Bibliomanie

Tradurre la forma, tradurre il senso. Oscar di Carol Ann Duffy
di , numero 37, settembre/dicembre 2014, Traduzioni, inediti e rari,

Come citare questo articolo:
Stefano Cavallini, Tradurre la forma, tradurre il senso. Oscar di Carol Ann Duffy, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 37, no. 21, settembre/dicembre 2014

Oggi tutti sappiamo cosa significa “tradurre”, ma chi non ha studiato latino al liceo o lingue e traduzione ed interpretariato all’università, difficilmente saprà che l’origine della parola non ha nulla a che vedere con l’idea di riscrittura linguistica a cui è legato questo termine. Infatti i termini latini utilizzati per indicare una traduzione erano vertere, convertere, interpretari, transvertere, exprimere, explicare, latine reddere, latine disserere e non, come si potrebbe pensare, traducere, che significava spostare, trasferire da un luogo all’altro (da TRANS al di là e DUCERE condurre) e non compare né nel latino antico, né in quello medievale (Sabbadini 1900: 201). Ancora nel 1300 si usava generalmente “traslatare” (rimasto poi nell’inglese “translation”) derivandolo dal participio di transferre. Il concetto moderno del tradurre nasce solo nel 1400, a causa (o grazie) ad un errore di Leonardo Bruni che nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio usa traductum, inteso nel testo come “trapiantato” dal greco al latino, nel senso odierno di “tradotto”. Da quel piccolo errore, involontario o meno che sia stato, il vocabolo traducere è entrato prepotentemente nella lingua italiana e si è affermato cancellando oggi quasi tutti i potenziali sinonimi sopravvissuti sino all’inizio del novecento, come “recare in volgare”, “ritrarre in volgare”, “volgarizzare”. Rare tracce del significato originale di traducere rimangono ai giorni nostri in alcune espressioni derivate dal verbo ducere, come tradurre in catene, duce o il nome proprio Tradotta, titolo della rivista umoristica letta nelle trincee italiane durante la Prima Guerra Mondiale, ma anche nome del treno, simbolo principe del movimento, che trasportava i coscritti da fronte a fronte. Alla luce di questi fatti è difficile considerare la traduzione come una mera copia dell’originale, perché l’idea dello spostamento, della mobilità, è già nella stessa genesi del concetto. D’altronde, anche solo leggere una qualsiasi opera senza in qualche modo cambiarla è probabilmente impossibile. Persino gli amanuensi, il cui compito era ricopiare pedissequamente per la preservazione della conoscenza, cadevano in errori di ortografia da cui nascevano parole nuove.

Sul testo poetico

Che cosa si traduce di un testo? Qual è l’essenza di un testo? È possibile individuare quel nucleo che la traduzione deve preservare e restituire in un’altra lingua? Queste sono alcune domande che probabilmente si pone un traduttore davanti a un testo in una lingua straniera. Le risposte vanno a delineare il profilo di un problema spinoso, che forse possiamo semplificare ricorrendo a un’immagine usata da Roland Barthes per mettere in dubbio l’idea che sia possibile ridurre la complessità di un testo letterario a un solo elemento essenziale, prescindendo dal modo in cui i fili di quel testo sono intrecciati (testo viene infatti dal latino textum, che significa tessuto). Quest’immagine è quella della cipolla, “che è formata da strati tutti ugualmente importanti e necessari” (Barthes 1971, 10 in Nasi 2004), utilizzata per rappresentare la sovrapposizione dei livelli fonologico, metrico, ritmico, semantico di un’opera, tutti secondo Barthes egualmente importanti e tra loro indissolubilmente intrecciati. É opportuno considerare però che l’ idea degli strati in una cipolla si può facilmente collegare a un ordine gerarchico di diversa importanza degli stessi. Infatti, se anche la cipolla non ha un nocciolo, possiede pur sempre una struttura concentrica e quindi un nucleo, costituito da uno strato troppo piccolo per avvolgerne un altro. In questo senso, la metafora della cipolla appare solo come una rinnovata metafora del frutto. Così, più affondiamo il coltello negli strati che circondano il cuore più piangiamo e allo stesso modo, più sprofondiamo nella lettura della poesia, più ci sentiamo colpiti da un determinato aspetto rispetto agli altri che lo rivestono. Del resto, se per ipotesi davvero fossero tutti egualmente importanti, come in una lasagna o una sfogliatella, non sarebbe obbiettivamente possibile privilegiarne solo alcuni.
Siamo convinti che nella poesia più che nella prosa siano evidenti queste problematiche, cercheremo quindi, attraverso la poesia Oscar della raccolta Meeting Midnight di Carol Ann Duffy, di mostrare i differenti modi in cui si può tradurre un testo letterario, provando a concentrarci dapprima sulla forma poetica e in un secondo sul significato dei termini utilizzati.

