Immagine, immaginazione e poesia nella speculazione di Gianvincenzo Gravina
Gaetano Antonio Gualtieri, Immagine, immaginazione e poesia nella speculazione di Gianvincenzo Gravina, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 3, gennaio/giugno 2018
Immagine e immaginazione in relazione ai concetti di «vero», «falso», «verosimile»
Fra le varie incombenze di tipo culturale che Gianvincenzo Gravina (1664-1718) si trova a fronteggiare vi è quella riguardante l’affermazione dell’importante ruolo rivestito dall’immagine nel contesto della filosofia moderna. La gravosità del compito appare ancor più evidente se si considera il fatto che, nel corso della storia, l’immagine, intesa come categoria speculativa, era stata sottoposta ad un depotenziamento sia di tipo ontologico sia di tipo epistemologico1. Il depotenziamento sul piano ontologico era stato dovuto a Platone, al quale va ascritta la teoria secondo la quale l’immagine apparterrebbe all’ordine del non essere; tale concezione, va specificato, risulta preponderante nel filosofo greco, nonostante, in altro contesto, lo stesso Platone ponesse la necessità di affermare una distinzione fra ciò che deve intendersi come buona immagine (eikon) e ciò che deve intendersi alla stregua del semplice e negativo simulacro di colui che imita ciò che appare (eidolon). D’altro canto, è noto che Platone assimilava l’immagine al processo imitativo che viene ritenuto riprovevole, poiché si allontana dal vero e dall’idea2.
Il depotenziamento sul piano epistemologico, invece, è appannaggio del pensiero moderno, tanto nella declinazione razionalista quanto nella declinazione empirista. Descartes inquadra il ruolo dell’immagine all’interno della più ampia questione della rappresentazione, la quale è disincarnata e trasferita «nella evidenza intrinseca dell’idea in quanto immanente al soggetto»3. L’immagine è quindi trasferita nel pensiero, a sua volta riconducibile ad un apparato di idee matematiche e geometriche estrinsecanti i concetti di estensione e di grandezza. Il tutto viene, perciò, riportato a pure dimensioni quantitative e a sistemi di coordinate inquadranti la posizione dell’oggetto rappresentato. Nondimeno, il depotenziamento risulta consistente nel contesto dell’empirismo, dal momento che qui l’immagine è subordinata alla contingenza e alla variabilità delle percezioni isolate, tutt’al più unificate all’interno di fasci di sensazione. Il depotenziamento dell’immagine, dunque, sia esso di tipo ontologico sia esso di tipo epistemologico si deve al fatto che, in un caso come nell’altro, l’immagine e le facoltà ad essa connesse sono subordinate al pensiero o, tutt’al più, costituiscono un ambito poco significativo della dimensione cogitativa o intellettiva.
Il depotenziamento dell’immagine non è presente, invece, in Gravina; nel filosofo calabrese, infatti, il problema dell’immagine costituisce un aspetto rilevante al punto tale da rappresentare il punto di incontro fra attività fantastica e attività poetica. Non a caso, è grazie all’immagine che i concetti di elevata sapienza trovano una loro immediatezza comunicativa anche presso il volgo illetterato. La grandezza dei poeti acclamati dalla storia si deve proprio al fatto di aver avuto la capacità di produrre immagini così vivide e incisive da rimanere scolpite nelle menti di tutti gli uomini4. L’immagine, dunque, secondo Gravina è il dato nevralgico della comunicazione ai più vari livelli, il cui apice viene raggiunto con la poesia.
Il problema dell’immagine, però, non è scisso da una più complessiva questione concernente la rappresentazione, poiché l’immagine è sempre rappresentazione di qualcosa e questo aspetto innesca un’altra problematica che annovera tre possibilità: a) la rappresentazione viene intesa come avente un rapporto di pedissequa e passiva somiglianza con la realtà; b) la rappresentazione è considerata come estrinsecazione di una relazione di contiguità con la realtà; c) la rappresentazione esplicita, in un certo senso, una sorta di distacco dalla realtà, inserendo elementi di novità o fantastici. La questione non è di poco conto ed ha coinvolto vari filosofi nel corso della storia; Platone, ad esempio, riduce la rappresentazione dell’immagine a semplice somiglianza e per ciò stesso la rifiuta, dal momento che essa non fa altro che manifestare l’aspetto esteriore della cosa che imita5. Definita come sembianza l’immagine, per Platone, assume le caratteristiche di una falsa apparenza, da cui consegue la sua estromissione dall’ambito del reale e la sua perdita di valore sul piano conoscitivo.
Più complesso è il secondo caso, riguardante l’adattamento del soggetto alle caratteristiche dell’oggetto, o, in altri termini l’adaequatio rei et intellectus, rispecchiante un modo di esperire l’immagine tipico della cultura moderna. In questo caso, l’immagine viene pensata come rappresentazione intellettuale adeguata alle proprietà dell’oggetto e diventa parte di un dualismo all’interno del quale si attua una sorta di co-appartenenza di soggetto e oggetto. L’adaequatio costituisce quindi la messa in pratica del criterio di verità, in quanto espressione della rappresentazione del mondo reale, così come viene esperito dal soggetto.
Nel Discorso sopra l’Endimione (1692), Gravina sembra proprio rifarsi a tale concezione, in primo luogo per il proposito di fissare i criteri di una «scienza poetica»6 e poi, soprattutto, per il fatto di aspirare al «discernimento del vero dal falso»7. Il compito del poeta è quello di favorire la conoscenza della realtà e per ciò stesso «la sua impresa è di rassomigliar il vero e d’esprimere il naturale con modi, locuzioni e numeri adattati al suggetto che si è proposto»8. La «favola», che è il tessuto narrativo di un racconto intessuto di immagini, deve essere la quintessenza del «vero»9 e i suoi protagonisti devono mostrare gli aspetti veritieri del mondo umano10. La poesia immaginifica si carica, in tal modo, di contenuti conoscitivi che richiedono una grossa capacità osservativa da parte del poeta, cui peraltro non deve mancare neppure un certo grado di immedesimazione, poiché
[C]hi vuol penetrar nell’interno delle leggi e comprender lo spirito del governo è necessario che ben conosca l’indole, il costume e i concetti della bassa gente, a misura e tenor de’ quali son formate le leggi ed è ordinato il tenore del viver civile, il quale tanto più chiaro si discerne, quanto più condizioni, costumi ed affetti di uomini dal poeta ci sono svelati; ed alla fine più si somiglierà il vero, se più si saranno particolarmente descritte di quelle cose e persone che sogliono avvenire ed entrare nello spazio di una impresa, perciocché niuna cosa nel mondo, così naturale, come civile, è semplice, ed in qualsivoglia impresa, quantunque eroica, è mescolata la condizione umile e mediocre11.
