il mare impazzisce. Chiusi dentro un orizzonte di colline, senza intravvedere neanche un piccolo tratto azzurro tra il cielo e la terra, si perde la ragione, l’equilibrio. Dev’essere nato non sulle labbra dei marinai che conoscono la follia e i capricci del mare, ma su quelle dei contadini della costa e dell’immediato entroterra. Quelli che dopo alcune ore potevano raggiungere a piedi la riva del mare, la domenica o nei giorni di festa, preferendo l’acqua salata a quella del fiume e dei fossi accanto ai campi. Dalle colline, lavorando, avevano uno sguardo alto sul mare, come i gabbiani richiamati all’interno dalle burrasche. Se non era l’intera striscia azzurra dell’Adriatico ad aprirsi come un nastro, era almeno una sua breve sequenza, tra un crinale e l’altro. Durante il giorno, con lo sguardo chino alle piante, alle bestie, sapevano che da quel colle, da quella curva della strada, da quell’albero sulla cresta riappariva più celeste del cielo, come un premio che non si poteva meritare ma soltanto accogliere, fino a sentirsi inumidire gli occhi. Di paese in paese, di casolare in casolare, si custodiva questa parte di orizzonte, questa porzione quotidiana di bellezza, senza dire né mostrare nulla: nessun punto panoramico, nessun hotel miramare o ristorante con vista, soltanto un bagliore di azzurro e di verde e il suo disciogliersi nei gesti di ogni giorno, in un’andatura che non conserva traccia di stanchezza, in un motivo cantato tra sé. Poi, a un certo punto, non è possibile dire esattamente a partire da quale campo o cerchio di case, il sipario si chiude. Inizia un’altra popolazione, un’altra stirpe di genti, quella dell’entroterra escluso dal mare, quella di chi si alza e si addormenta dentro un orizzonte di colline. Un mare di terra in cui si può sprofondare, scendendo in certe piccole valli coperte da una breve macchia. È il punto più incavato, dove scorre sottile e nascosto dai pioppi e dagli arbusti un fosso. Lì puoi sentire come la terra ti trattiene, ti richiama nel suo ventre ad ascoltare il suo respiro grande, mentre il tuo sottile prendere e restituire aria cresce, si rinsalda. Sono luoghi in cui puoi sparire alla vista di ogni essere umano e anche a te stesso. Sono pozzi aperti. Puoi discendere, come sott’acqua, quando lo sguardo si libera e vede finalmente le cose nello spazio: questo nitore in cui appaiono come sospese, immerse in una sostanza che toglie peso, dolore, suono. Puoi sostare in questa cuna del tempo fino a che qualcosa come l’umidità che si infiltra nelle ossa o il buio ti richiamano alla ragione, e ti rimettono in piedi, suoi tuoi passi, ad affrontare la salita. Ci sono questi avvallamenti, come fenditure schiuse nel terreno e poi aperture del paesaggio dove lo sguardo può andare in volo di crinale in crinale, da una terra arata a una macchia, da un casolare abbandonato a un borgo e tornare indietro e ripartire. Ma non c’è meta a dirigere il cammino. Nessuna destinazione che potrebbe placare per un po’ il desiderio, come in montagna, raggiungendo un rifugio, una vetta. Il mare delle colline continua a muoversi e a portare lo sguardo da una parte all’altra. In realtà il mare aperto di terra puoi vederlo solo da alcuni avvallamenti che chiudono l’orizzonte. Altrimenti c’è sempre una riva, un confine: il profilo scuro dell’Appennino che inizia a increspare le colline più lontane fino a renderle indistinguibili alle proprie pendici. È proprio qui che inizierebbe la follia, tanto più fonda e radicale quanto la distanza dal mare è netta.