Sulla forma di un testo poetico

Ogni poesia, secondo James Holmes, teorico di primo piano dei Translation Studies, fa riferimento a una consolidata tradizione formale operante nella cultura letteraria in cui essa viene concepita. Quando si traduce un testo da una cultura letteraria all’altra, non è sempre detto che la forma poetica in cui quella poesia è scritta sia propria anche della cultura d’arrivo. Un sonetto, ad esempio, può esistere in una cultura ma non in un’altra, oppure esistere in forme leggermente diverse. Così il modo di contare un metro può esser differente in due culture. La metrica inglese prevede il computo dei piedi di un verso sulla base degli accenti forti o deboli, la metrica italiana invece conta le sillabe secondo regole particolari, ma gli accenti possono variare. Possiamo aver cioè due endecasillabi con lo stesso numero di sillabe, ma con un numero di accenti forti molto diverso. Holmes in Forme della traduzione in versi e traduzioni in forme del verso. Cioè la forma mimetica, la forma analogica, la forma organica. (Mattioli 2009: 199-200) cerca di capire come un traduttore può operare quando si sposta da una cultura a un’altra. Individua quattro modi principali. Tre sembrano applicabili alla nostra poesia:

la forma mimetica privilegia la forma metrica del testo di partenza e stranierizza la lingua d’arrivo, impone cioè alle modalità del fare poetico della cultura letteraria di arrivo la forma peculiare alla cultura di partenza;
la forma analogica al contrario cerca di sostituire la forma poetica straniera con una forma poetica corrispondente nella tradizione della lingua d’arrivo. Così ad esempio, scrive Holmes, se nella forma poetica della tradizione della cultura di partenza un poema epico è scritto di solito in versi senza rima di cinque piedi giambici (Paradise Lost di Milton) e nella cultura di arrivo per i poemi epici si usa l’ottava (come ad esempio nell’ Orlando Innamorato di Boiardo), assumendo la strategia traduttiva della forma analogica si renderà la tetrapodia giambica con un’ottava;
la forma organica invece di adattare il contenuto alla metrica adatta la metrica al contenuto.

Il traduttore può scegliere una di queste forme, ma deve restare coerente con la scelta fatta se vuole che il suo testo abbia una compattezza formale simile a quella del testo di partenza. Infatti, come suggerisce Berman, la consistenza, compattezza e coerenza formale e semantica del testo di arrivo è una delle cose più importanti nel processo traduttivo. Anche quando si giudica una traduzione, se non si vuole cadere in una banale e sterile ricerca dell’errore traduttivo, bisognerebbe impegnarsi soprattutto a verificare se il testo tradotto funziona in quanto tale e “sospendere ogni giudizio sbrigativo per impegnarsi in un lungo, paziente lavoro di lettura e rilettura della traduzione o delle traduzioni, lasciando completamente da parte l’originale”, perché “il traduttore ha tutti i diritti se agisce lealmente” (Berman 1995, tr. it. 51 in Nasi 2004).

Analisi del Source text

Dopo questa breve premessa metodologica riferita ai modelli traduttivi di Holmes, riporto di seguito la versione originale della poesia, cercando di offrirne alcune chiavi di lettura e di descriverne la struttura formale.

Oscar

Give me the hands of Marlon Brando.
Give me the neck of Gregory Peck.
Give me the smile of Robert de Niro.
Give me the brain of John Wayne.

Give me the eyes of Bette Davis.
Give me the hair of Cher.
Give me the legs of Betty Grable.
Give me it all one more time. I was there.