All’interno dello stesso Discorso, tuttavia, Gravina evidenzia pure il ricorso alla costruzione e alla rappresentazione dell’immagine in modo fantastico e lo fa utilizzando la parola «finzione», come si deduce dal passo seguente:
E perché tutta questa opera si accompagna con novità e maraviglia, perciò si fa lecito il poeta di trasportar la forza della sua invenzione oltre al corso naturale con fingere i giganti, gl’ippogrifi, i Polifemi, gli Ercoli, i Cerberi, gli orchi, le balene, le fate, ed altri stupori, purché in queste finzioni si ravvisi l’immagine del vero […]. E chi guarderà fisso dentro la tessitura di quegli ordigni, osserverà che il vero sta dentro le favole e troverà che alle volte le istorie di veri nomi tessono false cose e finti fatti, e, all’incontro, le favole perlopiù sotto finti colori e falsi nomi delineano eventi veri, e naturali affezioni ed esprimono i veri geni de’ principi, de’ magistrati e d’ogni persona
12.
La «finzione» introduce un nuovo criterio operativo che designa una modalità non atta a copiare un originale e neppure a rifarsi alla adaequatio, ma innescante un processo di tipo poietico. Nel caso specifico, la «finzione» non va intesa come sinonimo di menzogna, ma, aderendo all’etimologia della parola in cui fingere designa il modellare, con tale parola si fa riferimento alla capacità di produrre una nuova realtà13. Non a caso, Gravina, spingendosi più avanti nel discorso dopo aver mostrato il ruolo pedagogico della poesia, intesa alla stregua di una comunicazione atta ad informare ed educare gli incolti, evidenzia pure il suo ruolo ermetico, in cui la «favola» diventa «velame» di concetti elevati,
quasi nebbia che copriva agli occhi de’ profani la sublimità e lo splendore della sapienza; di modo che la poesia era una sopraveste della filosofia, la quale innanzi al volgo compariva mascherata, per cagione che talvolta sensi sanissimi nelle menti deboli si corrompono e generano opinioni perniciose alla repubblica ed alle virtù morali, onde stimaron bene che tali gemme non si portassero esposte, acciocché le potesse occupare solamente chi potea formarne giusta e sana estimazione
14.
La rappresentazione attraverso la «finzione» provoca, dunque, uno spostamento o uno slittamento dalla concezione dell’immagine intesa come rispecchiamento puntuale del vero alla concezione dell’immagine come «verosimile». In altre parole, si assiste al passaggio da un modo di pensare in chiave ricettivo-passiva (ekstasis) ad una modalità produttiva e attiva (poiesis)15.
Tale spostamento epistemologico diventa ancor più evidente, in Gravina, nelle opere successive, in particolare in Della Ragion Poetica (1708), in cui l’argomentazione abbandona il razionalismo eccessivo del Discorso sopra l’Endimione per manifestare una ricerca di complessità attuantesi mediante un ragionamento più articolato e organico. In Della Ragion Poetica Gravina opera una distinzione netta fra «vero», «finto» e «falso», in cui la costruzione poetica è frutto del «verosimile» e risulta quindi un prodotto della «finzione» che, pur non coincidendo col «vero», tuttavia non rappresenta il «falso».
Se, a tutta prima, queste argomentazioni potrebbero sembrare farraginose e fondate su costruzioni sofistiche, ad un approfondimento della questione esse emergono come espressione di una maturazione del problema epistemologico dell’immagine, della poesia e, più in generale, dell’arte, attraverso una metodologia di ricerca raffinata e organica. Si coglie, fra l’altro, l’urgenza di inserire, all’interno del processo conoscitivo, la facoltà immaginativa, che è dotata di un proprio modus operandi, che non è coincidente con quello della ragione e nondimeno risulta basilare e pregnante per la conoscenza. La concezione della poesia intesa come esplicitazione del «vero» portava all’evidenza una ricerca di validità in tutto simile a quella della scienza, con la conseguenza che l’arte, non potendo competere con l’efficacia epistemica dell’apparato scientifico, rischiava di rivestire un ruolo ancillare rispetto a quest’ultimo. Ragion per cui, l’aver optato per una distinzione fra «vero», «falso» e «finto», con l’introduzione del concetto di «verosimile», conduce Gravina alla elaborazione di uno statuto epistemologico della poesia e dell’arte differente da quello scientifico e dotato di sue specificità.
È ipotizzabile che tale spostamento concettuale si sia prodotto in concomitanza con l’ampliarsi, da parte dell’intellettuale calabrese, degli interessi filosofici, includenti pure il pensiero di Spinoza16. In quest’ultimo, infatti, è possibile notare una certa attenzione per l’immaginazione, in particolare nel II libro dell’Etica, in cui il filosofo olandese sostiene che l’immaginazione, contrariamente a quanto sostenuto correntemente, non è errata in se stessa ma solo se si identifica con una percezione fasulla. Dice, infatti, Spinoza:
Atque hic, ut, quid sit error, indicare incipiam, notetis velim, Mentis imaginationes in se spectatos, nihil erroris continere, sive Mentem ex eo, quod imaginatur, non errare; sed tantum, quatenus conideratur, carere idea, quae existentiam illarum rerum, quas sibi praesentes imaginatur, secludat
17
La forza dell’immaginazione risulta non nella attitudine ad ingannare ma nel produrre immagini adeguate che sappiano ricreare la realtà con il suo apparato di sentimenti, passioni ed affetti, portandoci a comprendere in modo più efficace il mondo che ci circonda. Risulta, pertanto, evidente che, a partire dal Discorso sopra le antiche favole (1696), Gravina opta per una visione della mente non più coincidente in toto con le idee chiare e distinte, ma contemplante l’inclusione al suo interno anche delle idee confuse, a patto che esse seguano un ben preciso ordine18. L’ordo imaginationis compie un amalgama dei frammenti di senso che le si presentano e in tal modo porta all’evidenza ciò che è originariamente incerto, così che si stabilisce una sorta di integrazione fra quel poco di certo che conosciamo e ciò che riusciamo a cogliere o ad ipotizzare19. In questo senso, l’immaginazione rappresenta una forma di conoscenza che, comunque sia, pur nella non totale purezza, certamente collabora con la ragione e si affianca a quest’ultima nel raggiungimento del sapere. Senza l’immaginazione la conoscenza non sarebbe completa, secondo Gravina, poiché mancherebbe una componente importante nella definizione dello scibile umano. Ragione e immaginazione – e i settori nei quali queste due facoltà esercitano maggiormente la loro influenza, cioè la scienza e l’arte – sono, dunque, complementari per ottenere una rappresentazione completa, esaustiva e veritiera della realtà.