La terra della mia infanzia è attraversata da una sterrata di ghiaia senza uscita. Lì, a breve distanza l’uno dall’altro, sorgono due casolari che appartenevano a mio nonno. È una campagna a pochi chilometri dalla costa, una pianura da cui si distinguono nettamente le due linee di colline che delimitano la valle del Metauro: a nord quella guidata da Monte Giove con il suo eremo che appare come un segnale di casa, risalendo in autostrada verso Fano; a sud quella che viene chiamata di Ferriano, ben riconoscibile per un tratto di ripe franose. Quest’ultima rimane in parte coperta da un cavalcavia e dai capannoni della zona industriale. L’altra invece si staglia netta sopra il piano dei campi come l’inizio di un mondo inscritto in altre geografie. Ogni volta il mio sguardo era richiamato da quella linea di colline che guardavo nelle diverse tonalità della luce e del buio. Come sorgessero dalla terra, che cosa le avesse fatte crescere o portate lì, docili e dolci come gusci rovesciati; appartenevano al mare, che le aveva abbandonate lasciando che la sabbia si mischiasse alla terra e si coprisse di verde, o erano il margine ultimo, dolcissimo, delle nostre montagne? Avrei potuto camminare diritto davanti a me, attraversare il campo di mio zio e un altro paio di campi per arrivare proprio in quel punto in cui la terra iniziava a salire, in quel punto di cui non riuscivo a capacitarmi. Non si lasciava racchiudere dalla ragione, continuava a sfuggirmi come le cose attraversate dalla bellezza, come gli amori più grandi. Si conosce l’oggetto dell’amore riducendolo in parti più comprensibili e dominabili, si argina la piena rovinosa della passione incanalandola verso brani, dettagli. Così io di quella linea di colline isolavo spesso gli alberi: quelli che si stagliavano solitari sull’ultimo crinale, trattenendo tra i rami l’orizzonte, ultimi avamposti della terra; quelli che a piccoli gruppi comparivano ai margini dei campi o si riunivano nelle zone più scoscese; quelli che potevi distinguere al centro di un campo accompagnati a distanza da un altro o da altri due: sostenevano i filari di viti poi scomparsi, sostituiti da culture che richiedono meno la presenza dell’uomo. Attraverso questi superstiti puoi scorgere l’antico volto del campo, il suo fantasma: la pianta ritorta della vite, le grandi foglie che nascondono vespe, cavallette, grappoli d’uva, le schiene chine, le voci che si chiamano da un lato all’altro del filare, le forbici che recidono, i secchi che si riempiono, il trattore che passa a raccogliere. È accaduto lo stesso per i campi in pianura che ho avuto negli occhi e arato nei passi e seminato dei miei giochi molte volte, per tutta l’infanzia. Quando i casolari, ereditati dai miei zii, si sono lentamente trasformati in ville di campagna, i filari di viti sono scomparsi lasciando al centro del campo, soli, due mandorli.
Di quella linea di colline che delimitava il mio orizzonte, lo sguardo ritagliava spesso l’immagine di un colle di una dolcezza disarmante: perfettamente disegnato come un cumulo di sabbia levigato dalla brezza o una ciotola rovesciata. Proprio sulla sua cima si apriva la chioma di un albero, probabilmente una quercia. Trovarsi su quel crinale, accanto a quell’albero, al tramonto, era l’apice di una gioia possibile eppure rinviata nello spazio e nel tempo. Lassù, guardando la valle, ci si sarebbe riempiti di luce come un canestro di frutta. Una riserva che sarebbe durata nei giorni, rilasciando lentamente la sua incandescenza. La sagoma di un uomo che affrontava, accanto a quell’albero, la vastità del cielo, avrebbe colmato anche lo sguardo di chi, dalla valle, l’aveva scorto. O forse era un luogo così perfetto, così profondamente disegnato nello spazio che non poteva tollerare la sovrapposizione di un profilo umano. Era un luogo dello sguardo, un luogo intatto: ciò che restava di uno spazio incontaminato che non avrei mai potuto raggiungere. Non sapevo quale strada vi portasse, e forse avvicinandosi alle colline quel luogo sarebbe sparito, sarebbe diventato invisibile nella sua aura, perso nell’aria, infranto come gli arcobaleni. Di fatto non è mai apparso alcun uomo accanto a quella quercia, per quante sere la vegliassi, e non ho mai intravisto, in innumerevoli spedizioni sui colli, un sentiero di terra o una sterrata di ghiaia risalente verso un crinale che potesse ricordare quella mite onda della terra. Era un miraggio creato dalla lontananza? Esisteva davvero? Sono sicura che al crepuscolo, indistinguibili ai miei occhi, gli animali usciti dalle selve e dai fossi vi transitassero, sostando più di un istante ad annusare la vallata, la nostra debole costellazione di luce.