I significati connotati del testo sono numerosissimi, evidenti e sommersi. Vediamoli in dettaglio: il primo problema è quello dei nomi. Non sono nomi qualunque, essi portano con sé una scia di immagini a cui sono strettamente legati, cifre della cultura di partenza. Per la loro specificità, sono ovviamente intraducibili in italiano. Alcuni sono quasi diventati dei simboli, delle antonomasia o persino delle metonimie. Se dico John Wayne penso al grande eroe, al combattente invincibile e giusto, ma penso anche “epopea” e “vecchio West”; se dico Robert de Niro penso alla comunità italoamericana dell’East degli Stati Uniti, ma anche a “Mafia” e “ghigno”; se dico Marlon Brando penso all’eroe maledetto di “Apocalypse Now” e “Heart of darkness”. Queste sono solo le prime ed automatiche associazioni mentali, ma vi sono altre implicazioni semantiche. Gregory Peck nello slang Cockney significa persona interessante (cool) che tende alla depressione, cinica e leggermente arrogante, ma anche “neck”, collo. Quindi dire “the neck of Gregory Peck” è come dire “il collo del collo” (espressione che in italiano non ha certo molto senso). John Wayne è l’attore che tutti conosciamo, ma è anche il nome di un pluriomicida maniaco americano condannato a morte per 27 omicidi. Conosciuto come Killer Clown, per esser solito intrattenere bambini travestito da pagliaccio col nome di Pogo il Clown e la grande quantità di disegni di clown schizzati a matita, alcune fette del suo cervello sono state conservate in uno scantinato ed analizzate per individuare eventuali anormalità. Probabilmente ha ispirato il libro It di Stephen King. The eyes of Bette Davis è una famosa canzone di Kim Carnes. Le gambe di Betty Grable, considerate le più belle di Hollywood, vennero assicurate dall’attrice per una cifra di 1.000.000 di dollari. Per finire, il titolo stesso è un vincolo, anzi, forse il vincolo che regge tutti gli altri. “Oscar” ammette solo attori che abbiano vinto l’oscar, e questo riduce decisamente la rosa di nomi che potremo utilizzare nella traduzione nel caso volessimo tradurre anche i nomi con personaggi comuni alla cultura d’arrivo che portino con sé alcuni dei significati connotati dei nomi usati nella poesia. Veniamo ora ad alcuni elementi formali della poesia. l’anafora è presente in tutti i versi che cominciano infatti in modo ossessivamente ripetitivo (caratteristica che abbiamo visto propria della poesia di Henri e della Duffy) con la stessa espressione “Give me the”. C’è una sola rima, significativamente tra il terz’ultimo e l’ultimo verso, quasi a voler chiudere foneticamente la composizione (“Cher – there”), ma ci sono diverse rime interne come “neck – Peck”, “brain – Wayne”, “hair – Cher”. Non sono presenti vincoli paratestuali o extratestuali. Il metro utilizzato è piuttosto regolare, caratterizzato da tre accenti forti per ogni verso, (tripodie), secondo il possibile seguente schema accentuale:

UUU__ U__ U__U
UUU__ U__ UU__
UUU__ U__U U__U
UUU__ U__ __

UUU__ U__ U__
UUU__ U__
UUU__ U__U U__
UUU__ UU__ UU__

Il primo piede è un peone quarto che costituisce una tripodia e va da “give” sino alle varie parti del corpo e a “one” nell’ultimo verso. Le caratteristiche principali delle tre sillabe brevi e della lunga che formano il primo piede sono l’isometria e l’anafora di “give me the…”. Dopo l’aggiunta rigorosamente monosillabica di una parola indicante una parte del corpo vi è una forte cesura al mezzo, che divide i versi in due emistichi. Il secondo piede, da “of” sino circa alla prima-seconda sillaba del nome proprio, mantiene una struttura abbastanza rigida per quel che riguarda la metrica, appoggiandosi alla ripetizione della preposizione. Il terzo piede ha invece un andamento metrico più diseguale, perché non sono presenti particolari elementi, iterazioni o figure retoriche, che gli conferiscano regolarità. L’ultimo verso si distingue dagli altri precedenti per la sua cadenza ritmata, evidenziata anche dalla posizione, grazie ad un andamento anapestico di tre sillabe breve-breve-lunga e ad un battito del tipo ta-ta-tam in ognuno dei due piedi finali.
Ora che abbiamo portato alla luce le caratteristiche metriche, ritmiche e rimiche della poesia, potremo decidere come utilizzarle. Prima di proporre le varie traduzioni, è necessario specificare che “Oscar” è una poesia per bambini, e che le differenti conclusioni nate dai diversi approcci non sono da intendersi come passi in direzione di una traduzione perfetta, ma piuttosto come un esempio di confronto ragionato sulle soluzioni possibili.