Esiste un «vero» della scienza ed esiste un «vero» della poesia o dell’arte. La verità della scienza ha come finalità la conoscenza dei fenomeni naturali, mentre la verità dell’arte ha varie finalità, secondo Gravina, una delle quali è l’intento educativo e pedagogico, consistente nell’istruire il popolo, allo scopo di irrobustire il tessuto sociale di una comunità. In realtà, il problema del «vero» poetico non è frutto di ragionamenti semplici e immediati, ma fa parte di una serie di argomentazioni ed indagini accurate, per compiere le quali il filosofo calabrese richiama un filone di pensiero che, partendo da Platone e passando per le riflessioni fatte nel contesto del Rinascimento, giunge fino ai meccanismi del ragionamento affrontati nel Settecento20. Il punto consiste nel chiedersi se la poesia, e più in generale un’opera d’arte, sia l’esatta riproduzione della realtà e della verità o se piuttosto essa non sia un qualcosa d’altro che rimanda ad un’idea determinata. In questo senso Gravina può ben essere considerato uno dei principali iniziatori dell’estetica.
Il pensatore di Roggiano, infatti, cerca di definire i criteri fondamentali della poesia in un serrato confronto con la scienza, stabilendo che il rigore vigente in quest’ultima non si addice alle opere d’arte, che vanno inquadrate seguendo altri fattori. Ogni serio giudizio sulla poesia non può prescindere dalla ricostruzione del procedimento con cui essa viene elaborata e ricreata. Aspetto basilare ed imprescindibile è che la poesia deve essere rappresentazione vivida delle cose, poiché essa deve competere col «vero»21 e stimolare colui che ne fruisce ad accogliere «il finto nel modo come sogliamo essere disposti verso il vero»22. Non si addice alla poesia l’inverosimiglianza, poiché anche quelle menti che sono gravate dal fardello dell’ignoranza possono facilmente accorgersi dell’inganno e mostrare la loro disistima nei confronti dei componimenti lirici ascoltati o letti:
Quindi è, che si recano a gran vizio nella poesia gl’impossibili, che non sono sostenuti dalla possanza di qualche nume, e gli affetti, costumi, e fatti inverisimili, o non confaccenti al genio, ed indole della persona, che s’introduce, ed al corso del tempo, che si prescrive: perché si fatte sconvenevolezze, con apportare a noi l’immagine di cosa contraria alla favola, che s’espone, ci destano, e ci fanno accorgere del finto
23
Proprio in quanto giocata sul sottile equilibrio vero / falso, l’operazione richiede una grande abilità da parte del poeta, che si avvale dell’apporto dell’immaginazione e della fantasia per tenere desta la coscienza del fruitore. Riprendendo la concezione di Aristotele, che collegava la fantasia alla memoria e al sogno, Gravina sostiene che noi siamo circondati da apparizioni, alcune delle quali, come le sensazioni, provengono dall’esterno, altre, come i sogni, provengono invece dall’interno. Secondo Rosalba Lo Bianco, per Gravina non esistono differenze fra vedere, immaginare, sognare ed essere folle, dove essere folle significa ricevere apparizioni, come accade nei sogni24. Al di là di tutto, comunque, Gravina tiene conto tanto delle concezioni bruniane, che sostengono una distinzione fra phantasia intesa come cognitio particularis, legata ad una dimensione sensitiva, e phantasia intesa come cognitio universalis, legata alla dimensione razionale, quanto delle idee baconiane, più propense ad identificare phantasia e imaginatio25. Nel pensatore calabrese la fantasia, infatti, pur afferendo alla dimensione sensibile, è strettamente connessa con la razionalità. Il fatto è che in Gravina la mente, per quanto possa essere esaminata separatamente, non è scissa dal corpo, anche perché l’individuo è comunque formato pure da componenti passionali ed affettive di cui occorre tenere conto nel momento in cui si esamina l’uomo e le sue relazioni sociali e civili. In questa attenzione per l’interazione fra mente e corpo, il letterato calabrese risente senz’altro dell’influenza del suo maestro e cugino Gregorio Caloprese e delle riflessioni fatte da quest’ultimo sulle teorie cartesiane26
L’uomo, grazie all’immaginazione, può avere un ruolo attivo e poietico, acquisendo centralità ed autonomia. L’immaginazione ha un ruolo fondamentale nella costruzione umana, poiché possiede una forza capace di imporsi sugli animi, condizionandone i comportamenti, le sensazioni, i sentimenti. Da questo punto di vista essa incide pure nel campo della psiche e della morale, con ripercussioni sul piano delle relazioni sociali.
La fantasia/immaginazione si impossessa sia della mente del poeta sia di quelle dei fruitori della poesia prodotta e le trasferisce in un mondo diverso con differenti coordinate temporali e spaziali. Maurizio Ferraris e Tiziana Carena ci aiutano nel delicato compito di individuare quella sottile distinzione fra immaginazione e fantasia. Ferraris sostiene che «[l]’imaginatio dà l’uomo e il cavallo, la phantasia compone il centauro»27, affermando così una concezione poietica più attiva della fantasia rispetto all’immaginazione. La Carena, richiamando le stesse teorie di Ferraris, rafforza tale convinzione, avvicinando l’immaginazione alla memoria28. Ragion per cui, si viene a determinare una compatta facoltà immaginativo-fantastica, la cui funzione è molteplice e si sviluppa attraverso un compito percettivo, memorativo e costruttivo-poietico che genera particolari condizioni nell’animo dei fruitori e del poeta stesso. Questi ultimi – secondo Gravina – vengono trasportati in una dimensione trasognata, poiché
i moti dell’animo nostro non corrispondono all’intero delle cose, e non esprimono l’intrinseco esser loro, ma corrispondono all’impressione, che dalle cose si fa dentro la fantasia, ed esprimono le vestigia da i corpi esterni in essa segnate; chi con altri istromenti, che con le cose reali medesime, desta in noi l’istesse immagini già dalle cose reali impresse, e spinge l’immaginazione nostra secondo il corso, e tenore de i corpi esterni; ecciterà gli affetti simili a quelli, che son destati dalle cose vere, sicome avviene ne i sogni
29.
