Figlio di Daniele Mencarelli
Maurizio Clementi, Figlio di Daniele Mencarelli, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 11, gennaio/aprile2014
Sicuramente la nota più appariscente di quest’ultima raccolta di Daniele Mencarelli, Figlio edita da Nottetempo in formato web, è la richiesta di compartecipazione totale al lettore, ancora più evidente che nella precedente raccolta, Bambino Gesù.
Qui l’etica della condivisione con l’altro, nell’esperienza elementare ed universale della paternità, ma anche della maternità e della “figlità”, per così dire, diventa esperienza artistica, prima e talvolta anche al di là dell’alchimia dello lo stile. Questo vuol dire che il racconto scarno e secco della cosa in sé, dei patimenti per Nicolò e per l’altro bambino morto, dello strazio dei genitori, della sofferenza connaturata alla nascita dell’uomo (è questo il succo di tutta la raccolta) è così potente e vero di per sé che non ha bisogno della’artificio della poesia, che passa in secondo ordine.
Non è un caso che le sezioni forse più riuscite siano quella intitolata Parentesi del male e quella finale, Viola. Nella prima il tono e il lessico da referto clinico, il dettaglio freddo, è ben più espressivo della metafora, insistita e in un certo senso obbligata, e dello stesso ermetismo cristiano alla Luzi di versi come “Ti sveglia muta sorpresa” oppure “Ad augurarsi nascita/ senza palpito di vita”. Nell’ultima, l’espressionismo alla Rebora delle poesie iniziali si fissa poi nella stupenda immagine finale della zattera a due piazze, sballottata tra i flutti del male e della storia.
Qualche volta si sente lo sforzo per adeguare l’ispirazione e soprattutto la realtà ad uno strumento, la lingua, che è ormai troppo aduso agli artifici dei poeti confessionali della seconda parte del Novecento. Ben più potente appare un incipit come “Dal greco autòs/ la malattia di chi si basta/ di chi rifiuta la parola prossimo”, dove il richiamo alluso all’autismo, cioè alla realtà nuda e terribile della malattia, che è poi, nella poesia contemporanea il marchio stesso della realtà, diventa nello stesso momento poesia e stile, superando d’un balzo i tormenti del poeta.
Il procedimento poetico da cui più frequentemente nasce poesia, in un contesto del genere, è quindi quello del confronto immediato, della giustapposizione suggerita e consumata, in un’immagine, del superamento della sintesi metaforica nell’approdo finalmente alla poesia drammatica, al vero e proprio frammento drammaturgico, cioè al teatro di poesia, che credo sia l’approdo naturale della poesia di Daniele Mencarelli. Eccone un mirabile esempio: “ L’ora è diventata notte/ si consuma la vigilia sui frantumi della nostra,/ è attesa nel nome Tuo/ mentre altro figlio sfiorisce/ davanti agli occhi del padre/ alla mano che ha sferrato il destino./ Tu nasci su questa terra secca,/ lui alla croce senza nascere./”
Talvolta a creare autentica poesia è sufficiente invece la semplice sentenziosità dell’Antico testamento, in versi bellissimi come questi:” Carne della stessa carne,/ letto accanto a lettino,/ la volta che ti conteneva/ ora è madre e seno”, dove il motivo popolare della madre-casa o tempio è svolto con una musicalità medievale e guittoniana. In ultima analisi un libro potente e sincero sul tema della speranza, e sul male, che nonostante tutto non può vincerla.
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