Si traduce la forma? Traduzioni mimetiche, analogiche, organiche

Traduzione mimetica:

Oscar

Dammi le mani di Marlon Brando.
Dammi il collo di Gregory Peck.
Dammi il sorriso di Robert de Niro.
Dammi il cervello di John Wayne.

Dammi gli occhi di Bette Davis.
Dammi i capelli di Cher.
Dammi le gambe di Betty Grable.
Dammeli tutti di nuovo. Io c’ero.


Come è evidente, si è trascurato di proposito il contenuto sommerso del testo per concentrarsi solamente sulla metrica. Naturalmente, così facendo, le rime e i giochi di parole vengono eliminati. Per ottenere questa forma mimetica, perché imita la metrica dell’originale, è bastato tradurre parola per parola la poesia inglese. L’isometria, la posizione e l’anafora nel primo piede, da “dammi” a “mani” e “tutti” nell’ultimo verso, sono rimaste intatte: era fondamentale che la metrica non cambiasse da un verso all’altro, infatti tutti ed otto i piedi iniziali sono formati da cinque sillabe grazie alla sinalefe tra “dammi” e “il” al secondo verso, così come quelli inglesi sono formati da quattro. Si è conservata anche la cesura centrale dopo il primo piede e la conseguente divisione in due parti della poesia. Il secondo piede inizia con “di” e termina col nome dell’attore, ricalcando la prosodia inglese. Questo, sommato alla ricorrente divisione in tre sillabe, ad esempio nel primo e nel terzo verso, contribuisce a riprodurre il medesimo senso di omogeneità che nel testo di partenza è dato dalle due sillabe breve-lunga del secondo piede. L’ultimo piede, come nell’originale, non ha uno sviluppo ben definito, ma piuttosto vario. Nell’ultimo verso si è mantenuta la divisione in tre sillabe del secondo, “di nuovo” e terzo piede, “io c’ero”. Fortunatamente, la brevità e la ripetitività del testo inglese hanno reso possibile una abbastanza agevole traduzione nella forma mimetica italiana.
Traduzione analogica:

Datemi le mani di Marlon Brando.
Datemi il collo di Gregory Peck.
Datemi il gran sorriso di De Niro.
Datemi il bel cervello di John Wayne.

Datemi gli occhi verdi di Bette Davis.
Datemi i capelli mossi di Cher.
Datemi le gambe di Betty Grable.
Datemi tutto di nuovo. Anch’io c’ero.


La traduzione analogica non sarebbe possibile in questo caso, perché sebbene le poesie e le filastrocche per l’infanzia italiane siano prevalentemente composte da versi pentasillabici, senari o ottonari, si tratta di una metrica spontanea dettata dalla facilità di memorizzazione o al limite da intenti edificanti, e non da un preciso metro applicato sistematicamente a questo tipo di poesia, come per l’epica o i poemi classici. Forse per la posizione storicamente debole della poesia dell’infanzia nella nostra tradizione letteraria, o per la sua stessa natura leggera, questa non è stata regolamentata e quindi non esiste un metro di misura per una poesia in lingua straniera, se non quello del sentimento. Per questo motivo, in mancanza di forme metriche alternative, abbiamo deciso di allontanarci dai territori della poesia per l’infanzia utilizzando l’endecasillabo, verso canonico dell’italiano. Perché tutti i versi risultassero formati da undici sillabe è stato necessario trasformare “dammi” in “datemi”, ricorrere a zeppe come “gran” al terzo verso, “bel” al quarto, “verdi” al quinto, “mossi” al sesto ed eliminare il nome “Robert” al terzo.
Traduzione organica:
Nel caso particolare della poesia Oscar, la traduzione mimetica risulta essere in parte simile a un’ipotetica traduzione organica, cioè una traduzione che si basa sulla preponderanza del contenuto sulla metrica, perché vi è una quasi totale uguaglianza di forme. Dalla prima traduzione mimetica, il testo italiano ha subito qualche lieve modifica solo per quanto riguarda la traduzione analogica, mentre un’eventuale traduzione organica sarebbe identica alla traduzione mimetica.

