Bibliomanie

Per conoscere Lorenzo Giusso
di , numero 37, settembre/dicembre 2014, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Stefano Chemelli, Per conoscere Lorenzo Giusso, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 37, no. 8, settembre/dicembre 2014

Lorenzo Giusso fu anzitutto ispanista di primo rango. Ma non solo, perché egli, nella non lunga ma intensissima parabola creativa, si rivelò davvero di “multiforme ingegno”: homme de lettres eclettico quanto geniale, pensatore inquieto come pochi, viaggiatore instancabile nell’Europa e, più ancora, nello spirito, professore senza fissa dimora, scrittore, poeta, saggista, giornalista, dai diversi toni e dall’infaticabile rabdomanzia tra Francia, Germania e Spagna – la diletta Spagna.
Napoletano, nato il 25 giugno del 1900, aristocratico per stirpe, estrazione sociale e – forse più ancora – per stile di vita, pensiero e scrittura, Lorenzo Giusso viene tuttora considerato da un musicologo straordinario come Piero Buscaroli uno dei maestri decisivi, insieme con Leo Longanesi, Pietro Gerbore, Ettore Paratore, Giovanni De Vergottini, tutti intellettuali dediti a una profondità insieme asistematica e rigorosa, tutti autori capaci di scandagliare i vissuti dei grandi individui, delle personalità in grado d’intrecciare incontri decisivi per l’esistenza di qualsiasi lettore.
Leggere Giusso equivale a calarsi nella storia e nella memoria, in una bibliografia individuale raffinata e coesa, seppur vasta, dove l’intuizione critica si abbina all’estro tumultuoso per l’immagine a effetto, che trova puntuale corrispondenza nella citazione dotta ed esatta, calzante.
Laureato in Lettere e Filosofia a Napoli nel 1924 (ma anche, quasi parallelamente, in Giurisprudenza), allievo di Aliotta e Battaglia, sodale di Adriano Tilgher, Lorenzo Giusso si distingue per una precoce attività di pubblicista sin dagli anni Venti del Novecento, in uno spettro ampio, sia come fine, anticonformista critico letterario, sia come filosofo tout court, sia come storico delle idee filosofiche e scientifiche – l’ambito, forse, in cui ha lasciato i maggiori contributi.
Fedele al respiro europeo, in grado di trovare voce in più testate, affiancando nel tempo una notevole prolificità insieme saggistica e stricto sensu scientifica, che lo porterà, nel ’36, a ottenere la libera docenza in filosofia teoretica e in filosofia morale a Napoli, per proseguire, dal 1938 al 1943, a Cagliari, Bologna, Pisa, in un florilegio di insegnamenti come incaricato di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e letteratura spagnola; per proseguire poi a Monaco, Nizza, Breslavia, Debreczen, Madrid, Barcellona, Salamanca.
Conoscitore profondo e traduttore dal francese, dallo spagnolo e dal tedesco, fu cultore devoto, in particolare, della Spagna e del barocco – la lingua iberica, d’altronde, era da lui ritenuta la più ricca e flessibile. Possono esser considerati suoi capolavori, nell’estesa produzione monografica e saggistica, per la compattezza inusitata, i Tafferugli a Montecavallo (1955), uno studio sul barocco romano, il Bernini e molto altro, nonché la raccolta postuma Autoritratto spagnolo (1959), amorevolmente curata da Alberto Spaini, germanista di fama, per la ERI, quando la Rai investiva in cultura: una serie di lezioni radiofoniche, riunite in forma di libro, sul mondo ispanico, con una sintesi poderosa che non sfigura a fronte degli eminenti affreschi dello storico Americo Castro, usciti in Italia nel 1955 presso Sansoni, raccolti nel fondamentale La Spagna nella sua realtà storica. Il Giusso conversatore radiofonico qui si trasforma in saggista, riconoscendo nelle pagine inedite che possiamo leggere e meditare oggi la medesima verve, il tratto caratteristico dello studioso napoletano inquieto ma dalla luminosa scrittura.
Lorenzo Giusso si spense a Roma l’11 aprile 1957, dopo aver trascorso una vita (autenticamente) liberale, magnanima e senza risparmio, tutta volta al mondo della conoscenza curiosa e articolata.
Amici vicini furono per lui Unamuno e Ortega, compagni di conversari eletti, al pari di altri grandi, osservati da vicino, in monografie di acutezza e versatilità suggestive per il lettore attento e disposto all’osservazione di una scrittura ricca di dettagli e di gusto raffinato: spiccano, tra queste, le pagine dedicate a Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Ortega, agili ma approfonditi strumenti di studio, tenendo ben presenti le approfondite e, talora, illuminanti ricerche filosofiche su Dilthey, Simmel, Spengler, Vico, Ficino, Bruno, Bergson, Rosmini, Gioberti, solo per citare le più importanti. Non secondaria appare anche la sua produzione poetica, più contenuta ma significativa.