Tutta la mia infanzia fu attratta da questo confine non segnato fra la pianura e i colli. La mia immaginazione gravitava attorno al punto di congiunzione fra due mondi. Ma non lo raggiunsi mai, non compii mai quel viaggio che avrebbe potuto essere l’avventura di un mattino: tagliare il breve tratto di pianura, salire per i campi o per una delle stradine tortuose e ridiscendere senza che nessuno gridasse il mio nome. Un’impresa che realizzai soltanto nella prima adolescenza, in una delle mie brevi fughe. Arrivai sulla sommità di Monte Giove e in uno dei margini di tufo della strada distinsi un foro con il profilo di un muso. Scavai intorno alla tana per farlo riemergere: era un rospo in letargo. Lo portai via con me, con egoismo adolescenziale, lo segregai in un angolo del giardino, finché l’interesse che mi aveva guidato a lui prese altre direzioni e forme. Qui la memoria ha uno strappo. Lascia entrare una parte di buio. (Forse sono questi i luoghi in cui penetra, attraverso i nostri gesti, l’assurdo, la sua crudeltà). Spero di averlo liberato in un campo, tra il fresco dell’erba, lontano dal ciglio della strada.
Nella mia esperienza delle colline, tra infanzia e adolescenza, è entrata e si è disciolta la voce di Pavese. C’era qualcosa nelle sue parole di nudo e in cammino, qualcosa che procedeva scavando nel petto fino a una verità che affiorava con il sangue. Dalla prigione del Conte di Montecristo e dalla giungla delle tigri di Mompracem, fu lui a traghettarmi verso i libri da cui non ci si potevano più aspettare figure. Gli occhi dovevano seguire una dopo l’altra le frasi e aprire intorno il paesaggio, disegnare i volti, i gesti. Il primo suo libro che ebbi tra le mani fu La luna e i falò. Era mio padre a guidarmi tra le parole, leggendo per me prima del sonno, e ora scegliendo dalla sua biblioteca un libro che mi avrebbe parlato. C’era un messaggio indirizzato a me che avrei compreso leggendo. Mi precipitai subito: poche righe, la prima pagina, ma le parole restavano inerti. Glielo dissi e lui tornò con la sua voce a leggere. Immediatamente distinsi quella cadenza quasi ipnotica che non si può fare a meno di seguire lasciandola risuonare dentro, quel meraviglioso modo che ha Pavese di narrare con l’andatura di chi ha deciso di non nascondere e non nascondersi niente. Una dopo l’altra si riversarono in me tutte le sue frasi, tutti i suoi libri.
Da allora, nei miei occhi che guardavano le colline portavo anche i suoi, cupi e sfuggenti di adulto adolescente, che mi fissavano seri, dietro gli occhiali, dalla copertina di un libro che raccoglieva le sue poesie. Di fronte al mio orizzonte di colline mi chiedevo ogni volta chi avesse il privilegio di abitarci davvero in quelle piccole case che comparivano come tane nella terra, tra un campo arato e una macchia; soprattutto la notte, quando prima del cielo, in quella massa più scura, affioravano punti di luce immersi nel buio compatto. In quegli anni, senza accorgermene, ero scivolata dentro ai pantaloni che dovevo stringere e rivoltare alla vita più volte, mentre le spalle spigolose e le costole che si contavano sembravano proteggermi da un qualche attacco esterno, come fossero la mia parte più dura e indistruttibile, l’armatura che mi era concessa. Nelle fitte di un dolore oscuro sbattevo tra le stanze della casa come un insetto che non trova via di fuga. Una sera d’inverno, con il buio già sceso, mi diressi con il motorino verso le colline di una zona più interna. Era un luogo che avevo appena iniziato a esplorare, perdendomi in alcune sterrate che si diramavano dalla strada che va verso Mombaroccio. Là i fili della luce erano ancora sostenuti da pali in legno che attraversavano i campi inclinandosi leggermente. Quelle colline mi apparivano più vaste, più aperte al cielo di quelle dolci che contenevo negli occhi. Lasciai il motorino al margine della strada e continuai a piedi su un grande campo arato. Andavo verso il buio più folto, avanzando tra le zolle, nel cuore della terra. Camminai fino a che scomparve alla mia vista la strada. Il casolare del padrone era già tramontato alle spalle. C’era soltanto la terra che si inclinava leggermente perdendo ogni confine, entrando sempre più nella notte. Una terra così scura e sconvolta che dovevo seguire con gli occhi ogni passo: ogni istante sembrava sorgere sotto i miei piedi, emergere e ritirarsi. Ero all’inizio del mondo. Una strana grazia mi teneva le mani sollevate e aperte, come uno spaventapasseri attardato nel campo ormai deserto. Passarono alcuni minuti di vuoto purissimo. Poi mi sorprese l’ululato di un cane.
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2015 Franca Mancinelli