Si traducono i nomi? Versioni etnocentriche ed etnodevianti

Per ora si sono tentate traduzioni della poesia privilegiando gli aspetti metrico ritmici. Si potrebbe tentare una traduzione preoccupandosi dei contenuti della poesia e ponendosi come obiettivo quello di veicolare il più possibile o quelli originali oppure trovando nella lingua e nella cultura di arrivo degli equivalenti. Si tratterebbe, per riprendere un grande autore come il filosofo tedesco del romanticismo Schleiermacher, o di andare verso l’autore o verso il lettore. Scrive Schleirmacher: “o il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore” (Schleiermacher 1993: 153 in Nasi 2010). Se la poesia esaminata fosse piena di espressioni idiomatiche o di metafore tipiche solo di una particolare cultura sarebbe più facile segnalare la direzione che si è presa. Con una serie di nomi propri, l’alternativa fra le due strategie diventa radicale. Si potrebbe pensare che più che di fronte a una traduzione etnodeviante, che impone alla lingua d’arrivo le peculiarità del testo di partenza, o etnocentrica, in cui al contrario il testo originale viene addomesticato e modificato secondo i parametri sia linguistici che culturali della lingua d’arrivo, ci si trovi di fronte a una traduzione e a una riscrittura o ricreazione o imitazione.
Vediamo in sequenza le traduzioni etnodeviante ed etnocentrica:
Traduzione etnodeviante:

Oscar
Dammi le mani di Marlon Brando.
Dammi il collo di Gregory Peck.
Dammi il sorriso di Robert de Niro.
Dammi il cervello di John Wayne.

Dammi gli occhi di Bette Davis.
Dammi i capelli di Cher.
Dammi le gambe di Betty Grable.
Dammeli tutti ancora una volta. Io c’ero.


La traduzione etnodeviante corrisponde alla traduzioni mimetica e analogico-organica, fatta eccezione per l’ultimo verso. Sono stati lasciati i nomi originali per conservare un punto di vista straniante.
Traduzione etnocentrica:

Oscar
Dammi la pancia di Fellini.
Dammi il cuore di Tornatore.
Dammi il sorriso di de Sica.
Dammi una nota di Rota.

Dammi la bocca di Sophia Loren.
Dammi i panni di Mastroianni.
Dammi lo sguardo della Magnani
Dammeli tutti ancora una volta. Che anni!


In questa versione vi è più attenzione verso il piano rimico-fonologico che verso quello semantico, penalizzato perché non traspaiono i doppi sensi dei versi di partenza. Essendo l’Italia il punto di riferimento e volendo rispettare il vincolo imposto dalla parola “Oscar”, si è fatto attenzione a inserire solo i nomi di attori, registi e compositori italiani, che siano stati nominati all’Oscar o l’abbiano vinto circa nello stesso periodo di quelli presenti nella poesia inglese, o che comunque ne possano evocare le stesse sensazioni. In questo particolare caso, essendo le rime composte da nomi propri di persona, scrivere nomi italiani significa italianizzare la rima. Siamo davanti a una traduzione etnocentrica che addomestica il testo e ha su di noi l’effetto che avrebbe su di un bambino inglese la poesia originale, cioè quello di una bizzarra filastrocca un po’ insensata. Volendo, si sarebbe potuto eliminare ogni forestierismo e sostituire l’ “Oscar” con un premio italiano, come il leone d’oro, ma ormai la statuetta dorata è così conosciuta da essere entrata a pieno titolo nel nostro lessico ed immaginario.
Rileggendo queste righe si avverte però una mancanza, la sensazione personale di aver sottratto alla poesia la sua componente principale: il gioco. Infatti, che cosa sono i versi inglesi se non un gioco di rimandi, di ammiccamenti che l’autrice cela e allo stesso tempo esalta dietro le corrispondenze lessicali, l’armonia gioiosa dell’apparente insensatezza? Che cosa sono se non un gioco con la memoria del lettore e la cultura del mondo anglofono?
La poesia, riprendendo la metafora di Barthes, è tale grazie alla complementarità, alla compattezza tra gli strati e una buona traduzione dovrebbe essere altrettanto coesa, ma finora si è distrutta per necessità la dimensione ludica della poesia di partenza, mentre il cuore del testo è proprio questo travestimento del sensato con l’insensato, del nascosto col superficiale. Purtroppo di fronte al gioco si perde quasi sempre, perché la lealtà verso la strategia traduttiva induce a prediligere solo un aspetto della poesia, una delle sue tante pelli, lacerando ciò che in precedenza era unito. Così, se non possiamo restituire alla poesia la sua unità di forma e contenuto, cercheremo almeno, con la seguente traduzione improntata alla resa del secondo, di restituire il senso del gioco.
Seconda traduzione etnocentrica