L’ampiezza dei suoi interessi fu sempre collocata in un quadro con caratteri unitari, un erudito che sapeva essere poeta, professore, giornalista, con questa inclinazione naturale verso la penisola iberica, intesa anche come paesaggio, intrisa d’entusiasmo verso il Seicento barocco, con una visione della vita come passione e terrore, gusto del macabro e del bello, del bizzarro miscuglio di esperienze molteplici che si richiamano in un vortice a volte conflittuale e variegato di energia vitale.
Umile e capace, chi lo conobbe lo ricorda uomo di alti pensieri e distratto nell’aspetto esteriore, svagato, tutto concentrato nel vedere, nell’insegnare, nel credere, in una maniera di vivere autentica. Un irregolare dal tratto nobile, con il tatto gentile di chi bada al sodo e non ha tempo da perdere, dotato di un simultaneo dono di adattabilità ai vari generi della scrittura, con la ventura di essere filosofo e professore di letteratura, con una propensione verso la visione totale della vita nelle sue venature più speziate.
Un uomo d’altri tempi ma proprio per questo più prezioso, e la sua attualità ce la fornisce la dedizione ai grandi classici, alla voce di Leopardi, che, fatti i dovuti distinguo, era mente composita e filosofica, in grado di non escludere il conflitto e la contraddizione, nel quadro sontuoso di uno scibile mosso e fascinoso, spesso armonico ma anche irto di contrappunti e ostinati. La visione di una Spagna svelata ci accompagna nelle pagine d’apertura di questo volume, che accosta gli amori mediterranei attraverso l’impulso di una ricerca umana capace di contemplare l’assoluto nel dettaglio di un frammento, nell’arabesco romantico che porta alla chiarezza possibile, nell’incertezza di una luce nuova lungo il percorso da intraprendere con una diversa strada da battere.
Il germanista triestino Alberto Spaini riporta alcune battute dell’autore in Autoritratto spagnolo, che con amorevole cura ha ricomposto in una sorta di quadro con cornice, in un richiamo di voci radiofoniche compatte fra varianti e sfumature d’occasione: «Coll’età barocca si inizia l’irruzione delle forze primitive e abnormi, non più guardate con terrore, non più tenute al guinzaglio della Sapienza. Con Rubens irrompono nella pittura gli immani assestamenti, gli scatenamenti di Eolo e di Nettuno, i baccanali e i ratti fauneschi, nei quali la violenza orgiastica cerca ristoro all’ombra di una statua o di un frontespizio allegorico. Con Salvator Rosa, con i maestri olandesi del paesaggio, si installano al posto delle amene villette e dei soavi giardini, sacri alla poetica del Rinascimento, le scabrosità rupestri di una Natura inaccessa, i boschi inestricabili, le dune deserte, le scogliere inesplorate delle navigazioni primitive. Con il Borgognone, con Aniello Falcone, con Luca Giordano si affermano gli urti di cavalieri, le cariche e le sciabolate, mentre Rembrant e Franz Hals si compiacciono di briosi mustacci e delle fanfaronate conviviali dei capitani della milizia civica… Tutto ciò è di poco posteriore al rigurgito delle bestie divinizzate e di divinità imbestiate che scandono il ritmo della ruota delle metamorfosi…».
La prosa dottissima, iperaggettivata, rutilante trascina il lettore in una caleidoscopica rifrazione di accenti e bagliori, ma tutto ciò, all’apparenza guidato dal caso del vago, si ricompone, come d’incanto, in una visione a tutto tondo che cattura, non lascia scampo, arrivando al pensiero illuminante e, a volte, imprevisto, alla battuta icastica che sfida il tempo e la nostra memoria.
Una nota dominante dell’opera di Lorenzo Giusso rimane sottotraccia: l’opposizione, pervicace quanto cortese, all’idealismo crociano, a un dispotismo delle idee inconciliabile col suo modus cogitandi: è il suo un protendere con simpatia verso l’umanità di Leopardi, un abbracciare la nettezza del filologo Nietzsche, un corteggiare la Weltanschauung di Dilthey, un condividere lo sguardo insieme cupo e ardito di Spengler, un soggiacere lucidissimo al fascino straordinario della parola orteghiana.
Nella breve parabola di un’esistenza peraltro intensa, le conversazioni interiori con “spiriti magni” divengono ragione di incontro profondo, nella costruzione quotidiana e personale di una cultura alta, elargita a piene mani in una forma accessibile, con una generosità realmente disinteressata.
La stessa precarietà degli incarichi, delle collaborazioni prestigiose ma temporanee, di una vita condotta sul crinale provvisorio di una solitudine lunga e proficua (si sposerà molto tardi e avrà anche due figli sul finire della sua esistenza), lo sconcerto a fronte di certe sue mise discutibili ed eccentriche, che provocavano scandalo presso gli astanti, sono tratti irriducibili di una personalità in grado, a ogni modo, di dar fuoco a un eloquio prorompente, nonché a una voce piana e ammaliante nella pagina luminosa, mentre sgombrava parimenti il campo da ogni illazione e apriva alla rapita sorpresa.

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