La poesia scardina le coordinate spazio-temporali determinate dalla nostra consuetudine percettiva e in loro vece istituisce nuove coordinate che stabiliscono nuovi ordini e nuove connessioni fra gli oggetti. All’interno della poesia la «favola» ha il compito di incantare e di trasportare il fruitore in un mondo diverso da quello reale, «[o]nde l’animo in quel punto abbraccia la favola come vera e reale e si dispone verso i finti come verso i veri successi: imperocché la fantasia è agitata dai moti corrispondenti alle sensibili e reali impressioni»30. Tuttavia, l’incantamento non può essere completamente affidato all’arbitrio e la favola non può essere totalmente svincolata dalla realtà; infatti,
[c]hi ben ravvisa nel suo fondo la natura di essa, ben conosce non potersi tessere da chi non ha lungo tempo bevuto il latte puro delle scienze naturali e divine, che sono di questo misterioso corpo l’occulto spirito: poiché dalle cose suddette si comprende che il fondo della favola non costa di falso ma di vero, né sorge dal capriccio ma da invenzione regolata dalle scienze e corrispondente coll’immagini sue alle cagioni fisiche e morali
31.
Essendo una sorta di seconda vista, la poesia possiede anche le caratteristiche della percezione visiva e quindi è sottoposta alle stesse capacità illusorie, con la differenza, però, che la poesia utilizza accortamente l’illusionismo e non ne è preda inconsapevole.
Si è da più parti notato che le argomentazioni graviniane traggono spunto sia dalla Logique di Port-Royal32, da cui il pensatore calabrese mutua il paragone fra la poesia e i rapporti esistenti fra giudizi falsi e giudizi finti, sia dalle nozioni rinascimentali e seicentesche formulate nell’ambito dell’ottica, dalle quali Gravina desume l’analogia fra poesia e rappresentazione prospettica33. Come nella prospettiva le linee si uniscono tutte in un punto, così nella poesia le varie immagini prodotte devono trovare un loro punto di unificazione che è possibile rinvenire nella favola o nel mito.
Il racconto storico non ha lo stesso effetto di quello poetico, dal momento che non possiede la stessa carica affabulatoria; l’uomo infatti ha bisogno di immagini accattivanti per concentrare la sua attenzione su un determinato argomento. Il ruolo educativo della poesia è dovuto proprio a questa caratteristica di persuasione che tocca un po’ tutti gli uomini. Il condimento fantastico non deve però mettere da parte la realtà, poiché è sempre a quest’ultima che la poesia deve fare riferimento. In questo senso risulta fondamentale, per il poeta, accanto all’operato immaginativo-fantastico, anche l’uso della mimesis, tramite cui l’estetica graviniana si accosta alle teorie aristoteliche. L’oggetto poetico, quindi, è frutto di un’elaborazione complessa e articolata, nella quale cooperano più fattori e varie modalità esecutive. All’interno di questo quadro, favola e mito, che rappresentano il cuore narrativo del componimento poetico, vengono analizzati e scomposti secondo criteri sottoposti ad indagini accurate e approfondite.
La posizione di Gravina fra Rivoluzione Scientifica, querelle e Barocco
La Rivoluzione Scientifica aveva prodotto una profonda spaccatura fra arte e scienza, determinando una sorta di rottura insanabile fra le due discipline. Come è noto, nel Rinascimento lo sforzo che gli artisti producevano era volto a far sì che l’arte fosse identificabile con la scienza; un mirabile esempio era costituito da Leonardo da Vinci, il cui metodo operativo era sostanzialmente a carattere empirico e si risolveva in un tentativo di ridurre la contingenza dei fenomeni sensibili alla manifestazione di regolarità intelligibili, vale a dire «a quei costituenti razionali della realtà (il punto, la superficie, la linea) che sono il vero oggetto dell’esperienza rinascimentale»34. Soprattutto, la pittura, per Leonardo, è una scienza in senso eminente, in quanto essa è capace di evidenziare la conformità a regole della realtà; di conseguenza, «[l]a pittura è scienza meccanica […] in una duplice accezione: in quanto scienza manuale, ma anche in quanto scienza che riduce la natura a macchina, che riduce, cioè, la sua contingenza sensibile a regolarità meccaniche e scientifiche»35. Tutto questo subisce una notevole battuta d’arresto nel Seicento, quando, con l’avvento della Rivoluzione Scientifica, si verifica una scissione fra il sapere scientifico, basato sull’esattezza matematica e quantitativa, e le arti poetiche che non sono in grado di mostrare analoghi criteri di oggettività. L’arte si identifica, da quel momento in poi, sempre più con la dimensione soggettiva, dando spazio alle emozioni e ai sentimenti; il risultato più significativo concernente questo aspetto, sul piano filosofico, è «la riduzione della sensibilità a forma residuale del pensiero»36, con la conseguenza di una destituzione della sensibilità stessa dall’affermazione di qualsiasi valore veritativo e conoscitivo. Certo, è vero che, fatta salva la parentesi rinascimentale, la questione del difficile rapporto fra arte e scienza attraversa la storia del pensiero e della cultura. Giova ricordare, a tal proposito, la posizione di Aristotele, che definisce la scienza come l’ambito del «necessario» e l’arte come l’ambito del «possibile»37. Ciò, tuttavia, non diminuisce la portata enorme del problema che si profila agli albori dell’età moderna. La situazione che viene a generarsi produce un forte disagio culturale, nel contesto del settore artistico e poetico, e determina un serio ripensamento sia sotto il profilo metodologico sia per quel che riguarda le finalità stesse dell’operare artistico.
Gli effetti di tale disagio non tardano a farsi sentire sotto forma di discussioni, dibattiti e polemiche, di cui la querelle des anciens et des modernes rappresenta la punta più avanzata. Non a caso, uno degli aspetti principali della querelle, che nacque in Francia, ossia in una nazione fortemente permeata dal cartesianesimo e dai princìpi delineatisi con l’avvento della Rivoluzione Scientifica, fu l’atteggiamento di aperta polemica nei confronti della poesia e, in particolare, di un certo modo di fare poesia, coincidente con le concezioni del Barocco, fenomeno di cui l’Italia era ritenuta fautrice e depositaria.