Dammi la pancia di Fellini.
Dammi il leone di Sergio.
Dammi il sorriso di de Sica.
Dammi i ghigni del Mostro di Benigni.

Dammi le mani della Magnani.
Dammi Mastroianni anni fa.
Dammi la bocca di Sophia Loren.
Dammeli tutti ancora una volta. Io ero là.


Questa volta si è cercato, pur cercando di rispettarne la forma, di prediligere i doppi sensi della poesia originale, ma il risultato ottenuto appare deludente. “il leone di Sergio”, non ha certo la stessa efficacia combinatoria di “the neck of Gregory Peck” (inoltre Sergio Leone non ha mai vinto l’Oscar né vi è mai stato nominato), il “Mostro” di Benigni gioca sul titolo del film di Benigni “il mostro” e sull’identità toscana del regista per suggerire una similitudine col “mostro di Firenze”, ma l’associazione è capziosa, sfilacciata, o comunque non immediata come quella tra “John Wayne” e “brain”. “Mastroianni anni fa” richiama la canzone di Kim Carnes perché è una frase contenuta nella canzone “giudizi universali” di Samuele Bersani, ma allo stesso tempo, per una fortunata coincidenza, la rima interna “mastroianni – anni” e la rima “fa – là” sostituiscono “Hair – Cher” e “Cher – There” dell’originale. In virtù di questa doppia funzione, la rima ha prevalso sul significato e ha trainato il tutto al sesto verso: si tratta di una compensazione, cioè la ricostruzione di un determinato effetto della poesia in un altro punto, per maggiore comodità e funzionalità del testo nel suo complesso. In ogni caso, anche se si fosse trovata la traduzione perfetta, questa sarebbe risultata appiattita nella sua prospettiva etnocentrica, indispensabile per rendere accessibile ed evidente l’ambiguità della poesia, trasponendo equivalenti citazioni culturali nella cultura d’arrivo. I nomi italiani costituiscono un adattamento che va, come ritiene Kundera, “in direzione di una semplificazione, di una riduzione della complessità dell’opera” (Kundera 2000 in Nasi 2010: 41). Togliendo i nomi inglesi annulliamo le specificità a cui sono legati e il fascino dei sogni ammalianti ed impossibili di successo, progresso e ricchezza, che Hollywood ha sempre proiettato sull’Italia, terra antica di migranti poveri e contadini. Il testo originale è come un sasso che brilla nel fiume della lingua, ma che una volta tolto dall’acqua, diventa grigio e incolore (Grennan 1997 in Nasi 2010: 17). Manderà riflessi diversi a seconda di dove lo metteremo, ma non sarà più illuminato da quella stessa gamma di sfumature e policromie che ne animavano la buccia minerale.
Ora appaiono chiare le due chiavi di lettura della poesia: la prima, quella più superficiale, che si ferma all’aspetto esteriore, è destinata ai bambini di oggi. La seconda, basata su una complessa rete di corrispondenze, è destinata agli adulti, o meglio ai “fanciullini” sopravvissuti dentro gli adulti, gli unici che possono conoscere o ricordare i personaggi elencati, che ad eccezione di de Niro e Cher appartengono ormai a un passato remoto. Forse, quell’io di “I was there” non è, come si potrebbe pensare in un primo momento, Oscar che rimpiange la notte di Hollywood, bensì la ragazzina interiore dell’autrice, commossa al ricordo di quei volti in bianco e nero sullo schermo, o stampati su un giornale. La figura del bambino, che sia ipotetico protagonista della poesia o pubblico a cui questa si rivolge, porta con sé il seme di un interrogativo fondamentale: possiamo affermare con sicurezza che le traduzioni etnodeviante ed etnocentriche sopra riportate siano realmente tali? Se ci affidiamo solo al livello semantico, probabilmente no. Questa è l’era della globalizzazione, della compenetrazione tra i saperi che nasconde l’ignoranza del proprio passato. Dopo decenni di dominio dell’inglese e della cultura americana, dubitiamo che bambini italiani conoscano Rota, de Sica (padre), Tornatore o Anna Magnani, ma invece forse conosceranno, almeno di nome, Marlon Brando, Robert de Niro e John Wayne. Persino i nomi più famosi, Mastroianni, Fellini e Sophia Loren, debbono la loro notorietà presente ad una gloria concessa da un’autorità straniera, cioè l’Accademia degli Oscar. D’altra parte, non si può nemmeno essere sicuri che i bambini inglesi riconoscano come compatrioti Gregory Peck o Betty Grable. Se per esempio elencassimo nella stessa poesia i nomi Robert de Niro e Fellini, alternando verso dopo verso attori stranieri ad italiani universalmente riconosciuti, penso che per un bambino moderno italiano, ma anche straniero, non sussisterebbe la minima differenza per quanto riguarda il senso. Inoltre i giochi di parole della poesia inglese, come ad esempio “the neck of Gregory Peck”, dove “Gregory” significa “collo”, sono difficilmente riconoscibili e probabilmente ignorati dai bambini inglesi come lo sono dai loro coetanei stranieri.
Alla luce di queste problematiche ci sembra che l’unico criterio adottabile per distinguere tra traduzione etnocentrica ed etnodeviante, almeno in questo caso, sia quello della nazionalità degli attori. Se inglese o straniera, si tratta di traduzione etnodeviante, se italiana, di etnocentrica. In questo modo, i termini “Gregory Peck”, “Betty Grable”, “Bette Davis”, “Fellini”, “Tornatore”, “Magnani”, ecc., non sono da vedersi tanto come portatori di significati e riferimenti storici e personali dell’immaginario collettivo, ma piuttosto come puri lemmi della lingua inglese e italiana, all’insegna di un etnocentrismo o un’etnodevianza puramente linguistici.
È necessario ribadire che nessuna delle traduzioni viste finora può dirsi giusta, ma tutte, al netto di errori grammaticali o sintattici, legittime. Come abbiamo visto in questo capitolo, le traduzioni rappresentano il risultato concreto di tanti impulsi diversi legati ai lettori, al tempo e al luogo, che il traduttore deve intercettare e attuare.
Per citare il titolo di un famoso volume di Jean-Luc Nancy, l’essere è Singolare e Plurale (ivi) come un’opera artistica è la somma di tutte le sue riscritture, versioni, interpretazioni nel corso degli anni, così come l’uomo è la somma del bambino, del ragazzo, dell’adulto e del vecchio. Forse potremmo vedere il traduttore come un mercante che cerca di mediare tra tutte queste rielaborazioni ed adattarle al suo tempo, o come un complice dell’autore (Marquez 1991: 348-350), piuttosto che come un rigido legislatore. In sintesi, si potrebbe definire un creatore di proposte senza risposte. L’unica certezza è che la traduzione vivifica l’originale e il libro diventa ponte e soglia tra varie tradizioni, anche se la mescolanza di culture, al contrario di ciò che si pensa, può generare chiusura mentale, conflitti e ignoranza: più si conosce l’altro, più lo si può odiare, più ci si apre al diverso, più questo ci modifica, non sempre in meglio. Più leggo testi inglesi in italiano, meno saprò l’inglese. Questi sono i rischi e le insidie del multiculturalismo, ma il sasso ha bisogno di muoversi, di immettersi in altri fiumi, di essere raccolto e lanciato nel mare, tanto prima o poi, l’acqua ne farà comunque sabbia.

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