Nella querelle, come giustamente afferma Manfredi Piccolomini, i francesi erano convinti di incarnare la modernità, vista come sinonimo di progresso, e al contempo additavano gli italiani accusandoli di essere retrogradi e di essere incapaci di promuovere un valido processo di aggiornamento38. Alla base di queste convinzioni vi era una profonda confusione fra metodo scientifico e metodo da usare nell’ambito della poesia e nel campo delle arti. Gli artefici della querelle aspiravano a trasportare il metodo scientifico nel mondo artistico-letterario, commettendo in tal modo ingenui e grossolani errori di pericolosa commistione fra i due settori39. Charles Perrault, ad esempio, nell’opera Poème sur le Siècle de Louis le Grand (1687) sosteneva che occorresse tener conto del perfezionamento tecnico intervenuto nel corso dei secoli anche nel settore dell’arte e della poesia; ragion per cui, un artista come Charles Le Brun era da reputare superiore a Raffaello, poiché quest’ultimo non conosceva quei segreti tecnici di cui, grazie al progresso, era al corrente il primo40. Da ciò conseguiva che l’arte e la poesia dovessero stare al passo con la scienza mutando le loro forme espressive. In più, secondo Perrault, mentre la scienza e la tecnica possedevano una loro valenza conoscitiva e un’utilità pratica indiscusse, le arti poetiche erano una sorta di rifugio nel quale coltivare tutte quelle disposizioni d’animo escluse da ogni orizzonte conoscitivo41. Negli scritti di Perrault, insomma, sono sintetizzati gli aspetti fondamentali della concezione moderna dell’arte: la scissione delle discipline tecnico-scientifiche; l’impossibilità di verificare le questioni riguardanti il gusto e la fantasia e l’impossibilità, infine, di stabilire, per le arti, l’effettivo progresso, cosa che, invece, è possibile fare con le scienze esatte42.
L’avvento della modernità ha portato con sé anche la distinzione fra “cose utili” e “cose inutili”, favorendo l’affermazione di una concezione utilitaristica non solo della società e della politica, ma, quel che è peggio, pure della cultura. Ciò avrebbe successivamente condotto a separare nettamente quelle attività considerate conformi all’utilità dominante, congruenti con gli interessi economici dei gruppi di potere, dalle discipline umanistiche, poiché, come sostiene Nuccio Ordine «[n]ell’universo dell’utilitarismo, infatti, un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro: perché è facile capire l’efficacia di un utensile mentre è sempre più difficile comprendere a cosa possano servire la musica, la letteratura o l’arte»43. Certo, al tempo di Gravina non ci si era ancora spinti a stabilire cosa fosse utile nel senso di profittevole sul piano economico; tuttavia era già emersa, sotto l’influenza della cultura francese, la convinzione che alcune forme di sapere fossero inutili. Del resto, tanto per citare l’esempio di un’opera concepita proprio nel XVII secolo, nel Don Quijote (1615) Miguel de Cervantes fa emergere la riluttanza del protagonista nei confronti di una società che non riesce a concepire azioni slegate da finalità utilitaristiche e quasi per reazione si lascia andare solamente al bisogno di servire i suoi ideali.
In tale contesto, quindi, le discipline artistico-poetiche sono animate dal bisogno di mostrare la loro utilità, cercando di ridefinire epistemicamente lo stesso concetto di utilità. Si era alla ricerca di un tipo di poesia distante dalle svenevolezze del Barocco, i cui componimenti davano man forte alle critiche feroci dei francesi che identificavano tout court quel tipo di poesia con l’Italia e con un modo tipicamente italiano di far poesia. Nicolas Boileau, nell’Art Poétique (1674) afferma: «Laissons à l’Italie. De tous ces faux brillans l’éclatante folie»44, indicando nel Bon sense e nella Raison, esplicitati dal vraisemblable, gli elementi che i poeti devono perseguire. Boileau individuava soprattutto in Tasso il colpevole principale di un modo irrazionale di fare poesia, mentre sosteneva che Omero, Teocrito, Virgilio e Ariosto fossero i modelli del buon senso.
Le idee di Boileau si associano a quelle di Dominique Bouhours che, nell’opera intitolata Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit (1687), nel criticare la poesia italiana, attraverso il dialogo fra Eudoxe e Philante, propone la sua concezione di verità nel campo poetico:
Les pensées […] sont les images des choses, comme les paroles sont les images des pensées; et penser, à parler en général, c’est former en soy la peinture d’un objet on spirituel on sensible. Or les images et les peintures ne sont véritable qu’autant qu’elles sont ressemblantes: ainsi une pensée est vraie, lorsqu’elle représente les choses fidellement; et elle est fausse, quand elle les fait voir autrement qu’elles ne sont elles memes
45.
Gravina si tiene distante dalla disputa che alcuni intellettuali italiani ingaggiano con i francesi in difesa della cultura patria46; per certi versi, anzi, egli mostra di accogliere le osservazioni fatte dai filosofi transalpini alla poesia italiana, evidenziando una posizione disincantata e desiderosa di travalicare i semplicistici ed infruttuosi campanilismi, per giungere a superare l’impasse in cui la cultura italiana si trovava nella seconda metà del Seicento e nei primi decenni del Settecento. Non casualmente, nella speculazione graviniana si ritrovano alcune riflessioni proprio di Boileau e di Bouhours, a cominciare dai modelli di riferimento e dalla necessità di rifarsi agli esempi più autorevoli del mondo antico. Gravina sente come un’urgenza improcrastinabile quella di ridare importanza alla poesia, richiamando il mondo classico ed i suoi valori. La poesia e il diritto sono sottoposti ad una accurata indagine storica, nella quale emergono come dati significativi due elementi: la visione ciclica, fatta di decadenze e rinascite e la concezione metastorica, nella quale emergono quei valori che secondo Gravina sottostanno alla produzione poetica di ogni tempo47. Uno di questi valori è il «verosimile» che contrasta con gli ideali espressi dai poeti barocchi, che hanno falsato la poesia attirandosi giustamente le critiche dei pensatori francesi. Il Barocco rappresenta, secondo Gravina, il momento di decadenza per eccellenza dell’età moderna, così come decadente fu, nel mondo antico, il periodo successivo ad Augusto, in cui scomparendo le libertà politiche anche le arti si avviarono ad un inarrestabile declino. Nella ciclicità ritornano aspetti positivi e aspetti negativi; ad esempio, relativamente a questi ultimi si ritrovano la «dottrina», la «lusinga», le «arguzie», mentre, per contro, il repertorio di valori positivi è costituito dalla «ragione» e dalla «verità»48. Soprattutto, però, le epoche di decadenza come il Barocco confondono i valori, invertendo positivo e negativo; in questo modo, essi finiscono col mettere da parte quei valori metastorici ed universali, per privilegiare fattori che, in un componimento poetico, potrebbero tutt’al più rivestire un ruolo complementare o secondario, come il «meraviglioso», fenomeno che scaturisce dalla riproduzione di fatti nuovi e inusitati. Per consentire al lettore di comprendere meglio il significato dei concetti espressi, Gravina pone due esempi in particolare, l’uno concernente la poesia positiva, l’altro quella negativa; al primo caso egli ascrive la poesia di Ludovico Ariosto, mentre per quanto riguarda la poesia negativa, richiamandosi a Boileau, egli cita Torquato Tasso, colpevole, per giunta, di aver fatto emergere una cultura libresca, anteponendola alla realtà viva. In questa maniera, il poeta della Gerusalemme liberata avrebbe dato troppo spazio a pedantesche regole di retorica e all’esplicitazione di dogmi filosofici che poco hanno a che fare con l’incanto della poesia e con la necessità che essa abbia una valenza didattico-pedagogica. Ben diversamente, Ariosto aderendo «al mondo vivo» riesce a rappresentare con grande realismo i sentimenti e gli affetti umani. Tasso e un altro tipico esponente della poesia barocca, Guarino Guarini, hanno escluso deliberatamente di conferire importanza a questioni fondamentali come il rapporto intercorrente fra storicità, condizione sociale e linguaggio dei personaggi rappresentati:
queste due opere, con le quali Tasso e il Guarino han trionfato di tutta l’antichità, perché non han saputo imitare i pastori, non son pastorali; e perché non hanno imitato né voluto imitare eroi o cittadini, non son né tragedie né commedie; e non si sa qual uman costume da loro sia rassomigliato: sicché non essendo imitazione non son poesia
49.
Gli esempi negativi della poesia moderna non devono scoraggiare i poeti contemporanei, né portare a svilire completamente la poesia, emarginandola o relegandola in un ambito secondario del sapere. Semmai occorre ricavare dal pensiero moderno quei dati che possono fungere da stimolo per una rinascita della poesia, amalgamandoli però con i valori universali della storia della poesia. Si coglie così il fatto che, ciò che anticamente era considerato vero, ossia il mito, in epoca moderna non lo è più. E tuttavia, quelle «favole» o miti mantengono una loro prerogativa di scientificità se solo vengono impiegate seguendo una logica appropriata. Sbagliato è l’utilizzo delle «favole» attuato nel contesto del Barocco, perché l’esagerazione e il meraviglioso, che fungono da tessuto connettivo nelle «favole» elaborate dai poeti di quel movimento, finiscono col realizzare una visione parodistica dei miti, ripercuotendosi negativamente sulla considerazione generale nei confronti della letteratura stessa.
Le concezioni estetiche di Gravina non sono disgiunte da prese di posizione in campo morale, scientifico e filosofico. Relativamente a quest’ultimo punto, il pensatore calabrese evidenzia una chiara opposizione nei confronti della scolastica ed una volontà di richiamarsi alla filosofia naturale di Bruno, Telesio e Campanella, unendola alle teorie cartesiane e gassendiane.
In una più generale concezione gnoseologica, scienza e conoscenza, secondo Gravina, sono possibili solo a patto che si costituisca l’idea suprema a cui la mente rapporta e riconduce tutte le idee particolari e secondarie50. In definitiva, la scienza altro non è che cognizione dell’universale, del necessario e dell’assoluto e le cose particolari diventano scienza solo quando sono sottoposte al vaglio del suddetto concetto di scienza. L’esperienza sensibile è il mezzo attraverso il quale si ridestano le idee presenti sin dall’inizio nell’intelletto. La teoria graviniana della conoscenza, dunque, è imperniata su una compenetrazione di aspetti di carattere platonico con elementi desunti dalla scienza sperimentale; l’esperienza serve ad attivare i processi della mente in cui sono contenute le idee universali51. Qualsiasi giudizio implica come base di partenza una percezione in conseguenza della quale si formula il giudizio stesso52. L’esito di queste argomentazioni porta alla conclusione che l’atto del pensiero è il risultato di un’interazione fra anima e corpo, in cui quest’ultimo oscura la conoscenza rendendo necessaria l’astrazione, che è possibile soltanto nelle menti elevate; le persone comuni, invece, avendo la mente sepolta «sotto le caligini della fantasia», per accedere alla conoscenza hanno bisogno di accorgimenti particolari, che consentano di superare quella coltre di rozzezza che ingabbia il pensiero.
È in questo senso che diventano necessarie le immagini, aventi la funzione di dare sembianza corporea agli alti concetti sapienziali, favorendo così la penetrazione nelle menti volgari degli illetterati. L’individuazione del nesso fra poesia e vita civile porta inevitabilmente a cogliere una nuova concezione di verità, atta a superare il rigido razionalismo cartesiano ed il rigore del giansenismo. L’uso allegorico dei miti rientra pienamente in una più complessiva tendenza a ridurre le figure a simboli e metafore, così come le parole vengono ridotte a segni53. Vi è in Gravina la convinzione che la lingua e la poesia siano riconducibili ad un sistema di segni/simboli da ridefinire in un’ottica moderna; in particolare, la poesia è capace di ridestare i «semi di vero» che giacciono sepolti nell’animo umano, elaborando sotto forma di simboli visivi le «scintille della luce eterna», in modo tale da destare interesse nella gente comune. Sotto questo aspetto, quindi, un po’ tutto il testo graviniano può essere letto all’insegna di un trattato di linguistica, in cui mito e poesia rappresentano segni e simboli di un linguaggio più complessivo, di cui il linguaggio poetico costituisce solo una parte. La storia in quest’ottica diventa davvero maestra, poiché insegna che i miti sono segni e simboli assunti come paradigmi dai poeti antichi. È necessario, secondo Gravina, riappropriarsi di quel repertorio, adeguandolo alle novità del mondo moderno.
Rifacendosi ad un repertorio mitografico consolidatosi almeno a partire dal Rinascimento, Gravina si riallaccia a quei tentativi di elaborazione di una “scienza del mito”54, preoccupati di vagliare con attenzione la portata dei significati dottrinali celati dagli antichi nelle tradizioni mitologiche. La «favola» è un interessante tentativo di fusione di contenuti intellettuali e di un involucro fantastico-immaginativo cui viene delegato un compito affabulatorio. La storia della letteratura insegna che i miti possiedono una grande capacità di porsi in sintonia sia con i fanciulli sia con il volgo; la «favola», tuttavia, per Gravina non è un’elaborazione spontanea del popolo, ma è un artificio creato dai poeti ed originato dalle loro menti razionali, pronte a capire come fare per sfruttare abilmente le accattivanti creazioni mitiche. In questa prospettiva, Gravina concepisce fattori come lo stupore e la meraviglia non più alla stregua di finalità da raggiungere ma come semplici mezzi atti a raggiungere scopi più elevati. Rispetto a Vico, che qualche anno più tardi postulerà una sintesi fra poesia e mito con la ben nota concezione della spontanea mitopoiesi degli uomini primitivi, Gravina evidenzia, invece, una separazione fra poesia e mito, in cui la prima prevale sul secondo, in quanto funge, in un certo senso, da ossatura della comunicazione, mentre il mito ne è la struttura narrativa. La mitologia è la struttura portante della «favola»; la falsità della teologia pagana non inficia l’operato del tessuto mitologico, in quanto essa rimanda comunque ad altre idee che finiranno col costituire un fecondo apparato allegorico, pregno di significati. Da questo punto di vista, se Vico opterà per una concezione del mito intesa come «mito originario», Gravina si mantiene ancora all’interno della visione di un «mito tecnicizzato»55 o di un «mito di riuso»56, ossia una specie di favola usata per conseguire determinati scopi, nel caso specifico l’indottrinamento del popolo ignorante. Ciò che conta per Gravina è che le «favole» siano narrate come fatti storici, in modo da risultare credibili, dando l’impressione di veridicità.
Il concetto di «mito tecnicizzato» così come è utilizzato da Kerényi e da Furio Jesi si riferisce ad una realtà linguistica che non possiede un carattere collettivo, in quanto subisce le restrizioni imposte al flusso mitico da parte di coloro che strategicamente elaborano i miti. Ragion per cui, il «mito tecnicizzato» non afferisce al concetto di logos e non può considerarsi un linguaggio comune all’umanità, ma solo ad un determinato gruppo sociale57. Tuttavia, a ben guardare, Gravina si potrebbe porre, in un certo senso, a metà strada fra la tecnicizzazione del mito e la genuinità del mito, poiché se è vero che la «favola» per il letterato calabrese non è spontanea creazione del popolo ma pensata elaborazione di intellettuali, è altrettanto vero che questi ultimi ambiscono a far sì che i miti diventino il linguaggio di un’intera comunità.
La situazione prospettata da Gravina rispecchia una duplice polarità: da un lato vi è la massa del popolo ignorante, dall’altro vi è il poeta sapiente; da un lato troviamo il volgo che ha bisogno di essere indottrinato, dall’altro l’erudito che deve escogitare qualsiasi mezzo per cercare di educare la comunità. La poesia è il mezzo di cui l’erudito si serve per calare il vero con la giusta intonazione espressiva, utilizzando il mito come narrazione capace di produrre esempi adatti alla comprensione del popolo. Il poeta deve essere un intellettuale engagé, consapevole di svolgere un compito fondamentale sul piano socio-politico; da questo punto di vista, si registra una differenza fra Gravina e Vico, poiché mentre quest’ultimo identifica il poeta e il filosofo, il pensatore di Roggiano distingue, in un certo senso, le due figure, stabilendo che l’intellettuale prima di tutto debba essere un filosofo dotato di profonde conoscenze sapienziali e successivamente debba essere anche un poeta dotato della capacità di calare la scienza nelle menti volgari.
Quello di Gravina è dunque una specie di invito rivolto ai dotti, affinché non si chiudano nelle loro rigide astrazioni intellettualistiche, ma utilizzino la loro conoscenza per il bene pubblico, appropriandosi di un linguaggio semplice e immediato, fondato sulla fantasia e sulle immagini vivide delle «favole».
Note
- Cfr. S. Borutti, Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006, p. XVIII.
- Secondo Jean-Pierre Vernant «[p]er Platone tutto quel che è, nell’uomo, nell’ordine dell’eidōlopoiikē, dell’attività fabbricatrice di immagini, che si tratti di arti plastiche, di poesia, di tragedia, di musica, di danza […], è compreso nel campo della mimētikē, dell’attività imitatrice». J.-P. Vernant, Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 120.
- Si veda S. Borutti, Filosofia dei sensi, cit., p. XVIII.
- «Dante […] gli riuscì di esprimere al vivo con incredibil brevità ed evidenza tutti i costumi, le condizioni e gli affetti con parole pregne d’immagini e con colori poetici sì riguardevoli e vari, che scolpiscono i geni, gli atti, i pensieri e i gesti di tutte le persone». G.V. Gravina, Discorso sopra l’Endimione, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 59.
- «Essere di sembianza, l’immagine è dell’ordine dell’apparire, del phainein: essa si “fa vedere”, come apparenza di ciò che non è. In quanto sembianza, è dunque una falsa apparenza. Essa non manifesta che l’aspetto sensibile della cosa che imita, la sua forma concreta, ciò che ne percepiscono i sensi, nei diversi momenti e secondo differenti prospettive». J.-P. Vernant, Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione, cit., p. 126
- G.V. Gravina, Discorso sopra l’Endimione, cit., p. 51.
- Ivi, p. 52.
- Ivi, p. 55.
- «E chi guarderà fisso dentro la tessitura di quegli ordigni, osserverà che il vero sta dentro le favole». Ivi, p. 56.
- «Negli animi poi di quegli eroi ben si vede scolpito il vero carattere della debole umanità». Ivi, p. 57.
- Ivi, p. 56.
- Ivi, p. 54.
- Hans Vaihinger sostiene che «[f]ictio indica immediatamente l’attività del fingere, e quindi del costruire, formare, strutturare, elaborare, presentare, tecnicizzare, e così anche il rappresentarsi, il pensare, l’immaginare, il supporre, l’abbozzare, l’ideare, l’inventare». H. Vaihinger, La filosofia del come se [1911], Roma, Ubaldini, 1987, p. 87.
- G.V. Gravina, Discorso sopra l’Endimione, cit., p. 59.
- Cfr. S. Borutti, Filosofia dei sensi, cit., p. 3.
- Sull’influenza esercitata da Spinoza su Gravina, si vedano, in particolare: N. Badaloni, La cultura, in Storia d’Italia. Dal primo Settecento all’Unità, 3 voll., Torino, Einaudi, 1973, pp. 751-757; M.G. Pia, Gravina e Vico: la poesia sub specie temporis et imaginationis secondo la metaphisica mentis spinoziana, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XXVI-XXVII (1996-1997), pp. 55-74.
- Traduzione: «Le immaginazioni della mente, viste in sé, non contengono nulla di errato; ossia, la mente non erra per il fatto di immaginare, ma soltanto in quanto la si considera priva dell’idea che esclude l’esistenza di quelle cose che immagina a sé presenti». B. Spinoza, Etica, edizione critica del testo latino e traduzione italiana a cura di P. Cristofolini, Pisa, Ets, 2010, pp. 102-104. Bisogna comunque ricordare che, per Spinoza, il mondo è ordinato «secondo una ferrea, implacabile, matematica necessità, in cui il possibile non ha altro ruolo che di fungere, nell’immaginazione, come alternativa ineffettuale o come unico antecedente dell’ineluttabile. Ma è proprio la sua adeguata comprensione che ci rende liberi, consentendo di inserirci consapevolmente nell’incrocio di catene causali diverse. Gli uomini non saranno perciò in grado, nella loro maggioranza, di diventare eticamente e intellettualmente più liberi, se non incrementeranno la loro potenza di esistere attraverso un passaggio dalla dimensione immaginativa della passività a quella razionale e, da quest’ultima, alla “scienza intuitiva”, accessibile unicamente al saggio». R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 164. Di conseguenza, l’immaginazione, per Spinoza, per quanto contemplata filosoficamente, deve rimanere un aspetto transeunte se si vuole aspirare alla conoscenza piena e alla libertà. Gravina, invece, evidenzia una certa considerazione per la dimensione fantastico-immaginativa, attribuendole, senza remore, un compito costruttivo nella psiche dell’individuo.
- Cfr. M.G. Pia, Gravina e Vico, cit., p. 62.
- Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni, cit., p. 67.
- Cfr. M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, Ravenna, Longo, 1984, pp. 48-49.
- «Or la poesia, con la rappresentazion viva e con la sembianza ed efficace similitudine del vero, circonda d’ognintorno la fantasia nostra e tien da lei discoste l’immagini delle cose contrarie e che confutano la realità di quello che dal poeta s’esprime». G.V. Gravina, Della Ragion Poetica, in Scritti critici e teorici, cit., p. 201.
- Ibidem.
- G.V. Gravina, Delle antiche favole, a cura del Centro Studi “G.V. Gravina”, con un saggio di T. Carena, Cosenza, Edizioni Brenner, 2003, p. 13.
- R. Lo Bianco, Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica, 2001.
- Ibidem
- Relativamente alla figura di Caloprese si veda, fra gli altri, R.A. Syska Lamparska, Letteratura e scienza. Gregorio Caloprese teorico e critico della letteratura, Napoli, Guida, 2005.
- M. Ferraris, L’immaginazione, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 10.
- «Immaginare corrisponde all’etimo latino: memorare. La fantasia pare essere creatrice attiva e l’immaginazione creatrice passiva. Quindi è chiaro che il verosimile, come rappresentazione del finto per mostrare il vero, l’uso della favola e del mito come metafora ideale ed eterna, della dimensione psicosociale, l’entusiasmo come furore, delirio, siano aspetti variegati, che ruotano attorno alla fantasia: strumento primo ed indiscusso della poesia». T. Carena, La scienza poetica: studio critico sulla “favola”, in G.V. Gravina, Delle antiche favole, cit., p. 136.
- G.V. Gravina, Delle antiche favole, cit., p. 12; lo stesso passo è in Id., Della Ragion Poetica, cit., pp. 201-202.
- Id., Della Ragion Poetica, cit., p. 202.
- Ivi, pp. 212-213.
- M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, cit., pp. 67-68; R. Lo Bianco, Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, cit., pp. 74-75.
- «poiché siccome il senso della vista non si può generare quando i raggi non s’uniscono tutti in un punto, così quando la mente è distratta nella varietà dell’immagini, non può formar fisso discernimento, per non poter dirizzare ad una tutte le forze». G.V. Gravina, Della Ragion Poetica, cit., p. 216.
- P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 141.
- Ibidem
- Ivi, pp. 143-144.
- Aristotele, Secondi Analitici, in Organon, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 2003, p. 353, 88b – 89a.
- M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, cit., p. 34.
- Si vedano in merito le riflessioni di Giovanni Macchia, che afferma: «Essi avevano introdotto nelle belle lettere lo spirito e il metodo di Cartesio e giudicavano […] la poesia e l’eloquenza indipendentemente dall’orecchio e dalle passioni, così come si giudicano i corpi indipendentemente dalle loro qualità sensibili. Da ciò essi confusero il progresso della filosofia con quello delle arti». G. Macchia, Il paradiso della ragione, Bari, Laterza, 1964, p. 154.
- Cfr. pure M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, cit., p. 34; R. Lo Bianco, Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica, 2001, p. 24.
- Perrault afferma che: «si les Poëtes Anciens sont excellens, comme on ne peut pas en disconvenir, les Modernes ne leur cedent en rien, et les surpassant mesme en bien des choses». C. Perrault, Preface, in Parallèle des anciens et des modernes en ce qui regarde les arts et les sciences, Paris, Chez Jean Baptiste Coignard, 1688-1692.
- P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, cit., p. 144.
- N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto. Con un saggio di Abraham Flexner, Milano, Bompiani, 2016, p. 11.
- N. Boileau Despreaux, Art Poétique, Chant I, vv. 43-44.
- D. Bouhours, Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit: Dialogues, Paris, Chamoisy, 1688, p. 12.
- Cfr. F. Lomonaco, Le Orationes di G. Gravina: scienza, sapienza e diritto, Napoli, La città del sole, 1997, p. 16.
- M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, cit.
- Ivi, pp. 40-43.
- G. V. Gravina, Della Tragedia, in Scritti critici e teorici, cit., p. 525.
- R. Lo Bianco, Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, cit., p. 36.
- Ibidem
- «Il giudizio intero contiene la cognizione intera di quel che si giudica; il falso parte o nulla […]. I soli sensi non danno la cognizione dei singolari, senza la riflessione della mente, ond’è prodotto l’assenso». G.V. Gravina, Della Ragion Poetica, cit., pp. 200-201.
- M. Piccolomini, Il pensiero estetico di Gianvincenzo Gravina, cit., p. 65.
- F. Jesi, Il mito, Milano, Isedi, 1973, pp. 35-38.
- K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio internazionale su «Tecnica e casistica», Roma, 1964, pp. 153-168; F. Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1981, pp. 35-44.
- M. Belponer, Mito e poesia in Vico e in Gravina, in P. Gibellini (a cura di), Mito e Letteratura dall’Arcadia al Romanticismo, Città di Castello, Tibergraph Editrice, 1993, pp. 37-51.
- F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 36.
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2018 Gaetano Antonio Gualtieri